Dott. Ignazio Madonia
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Scientifico
Aggiornato al 26/02/2020
L'Alzheimer a dieta
Il ruolo della dieta nel Morbo di Alzheimer
Con l'aumentare dell’aspettativa di vita, i disturbi neurodegenerativi, come il morbo di Alzheimer, stanno aumentando. Questa malattia è caratterizzata dall'accumulo di grovigli neurofibrillari intracellulari formati da proteina tau iperfosforilata, placche senili composte da un deposito extracellulare di peptide β-amiloide (Aβ) e perdita neuronale.
Il quadro si accompagna a carenza di funzione mitocondriale, aumento dello stress ossidativo, risposta infiammatoria alterata e compromissione del processo autofagico.
Un gruppo di ricercatori di Madrid ha raccolto le prove scientifiche che dimostrano che nutrienti specifici esercitano un effetto diretto sia sulla produzione di β amiloide che sull'elaborazione di Tau e sulla loro eliminazione mediante l'attivazione dell'autofagia.
Inoltre, alcuni nutrienti possono modulare la risposta infiammatoria e lo stress ossidativo correlato alla malattia.
Senza dimenticare i benefici della dieta mediterranea sulla malattia di Alzheimer che, per la sua ricchezza in molti di questi composti, ha ben note proprietà neuroprotettive.
NUTRIENTI CHE MODULANO L'ALZHEIMER
Con l'aumentare dell’aspettativa di vita, i disturbi neurodegenerativi, come il morbo di Alzheimer, stanno aumentando. Questa malattia è caratterizzata dall'accumulo di grovigli neurofibrillari intracellulari formati da proteina tau iperfosforilata, placche senili composte da un deposito extracellulare di peptide β-amiloide (Aβ) e perdita neuronale.
Il quadro si accompagna a carenza di funzione mitocondriale, aumento dello stress ossidativo, risposta infiammatoria alterata e compromissione del processo autofagico.
Un gruppo di ricercatori di Madrid ha raccolto le prove scientifiche che dimostrano che nutrienti specifici esercitano un effetto diretto sia sulla produzione di β amiloide che sull'elaborazione di Tau e sulla loro eliminazione mediante l'attivazione dell'autofagia.
Inoltre, alcuni nutrienti possono modulare la risposta infiammatoria e lo stress ossidativo correlato alla malattia.
Senza dimenticare i benefici della dieta mediterranea sulla malattia di Alzheimer che, per la sua ricchezza in molti di questi composti, ha ben note proprietà neuroprotettive.
NUTRIENTI CHE MODULANO L'ALZHEIMER
Grassi insaturi (monoinsaturi e polinsaturi)
Gli acidi grassi monoinsaturi (MUFA) sono biomolecole lipidiche contenenti un legame di carbonio insaturo o doppio legame nella loro struttura, mentre gli acidi grassi polinsaturi (PUFA) hanno più di un doppio legame tra i loro carboni.
I PUFA sono costituiti da due gruppi: quelli appartenenti alla serie omega 3 (ω3) e quelli inclusi nella serie omega 6 (ω6). All'interno di queste serie, gli acidi α-linolenico (ω3) e linoleico (ω6) sono acidi grassi essenziali che gli esseri umani devono acquisire dall'assunzione di cibo e dare origine a acidi grassi essenziali a catena lunga mediante allungamenti e desaturazioni.
L'acido arachidonico (AA) viene sintetizzato dall'acido linoleico, mentre l'acido docosaesaenoico (DHA) e l'acido eicosapentaenoico (EPA) provengono dall'acido α-linolenico (ALA).
Il rapporto di ω3 / ω6 gioca un ruolo importante nell’Alzheimer: entrambi i tipi di acidi grassi competono per le stesse desaturasi da incorporare nelle membrane cellulari. Pertanto, quantità più elevate di acidi ω6 ostacolano la conversione in EPA e DHA, con conseguente riduzione dei livelli di questi acidi grassi. Di conseguenza, migliora la sintesi di eicosanoidi proinfiammatori, come prostaglandine, trombossani e leucotrieni. Queste sostanze esercitano funzioni infiammatorie e vasocostrittive che possono aumentare il rischio cardiovascolare e, quindi, la probabilità di soffrire di un disturbo neurodegenerativo.
Al contrario, gli acidi grassi ω3 sono in grado di ridurre l'infiammazione con diversi meccanismi. Possono ostacolare la sintesi di acido arachidonico competendo con gli acidi grassi ω6 e bloccare la conversione dell’acido arachidonico in fattori proinfiammatori tramite l'inibizione della COX-2 mediata dall'EPA.
Inoltre, per ostacolare la produzione di mediatori dell'infiammazione, l'EPA dà luogo a eicosanoidi antinfiammatori e resolvine (serie E) che facilitano la fine dell'infiammazione.
Poiché il processo infiammatorio costituisce uno dei meccanismi essenziali della demenza, gli acidi grassi ω3 possono avere un effetto protettivo dovuto a queste proprietà antinfiammatorie. In uno studio del 2015, J. Thomas e colleghi hanno affermato che si verificano alcuni cambiamenti fisiologici nell'invecchiamento del cervello, come l'esaurimento degli acidi grassi a catena lunga omega 3, e questo processo avviene più velocemente nell'Alzheimer. Questo è coerente con i livelli più bassi di DHA trovati nei pazienti affetti da Morbo di Alzheimer (AD).
Il DHA svolge un ruolo fondamentale nella normale crescita, sviluppo e funzione di un sistema nervoso, nonché nel suo mantenimento e nella conservazione della struttura neuronale. Il DHA può essere incorporato nelle membrane delle cellule neuronali, dove può avere un effetto diretto sull'elaborazione di precursori della beta amiloide, ma anche effetti indiretti dovuti all'alterazione della fluidità delle membrane che può ostacolare il movimento delle proteine, prevenendo interazioni substrato / enzima.
Il DHA potrebbe essere benefico nella patogenesi dell'AD principalmente, ma non solo, riducendo l'infiammazione e diminuendo la deposizione di Aβ nel cervello. In linea con questo, studi epidemiologici supportano l'idea che un consumo insufficiente di DHA sia collegato a un rischio maggiore di sviluppare AD.
La maggior parte degli studi che studiano l’effetto dell’integrazione usano solo ω3 (soprattutto DHA) come nutriente specifico, perdendo eventuali effetti sinergici di cibi interi che li contengono e modelli alimentari definiti.
Vitamine
L'accumulo di ROS nel cervello può essere dovuto a una diminuzione della capacità antiossidante.
Per questo motivo, l'assunzione di frutta e verdura che contengono elevate quantità di vitamine, come vitamina A, C, D ed E, o il complesso B può giocare un ruolo preventivo contro lo sviluppo di AD, grazie in parte alla loro potenziale azione antiossidante.
Livelli più bassi delle vitamine liposolubili, A, D, K ed E, e la vitamina C idrosolubile sono stati associati al declino cognitivo nei pazienti anziani e AD. Come per altre vitamine idrosolubili, livelli più elevati di omocisteina plasmatica totale, un biomarker che riflette lo stato funzionale delle vitamine B6, B9 e B12, è stato incluso tra i fattori di rischio per demenza, declino cognitivo e AD in un recente documento di consenso.
Tuttavia, i benefici della supplementazione vitaminica rimangono poco chiari, specialmente considerando che i loro effetti potrebbero non essere gli stessi in pazienti con background genetici diversi.
La vitamina A è essenziale per lo sviluppo del sistema nervoso in età adulta e infantile, dal momento che protegge dal danno ossidativo ai neuroni embrionali. Queste proprietà antiossidanti sono state confermate sia in modelli in vitro che in vivo di AD, insieme ad effetti antioligomerici e di protezione neuronale. Sono state anche descritte funzioni correlate alla formazione di Aβ e all'infiammazione.
La vitamina E e la sua forma attiva, l'α-tocoferolo, sono solubili nei lipidi e hanno un notevole potenziale antiossidante, quest'ultimo viene assorbito e accumulato nell'uomo, mentre la vitamina C o l'acido ascorbico è solubile in acqua e previene l'ossidazione delle LDL. La letteratura riguardante i loro effetti sull'AD è inconcludente.
Per quanto riguarda il gruppo di vitamine del complesso B, B12, B6 e B9 o acido folico, è stato proposto un loro effetto benefico sull'AD a causa della loro influenza sul ciclo metabolico dell'omocisteina, un amminoacido solforato derivato dal metabolismo della metionina. In questa via metabolica, l'omocisteina diventa S-adenosilmetionina (SAM), che è un donatore di gruppi metilici in altre reazioni metaboliche, compresa la metilazione del DNA. Questo processo coinvolge una serie di cofattori, che sono acido folico (vitamina B9), vitamina B12 e vitamina B6. L'acido folico e la vitamina B12 agiscono in coordinazione per trasformare l'omocisteina in metionina, mentre la vitamina B6 converte l'omocisteina in cisteina. L'acido folico dalla dieta viene trasformato in tetraidrofolato (THF) che a sua volta viene convertito in 5,10-metiltetraidrofolato (5-10 MTHF). Questo composto dà origine alla forma attiva dell'acido folico: il 5-metiltetraidrofolato, che è il composto del donatore del gruppo metilico che consente la produzione di metionina e, di conseguenza, la metilazione del DNA.
Pertanto, un deficit di questi cofattori coinvolti nella via dell'omocisteina blocca il ciclo, aumentando i livelli di omocisteina e ostacolando la metilazione del DNA. L'ipometilazione del DNA attiva le γ- e β-secretasi della via amiloidogenica, promuovendo la produzione di Aβ.
Sono stati proposti altri meccanismi epigenetici, come la deficienza di B12 che induce la presenilina anche a causa dell'ipometilazione del DNA.
L'aumento dell'omocisteina in alcuni casi ha prodotto microinfarti, che erano correlati alla deposizione di Aβ e ai grovigli neurofibrillari, collegandolo quindi alla patologia della demenza.
La somministrazione di vitamine B6, B9 e B12 ha portato ad abbassare l’omocisteinemia e al rallentamento dell'atrofia cerebrale e del declino cognitivo.
Polifenoli
I polifenoli sono sostanze antiossidanti con una potenziale funzione neuroprotettiva contro l'AD poiché sembrano diminuire i livelli di Aβ. Sono ottenuti dal metabolismo secondario delle piante e possono essere trovati nella pelle, nella polpa o nei semi di alcuni alimenti, come l'uva. Sono caratterizzati dalla presenza di un anello aromatico e di uno o più gruppi ossidrili (OH) nella loro struttura. Questi composti possono essere coinvolti nella prevenzione e nel trattamento delle malattie neurodegenerative grazie alle loro proprietà antiossidanti e antinfiammatorie, ma anche attraverso altri meccanismi meno noti, come la loro capacità di modulare le vie del segnale intracellulare e l'espressione genica o azioni che potenziano i mitocondri.
Un alimento ricco di polifenoli è l'olio extra vergine d'oliva utilizzato come principale fonte di grassi monoinsaturi nella dieta mediterranea ma i polifenoli sono un gruppo molto ampio che include vari composti, come catechina, epicatechina, quercetina, resveratrolo, curcumina, ecc.
Catechina ed epicatechina si trovano nel tè verde e appartengono al gruppo dei flavanoli la cui capacità neuroprotettiva è associata alla loro attività antiossidante.
Il resveratrolo è un composto fenolico appartenente alla famiglia degli stilbeni e influenza diversi meccanismi correlati alla patologia dell'AD, come lo stress ossidativo, l'infiammazione o l'elaborazione dei precursori della beta amiloide. Riduce lo stress ossidativo riducendo la sintesi di ossido nitrico e aumentando i livelli di glutatione.
Infine, vale la pena menzionare la curcumina, un antiossidante fenolico della curcuma, che ha numerosi effetti benefici. Il suo potere antiossidante è dovuto ai suoi composti bioattivi (curcuminoidi), che sono in grado di sequestrare i radicali liberi, proteggendo il cervello dalla perossidazione lipidica.
Consumo moderato di alcool
Gli effetti nocivi dell'etanolo sono stati ampiamente dimostrati. Per quanto riguarda i suoi effetti sui disturbi neurologici, è stato confermato che grandi quantità di alcol promuovono un deterioramento cognitivo, producendo un aumento del rilascio di acetilcolina nell'ippocampo che può causare una perdita di memoria e attenzione. Inoltre, sono stati descritti effetti neuroinfiammatori dell’ etanolo sia a livello centrale che periferico.
Tuttavia, è importante considerare che questi studi hanno valutato il consumo di alcol grave. Al contrario, numerosi studi epidemiologici sottolineano il potenziale ruolo benefico di un consumo moderato di alcol riducendo il rischio di demenza, sebbene sia stata riportata una grande variabilità, probabilmente derivante da una combinazione di fattori confondenti, come la popolazione e le differenze individuali, sesso o interazione con farmaci o altre abitudini di vita: un consumo moderato di vino rosso è stato associato a una minore incidenza di AD tra gli uomini, ma a un aumentato rischio di AD nelle donne.
Colesterolo, grassi saturi, trans o grassi idrogenati
Diversi autori confermano che una dieta ricca di grassi saturi (SFA) e di grassi insaturi bassi produce una diminuzione dei livelli di lipoproteine ad alta densità (HDL) e un aumento della lipoproteina a bassa densità (LDL) riducendo l'espressione del recettore LDL nel fegato. Ciò ha una certa influenza sulla patologia dell'AD, sia direttamente che attraverso un aumento indiretto del rischio di malattia cardiovascolare.
Da notare, l'apolipoproteina E gioca un ruolo fondamentale nel metabolismo del colesterolo ed è stata ampiamente correlata alle malattie cardiovascolari e alla demenza, con l'allele APOE ε4 proposto come un importante fattore di rischio per lo sviluppo di AD. Infatti, i portatori di APOE ε4 hanno aumentato le placche amiloidi e tau fosforilati nel loro cervello e possono essere coinvolti in altri processi, come la disfunzione mitocondriale o la compromissione della motilità mitocondriale; anche se i meccanismi specifici sono ancora in discussione e possono costituire un legame tra i livelli di colesterolo e la DA indipendente dalla malattia cardiovascolare. In linea con questo, il metabolismo anormale del colesterolo è indicato come una caratteristica chiave in AD.
Autori: Fernández-Sanz P, Ruiz-Gabarre D, García-Escudero V
Fonte: Diseases. 2019 Jan 26;7(1). pii: E12. doi: 10.3390/diseases7010012.
Link della fonte: https://www.mdpi.com/2079-9721/7/1/12/htm
Gli acidi grassi monoinsaturi (MUFA) sono biomolecole lipidiche contenenti un legame di carbonio insaturo o doppio legame nella loro struttura, mentre gli acidi grassi polinsaturi (PUFA) hanno più di un doppio legame tra i loro carboni.
I PUFA sono costituiti da due gruppi: quelli appartenenti alla serie omega 3 (ω3) e quelli inclusi nella serie omega 6 (ω6). All'interno di queste serie, gli acidi α-linolenico (ω3) e linoleico (ω6) sono acidi grassi essenziali che gli esseri umani devono acquisire dall'assunzione di cibo e dare origine a acidi grassi essenziali a catena lunga mediante allungamenti e desaturazioni.
L'acido arachidonico (AA) viene sintetizzato dall'acido linoleico, mentre l'acido docosaesaenoico (DHA) e l'acido eicosapentaenoico (EPA) provengono dall'acido α-linolenico (ALA).
Il rapporto di ω3 / ω6 gioca un ruolo importante nell’Alzheimer: entrambi i tipi di acidi grassi competono per le stesse desaturasi da incorporare nelle membrane cellulari. Pertanto, quantità più elevate di acidi ω6 ostacolano la conversione in EPA e DHA, con conseguente riduzione dei livelli di questi acidi grassi. Di conseguenza, migliora la sintesi di eicosanoidi proinfiammatori, come prostaglandine, trombossani e leucotrieni. Queste sostanze esercitano funzioni infiammatorie e vasocostrittive che possono aumentare il rischio cardiovascolare e, quindi, la probabilità di soffrire di un disturbo neurodegenerativo.
Al contrario, gli acidi grassi ω3 sono in grado di ridurre l'infiammazione con diversi meccanismi. Possono ostacolare la sintesi di acido arachidonico competendo con gli acidi grassi ω6 e bloccare la conversione dell’acido arachidonico in fattori proinfiammatori tramite l'inibizione della COX-2 mediata dall'EPA.
Inoltre, per ostacolare la produzione di mediatori dell'infiammazione, l'EPA dà luogo a eicosanoidi antinfiammatori e resolvine (serie E) che facilitano la fine dell'infiammazione.
Poiché il processo infiammatorio costituisce uno dei meccanismi essenziali della demenza, gli acidi grassi ω3 possono avere un effetto protettivo dovuto a queste proprietà antinfiammatorie. In uno studio del 2015, J. Thomas e colleghi hanno affermato che si verificano alcuni cambiamenti fisiologici nell'invecchiamento del cervello, come l'esaurimento degli acidi grassi a catena lunga omega 3, e questo processo avviene più velocemente nell'Alzheimer. Questo è coerente con i livelli più bassi di DHA trovati nei pazienti affetti da Morbo di Alzheimer (AD).
Il DHA svolge un ruolo fondamentale nella normale crescita, sviluppo e funzione di un sistema nervoso, nonché nel suo mantenimento e nella conservazione della struttura neuronale. Il DHA può essere incorporato nelle membrane delle cellule neuronali, dove può avere un effetto diretto sull'elaborazione di precursori della beta amiloide, ma anche effetti indiretti dovuti all'alterazione della fluidità delle membrane che può ostacolare il movimento delle proteine, prevenendo interazioni substrato / enzima.
Il DHA potrebbe essere benefico nella patogenesi dell'AD principalmente, ma non solo, riducendo l'infiammazione e diminuendo la deposizione di Aβ nel cervello. In linea con questo, studi epidemiologici supportano l'idea che un consumo insufficiente di DHA sia collegato a un rischio maggiore di sviluppare AD.
La maggior parte degli studi che studiano l’effetto dell’integrazione usano solo ω3 (soprattutto DHA) come nutriente specifico, perdendo eventuali effetti sinergici di cibi interi che li contengono e modelli alimentari definiti.
Vitamine
L'accumulo di ROS nel cervello può essere dovuto a una diminuzione della capacità antiossidante.
Per questo motivo, l'assunzione di frutta e verdura che contengono elevate quantità di vitamine, come vitamina A, C, D ed E, o il complesso B può giocare un ruolo preventivo contro lo sviluppo di AD, grazie in parte alla loro potenziale azione antiossidante.
Livelli più bassi delle vitamine liposolubili, A, D, K ed E, e la vitamina C idrosolubile sono stati associati al declino cognitivo nei pazienti anziani e AD. Come per altre vitamine idrosolubili, livelli più elevati di omocisteina plasmatica totale, un biomarker che riflette lo stato funzionale delle vitamine B6, B9 e B12, è stato incluso tra i fattori di rischio per demenza, declino cognitivo e AD in un recente documento di consenso.
Tuttavia, i benefici della supplementazione vitaminica rimangono poco chiari, specialmente considerando che i loro effetti potrebbero non essere gli stessi in pazienti con background genetici diversi.
La vitamina A è essenziale per lo sviluppo del sistema nervoso in età adulta e infantile, dal momento che protegge dal danno ossidativo ai neuroni embrionali. Queste proprietà antiossidanti sono state confermate sia in modelli in vitro che in vivo di AD, insieme ad effetti antioligomerici e di protezione neuronale. Sono state anche descritte funzioni correlate alla formazione di Aβ e all'infiammazione.
La vitamina E e la sua forma attiva, l'α-tocoferolo, sono solubili nei lipidi e hanno un notevole potenziale antiossidante, quest'ultimo viene assorbito e accumulato nell'uomo, mentre la vitamina C o l'acido ascorbico è solubile in acqua e previene l'ossidazione delle LDL. La letteratura riguardante i loro effetti sull'AD è inconcludente.
Per quanto riguarda il gruppo di vitamine del complesso B, B12, B6 e B9 o acido folico, è stato proposto un loro effetto benefico sull'AD a causa della loro influenza sul ciclo metabolico dell'omocisteina, un amminoacido solforato derivato dal metabolismo della metionina. In questa via metabolica, l'omocisteina diventa S-adenosilmetionina (SAM), che è un donatore di gruppi metilici in altre reazioni metaboliche, compresa la metilazione del DNA. Questo processo coinvolge una serie di cofattori, che sono acido folico (vitamina B9), vitamina B12 e vitamina B6. L'acido folico e la vitamina B12 agiscono in coordinazione per trasformare l'omocisteina in metionina, mentre la vitamina B6 converte l'omocisteina in cisteina. L'acido folico dalla dieta viene trasformato in tetraidrofolato (THF) che a sua volta viene convertito in 5,10-metiltetraidrofolato (5-10 MTHF). Questo composto dà origine alla forma attiva dell'acido folico: il 5-metiltetraidrofolato, che è il composto del donatore del gruppo metilico che consente la produzione di metionina e, di conseguenza, la metilazione del DNA.
Pertanto, un deficit di questi cofattori coinvolti nella via dell'omocisteina blocca il ciclo, aumentando i livelli di omocisteina e ostacolando la metilazione del DNA. L'ipometilazione del DNA attiva le γ- e β-secretasi della via amiloidogenica, promuovendo la produzione di Aβ.
Sono stati proposti altri meccanismi epigenetici, come la deficienza di B12 che induce la presenilina anche a causa dell'ipometilazione del DNA.
L'aumento dell'omocisteina in alcuni casi ha prodotto microinfarti, che erano correlati alla deposizione di Aβ e ai grovigli neurofibrillari, collegandolo quindi alla patologia della demenza.
La somministrazione di vitamine B6, B9 e B12 ha portato ad abbassare l’omocisteinemia e al rallentamento dell'atrofia cerebrale e del declino cognitivo.
Polifenoli
I polifenoli sono sostanze antiossidanti con una potenziale funzione neuroprotettiva contro l'AD poiché sembrano diminuire i livelli di Aβ. Sono ottenuti dal metabolismo secondario delle piante e possono essere trovati nella pelle, nella polpa o nei semi di alcuni alimenti, come l'uva. Sono caratterizzati dalla presenza di un anello aromatico e di uno o più gruppi ossidrili (OH) nella loro struttura. Questi composti possono essere coinvolti nella prevenzione e nel trattamento delle malattie neurodegenerative grazie alle loro proprietà antiossidanti e antinfiammatorie, ma anche attraverso altri meccanismi meno noti, come la loro capacità di modulare le vie del segnale intracellulare e l'espressione genica o azioni che potenziano i mitocondri.
Un alimento ricco di polifenoli è l'olio extra vergine d'oliva utilizzato come principale fonte di grassi monoinsaturi nella dieta mediterranea ma i polifenoli sono un gruppo molto ampio che include vari composti, come catechina, epicatechina, quercetina, resveratrolo, curcumina, ecc.
Catechina ed epicatechina si trovano nel tè verde e appartengono al gruppo dei flavanoli la cui capacità neuroprotettiva è associata alla loro attività antiossidante.
Il resveratrolo è un composto fenolico appartenente alla famiglia degli stilbeni e influenza diversi meccanismi correlati alla patologia dell'AD, come lo stress ossidativo, l'infiammazione o l'elaborazione dei precursori della beta amiloide. Riduce lo stress ossidativo riducendo la sintesi di ossido nitrico e aumentando i livelli di glutatione.
Infine, vale la pena menzionare la curcumina, un antiossidante fenolico della curcuma, che ha numerosi effetti benefici. Il suo potere antiossidante è dovuto ai suoi composti bioattivi (curcuminoidi), che sono in grado di sequestrare i radicali liberi, proteggendo il cervello dalla perossidazione lipidica.
Consumo moderato di alcool
Gli effetti nocivi dell'etanolo sono stati ampiamente dimostrati. Per quanto riguarda i suoi effetti sui disturbi neurologici, è stato confermato che grandi quantità di alcol promuovono un deterioramento cognitivo, producendo un aumento del rilascio di acetilcolina nell'ippocampo che può causare una perdita di memoria e attenzione. Inoltre, sono stati descritti effetti neuroinfiammatori dell’ etanolo sia a livello centrale che periferico.
Tuttavia, è importante considerare che questi studi hanno valutato il consumo di alcol grave. Al contrario, numerosi studi epidemiologici sottolineano il potenziale ruolo benefico di un consumo moderato di alcol riducendo il rischio di demenza, sebbene sia stata riportata una grande variabilità, probabilmente derivante da una combinazione di fattori confondenti, come la popolazione e le differenze individuali, sesso o interazione con farmaci o altre abitudini di vita: un consumo moderato di vino rosso è stato associato a una minore incidenza di AD tra gli uomini, ma a un aumentato rischio di AD nelle donne.
Colesterolo, grassi saturi, trans o grassi idrogenati
Diversi autori confermano che una dieta ricca di grassi saturi (SFA) e di grassi insaturi bassi produce una diminuzione dei livelli di lipoproteine ad alta densità (HDL) e un aumento della lipoproteina a bassa densità (LDL) riducendo l'espressione del recettore LDL nel fegato. Ciò ha una certa influenza sulla patologia dell'AD, sia direttamente che attraverso un aumento indiretto del rischio di malattia cardiovascolare.
Da notare, l'apolipoproteina E gioca un ruolo fondamentale nel metabolismo del colesterolo ed è stata ampiamente correlata alle malattie cardiovascolari e alla demenza, con l'allele APOE ε4 proposto come un importante fattore di rischio per lo sviluppo di AD. Infatti, i portatori di APOE ε4 hanno aumentato le placche amiloidi e tau fosforilati nel loro cervello e possono essere coinvolti in altri processi, come la disfunzione mitocondriale o la compromissione della motilità mitocondriale; anche se i meccanismi specifici sono ancora in discussione e possono costituire un legame tra i livelli di colesterolo e la DA indipendente dalla malattia cardiovascolare. In linea con questo, il metabolismo anormale del colesterolo è indicato come una caratteristica chiave in AD.
Autori: Fernández-Sanz P, Ruiz-Gabarre D, García-Escudero V
Fonte: Diseases. 2019 Jan 26;7(1). pii: E12. doi: 10.3390/diseases7010012.
Link della fonte: https://www.mdpi.com/2079-9721/7/1/12/htm
Prevenire le malattie croniche con la dieta: ecco tutto quello che dice la scienza
La dieta per vivere a lungo come Matusalemme non esiste, ma un’alimentazione corretta può diventare un prezioso alleato della salute. E le evidenze accumulate in anni di ricerche danno indicazioni precise.
Gli alimenti da privilegiare sono: frutta, vegetali, cereali integrali, pesce, oli vegetali, legumi, frutta a guscio, latticini fermentati, caffè. Va limitato al massimo invece il consumo di carni rosse e processate, oltre che delle bevande zuccherate. Il punto su British Medical Journal.
Il business delle diete è sempre stato florido, ma mai come negli ultimi tempi. Ormai infatti alla dieta non si chiede più solo di aiutare a perdere i chili di troppo. Il mantra del terzo millennio (alimentato da studi clinici validi e meno validi, ma troppo spesso strumentalizzati da individui di pochi scrupoli, ai danni di pazienti ignari o esasperati dal logorio imposto dalla cronicità di una condizione di malattia) è quello della dieta fatta per guarire, da affiancare come strumento di cura alle classiche medicine. E qualcuno si spinge oltre, affermando che con la dieta si possono addirittura curare e guarire una serie di patologie. Messaggi pericolosi e fuorvianti naturalmente, sui quali è giusto ogni tanto fermarsi a fare chiarezza per distinguere la realtà dal mito millantato.
Ed è quello che hanno cercato di fare Matthias B Schulzee colleghi sull’ultimo numero del British Medical Journal.
Studi di intervento e studi osservazionali.
La prima distinzione da fare, esaminando gli studi di nutrizione, è tra quelli di intervento e quelli osservazionali. Nei primi si può essere certi dei pattern alimentari in quanto direttamente definiti dai ricercatori; dei secondi non si può avere certezza dei cosiddetti food pattern (quantità, proporzioni, varietà, combinazioni di diversi alimenti e bevande, frequenza con la quale vengono consumati), anche perché in genere auto-riferiti dai partecipanti.
Va da sé che le evidenze più robuste sono quelle che derivano dai trial clinici randomizzati, visto che il loro disegno minimizza il rischio di bias. Ma la maggior parte dei dati disponibili deriva dagli studi osservazionali sull’assunzione di cibi e il rischio di patologie croniche. Gli studi di coorte prospettici hanno contribuito in maniera sostanziale nell’arco degli ultimi 60 anni alle conoscenze attuali, mentre le revisioni sistematiche sommarizzano i dati provenienti da questi studi ed estrapolano l’importanza di singoli cibi e di pattern dietetici nella prevenzione delle malattie croniche.
Alimenti e malattie, alimenti e salute.
Un elevato consumo di cereali integrali è stato correlato ad una riduzione del rischio per la maggior parte degli endpoint; al contrario l’assunzione di carni processate e di carni rosse non processate si associata ad un aumento di questo rischio. Queste sono le due punte estreme dei cibi salutari da una parte e di quelli nocivi per la salute dall’altra. In mezzo c’è l’universo mondo degli alimenti, per i quali ci sono evidenze meno consistenti e soprattutto spesso relative ad una singola patologia. Ad esempio, il consumo di frutta e verdura è associato ad un minor rischio di cancro, infarto e ictus ma non di diabete di tipo 2.
Ancora più incerto è il ruolo dei latticini; quelli fermentati sembrano correlati in maniera più convincente ad un abbattimento del rischio di malattie cardio-metaboliche, come anche il consumo di latticini in genere sembra rilevante rispetto al cancro del colon retto. Le bevande zuccherate sono correlate ad un aumentato rischio di diabete di tipo 2, coronaropatia, ictus. Il consumo di caffè (l’optimum viene fissato sulle 3-5 tazze al giorno) è correlato invece ad un ridotto rischio di diabete di tipo 2, di malattie cardiovascolari, di svariati tumori.
Gli studi di corte prospettici hanno associato la dieta mediterranea ad un ridotto rischio di cancro, diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari; risultati analoghi vengono anche dallo studio PREDIMED, sulla dieta mediterranea integrata da olio d’oliva e frutta a guscio (riduzione del 30% degli eventi cardiovascolari nel gruppo di intervento; con benefici anche rispetto a arteriopatia periferica, fibrillazione atriale, diabete di tipo 2, cancro della mammella).
E sebbene altri pattern dietetici (Healthy Eating Index, Alternative Healthy Eating Index, Dietary Approaches to Stop Hypertension trial) siano risultati associati ad un ridotto rischio di eventi cardiovascolari, cancro, diabete di tipo 2, solo la dieta mediterranea ha dimostrato di poter ridurre il rischio di queste malattie tanto negli studi osservazionali che in quelli randomizzati.
Molte diete famose mancano di studi a lungo termine.
Le diete vegetariane sono state correlate ad un ridotto rischio di diabete di tipo 2, cancro e coronaropatia negli studi di coorte prospettici. Pochi sono stati invece gli studi che hanno valutato le diete vegane. E i pattern alimentari delle diete vegetariane e di quelle vegane sono molto eterogenei, per cui non è facile, né lecito, estrapolare i risultati delle une alle altre. E dall’altra parte, una dieta vegetariana non implica necessariamente un elevato consumo di frutta e vegetali. Potrebbe addirittura rivelarsi non salutare qualora dovesse contenere prevalentemente carboidrati e cibi processati.
Mancano in letteratura revisioni sistematiche sugli effetti a lungo termine di altre diete molto famose, quali la paleolitica, la Atkins, la ‘Zona’, la Ornish, la South Beach e le diete prive di glutine. Alcune evidenze derivano da coorti prospettiche individuali.
Una dieta gluten-free applicata ad una popolazione di soggetti non celiaci ha rivelato addirittura un aumentato rischio di coronaropatia, probabilmente legato al minor consumo di cereali integrali.
Una dieta di tipo ‘paleolitico’ è risultata associata in maniera inversa alla mortalità, anche se in modo meno convincente della dieta mediterranea. La dieta paleolitica comprende un alto apporto di frutta, verdura, pesce e oli e un ridotto consumo di cibi addizionati di zucchero.
Molte diete infine sono famose soprattutto perché fanno peso, ma mancano dati circa il loro impatto sulle patologie croniche. Gli studi randomizzati hanno comunque dimostrato che queste diete sono tutte più o meno efficaci per la perdita di peso e che lo scoglio fondamentale per arrivare all’obiettivo è l’aderenza.
Analizzando i pattern dietetici specifici di una data popolazione con metodi statistici sono state individuate alcune indicazioni comuni: un elevato consumo di carni processate, cereali raffinati, latticini ad alto contenuto di grassi, uova e cibi fritti si associa al rischio di diabete di tipo 2 e di cancro del colon retto. Al contrario un elevato consumo di vegetali, legumi, frutta, pollame e pesce è inversamente associato a queste patologie.
I pattern dietetici caratterizzati da un elevato consumo di cereali raffinati, carni processate e bevande zuccherate sono fortemente associati al rischio di diabete di tipo 2.
Il take home message.
In conclusione, un approccio dietetico mirato alla prevenzione delle malattie croniche dovrebbe privilegiare il consumo di frutta, vegetali, cereali integrali e pesce; allo stesso tempo bisognerebbe limitare il consumo di carni rosse e processate e di bevande zuccherate. Ulteriori benefici possono derivare dal consumo di frutta a guscio (es. noci), legumi, oli vegetali, latticini fermentati (es. yogurt), caffè.
Gli studi attualmente a disposizione sull’argomento sono per lo più prospettici osservazionali ; più limitati sono gli studi di intervento. Tutti hanno punti di forza e limiti. Ma è necessario definire nuovi approcci analitici per la ricerca in campo nutrizionale.
Autore: MR Montebelli
Fonte: Quotidiano Sanità
Gli alimenti da privilegiare sono: frutta, vegetali, cereali integrali, pesce, oli vegetali, legumi, frutta a guscio, latticini fermentati, caffè. Va limitato al massimo invece il consumo di carni rosse e processate, oltre che delle bevande zuccherate. Il punto su British Medical Journal.
Il business delle diete è sempre stato florido, ma mai come negli ultimi tempi. Ormai infatti alla dieta non si chiede più solo di aiutare a perdere i chili di troppo. Il mantra del terzo millennio (alimentato da studi clinici validi e meno validi, ma troppo spesso strumentalizzati da individui di pochi scrupoli, ai danni di pazienti ignari o esasperati dal logorio imposto dalla cronicità di una condizione di malattia) è quello della dieta fatta per guarire, da affiancare come strumento di cura alle classiche medicine. E qualcuno si spinge oltre, affermando che con la dieta si possono addirittura curare e guarire una serie di patologie. Messaggi pericolosi e fuorvianti naturalmente, sui quali è giusto ogni tanto fermarsi a fare chiarezza per distinguere la realtà dal mito millantato.
Ed è quello che hanno cercato di fare Matthias B Schulzee colleghi sull’ultimo numero del British Medical Journal.
Studi di intervento e studi osservazionali.
La prima distinzione da fare, esaminando gli studi di nutrizione, è tra quelli di intervento e quelli osservazionali. Nei primi si può essere certi dei pattern alimentari in quanto direttamente definiti dai ricercatori; dei secondi non si può avere certezza dei cosiddetti food pattern (quantità, proporzioni, varietà, combinazioni di diversi alimenti e bevande, frequenza con la quale vengono consumati), anche perché in genere auto-riferiti dai partecipanti.
Va da sé che le evidenze più robuste sono quelle che derivano dai trial clinici randomizzati, visto che il loro disegno minimizza il rischio di bias. Ma la maggior parte dei dati disponibili deriva dagli studi osservazionali sull’assunzione di cibi e il rischio di patologie croniche. Gli studi di coorte prospettici hanno contribuito in maniera sostanziale nell’arco degli ultimi 60 anni alle conoscenze attuali, mentre le revisioni sistematiche sommarizzano i dati provenienti da questi studi ed estrapolano l’importanza di singoli cibi e di pattern dietetici nella prevenzione delle malattie croniche.
Alimenti e malattie, alimenti e salute.
Un elevato consumo di cereali integrali è stato correlato ad una riduzione del rischio per la maggior parte degli endpoint; al contrario l’assunzione di carni processate e di carni rosse non processate si associata ad un aumento di questo rischio. Queste sono le due punte estreme dei cibi salutari da una parte e di quelli nocivi per la salute dall’altra. In mezzo c’è l’universo mondo degli alimenti, per i quali ci sono evidenze meno consistenti e soprattutto spesso relative ad una singola patologia. Ad esempio, il consumo di frutta e verdura è associato ad un minor rischio di cancro, infarto e ictus ma non di diabete di tipo 2.
Ancora più incerto è il ruolo dei latticini; quelli fermentati sembrano correlati in maniera più convincente ad un abbattimento del rischio di malattie cardio-metaboliche, come anche il consumo di latticini in genere sembra rilevante rispetto al cancro del colon retto. Le bevande zuccherate sono correlate ad un aumentato rischio di diabete di tipo 2, coronaropatia, ictus. Il consumo di caffè (l’optimum viene fissato sulle 3-5 tazze al giorno) è correlato invece ad un ridotto rischio di diabete di tipo 2, di malattie cardiovascolari, di svariati tumori.
Gli studi di corte prospettici hanno associato la dieta mediterranea ad un ridotto rischio di cancro, diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari; risultati analoghi vengono anche dallo studio PREDIMED, sulla dieta mediterranea integrata da olio d’oliva e frutta a guscio (riduzione del 30% degli eventi cardiovascolari nel gruppo di intervento; con benefici anche rispetto a arteriopatia periferica, fibrillazione atriale, diabete di tipo 2, cancro della mammella).
E sebbene altri pattern dietetici (Healthy Eating Index, Alternative Healthy Eating Index, Dietary Approaches to Stop Hypertension trial) siano risultati associati ad un ridotto rischio di eventi cardiovascolari, cancro, diabete di tipo 2, solo la dieta mediterranea ha dimostrato di poter ridurre il rischio di queste malattie tanto negli studi osservazionali che in quelli randomizzati.
Molte diete famose mancano di studi a lungo termine.
Le diete vegetariane sono state correlate ad un ridotto rischio di diabete di tipo 2, cancro e coronaropatia negli studi di coorte prospettici. Pochi sono stati invece gli studi che hanno valutato le diete vegane. E i pattern alimentari delle diete vegetariane e di quelle vegane sono molto eterogenei, per cui non è facile, né lecito, estrapolare i risultati delle une alle altre. E dall’altra parte, una dieta vegetariana non implica necessariamente un elevato consumo di frutta e vegetali. Potrebbe addirittura rivelarsi non salutare qualora dovesse contenere prevalentemente carboidrati e cibi processati.
Mancano in letteratura revisioni sistematiche sugli effetti a lungo termine di altre diete molto famose, quali la paleolitica, la Atkins, la ‘Zona’, la Ornish, la South Beach e le diete prive di glutine. Alcune evidenze derivano da coorti prospettiche individuali.
Una dieta gluten-free applicata ad una popolazione di soggetti non celiaci ha rivelato addirittura un aumentato rischio di coronaropatia, probabilmente legato al minor consumo di cereali integrali.
Una dieta di tipo ‘paleolitico’ è risultata associata in maniera inversa alla mortalità, anche se in modo meno convincente della dieta mediterranea. La dieta paleolitica comprende un alto apporto di frutta, verdura, pesce e oli e un ridotto consumo di cibi addizionati di zucchero.
Molte diete infine sono famose soprattutto perché fanno peso, ma mancano dati circa il loro impatto sulle patologie croniche. Gli studi randomizzati hanno comunque dimostrato che queste diete sono tutte più o meno efficaci per la perdita di peso e che lo scoglio fondamentale per arrivare all’obiettivo è l’aderenza.
Analizzando i pattern dietetici specifici di una data popolazione con metodi statistici sono state individuate alcune indicazioni comuni: un elevato consumo di carni processate, cereali raffinati, latticini ad alto contenuto di grassi, uova e cibi fritti si associa al rischio di diabete di tipo 2 e di cancro del colon retto. Al contrario un elevato consumo di vegetali, legumi, frutta, pollame e pesce è inversamente associato a queste patologie.
I pattern dietetici caratterizzati da un elevato consumo di cereali raffinati, carni processate e bevande zuccherate sono fortemente associati al rischio di diabete di tipo 2.
Il take home message.
In conclusione, un approccio dietetico mirato alla prevenzione delle malattie croniche dovrebbe privilegiare il consumo di frutta, vegetali, cereali integrali e pesce; allo stesso tempo bisognerebbe limitare il consumo di carni rosse e processate e di bevande zuccherate. Ulteriori benefici possono derivare dal consumo di frutta a guscio (es. noci), legumi, oli vegetali, latticini fermentati (es. yogurt), caffè.
Gli studi attualmente a disposizione sull’argomento sono per lo più prospettici osservazionali ; più limitati sono gli studi di intervento. Tutti hanno punti di forza e limiti. Ma è necessario definire nuovi approcci analitici per la ricerca in campo nutrizionale.
Autore: MR Montebelli
Fonte: Quotidiano Sanità
BIA in multifrequenza, ottima!
Valuta i cambiamenti della composizione corporea al pari della DEXA
Uno studio americano condotto in Texas ha valutato la capacità di analisi dell’impedenza bioelettrica in multifrequenza (MF-BIA) nel determinare variazioni nella composizione corporea totale e segmentale tramite un programma di allenamento di resistenza di 10 settimane (RT) in confronto alla DEXA.
Ventuno giovani volontari maschi (media ± DS, età = 22,9 ± 3,0 anni, altezza = 175,5 ± 5,9 cm, massa corporea = 82,9 ± 13,6 kg, indice di massa corporea = 26,9 ± 3,6) hanno eseguito un programma RT che includeva esercizi per tutti gruppi muscolari importanti.
La composizione corporea è stata valutata utilizzando entrambi i metodi prima e dopo l'intervento; i punteggi del cambiamento sono stati determinati sottraendo i valori pre-test dai valori post-test.
Le variazioni medie non erano significativamente diverse quando si confrontavano MF-BIA con DXA per [INCREMENTO]% di grasso corporeo (-1,05 vs -1,28%), [INCREMENTO] di massa grassa (-1,13 vs -1,19 kg) e FFM (0,10 vs 0,37 kg, rispettivamente).
Entrambi i metodi hanno mostrato una forte corrispondenza per [INCREMENTO]% di grasso corporeo (r = 0,75), [INCREMENTO] FM (r = 0,84) e [INCREMENTO] FFM (r = 0,71).
I 2 metodi erano però dei predittori deboli, l'uno rispetto all’altro, dei cambiamenti nelle misurazioni segmentali.
MF-BIA si conferma un'alternativa accettabile per monitorare i cambiamenti in FM e FFM durante un programma di dieta ed esercizio combinato in uomini giovani e atletici, ma le misurazioni della massa magra segmentale devono essere interpretate con attenzione.
Autori: Schoenfeld BJ, Nickerson BS, Wilborn CD, Urbina SL, Hayward SB, Krieger J, Aragon AA, Tinsley GM
Fonte: J Strength Cond Res. 2018 Jun 20. doi: 10.1519/JSC.0000000000002708.
Link della fonte: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/29927888
Uno studio americano condotto in Texas ha valutato la capacità di analisi dell’impedenza bioelettrica in multifrequenza (MF-BIA) nel determinare variazioni nella composizione corporea totale e segmentale tramite un programma di allenamento di resistenza di 10 settimane (RT) in confronto alla DEXA.
Ventuno giovani volontari maschi (media ± DS, età = 22,9 ± 3,0 anni, altezza = 175,5 ± 5,9 cm, massa corporea = 82,9 ± 13,6 kg, indice di massa corporea = 26,9 ± 3,6) hanno eseguito un programma RT che includeva esercizi per tutti gruppi muscolari importanti.
La composizione corporea è stata valutata utilizzando entrambi i metodi prima e dopo l'intervento; i punteggi del cambiamento sono stati determinati sottraendo i valori pre-test dai valori post-test.
Le variazioni medie non erano significativamente diverse quando si confrontavano MF-BIA con DXA per [INCREMENTO]% di grasso corporeo (-1,05 vs -1,28%), [INCREMENTO] di massa grassa (-1,13 vs -1,19 kg) e FFM (0,10 vs 0,37 kg, rispettivamente).
Entrambi i metodi hanno mostrato una forte corrispondenza per [INCREMENTO]% di grasso corporeo (r = 0,75), [INCREMENTO] FM (r = 0,84) e [INCREMENTO] FFM (r = 0,71).
I 2 metodi erano però dei predittori deboli, l'uno rispetto all’altro, dei cambiamenti nelle misurazioni segmentali.
MF-BIA si conferma un'alternativa accettabile per monitorare i cambiamenti in FM e FFM durante un programma di dieta ed esercizio combinato in uomini giovani e atletici, ma le misurazioni della massa magra segmentale devono essere interpretate con attenzione.
Autori: Schoenfeld BJ, Nickerson BS, Wilborn CD, Urbina SL, Hayward SB, Krieger J, Aragon AA, Tinsley GM
Fonte: J Strength Cond Res. 2018 Jun 20. doi: 10.1519/JSC.0000000000002708.
Link della fonte: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/29927888
La dieta migliore di tutte
Quella che previene il cancro, esiste?
Una pletora di dati epidemiologici e sperimentali ha dimostrato l'efficacia dei regimi dietetici geroprotettivi (ad es. restrizioni caloriche, digiuno, proteine o singoli amminoacidi) nella prevenzione del cancro. Inoltre, tali modelli alimentari stanno emergendo per essere efficaci nell'uccidere selettivamente le cellule cancerose, mentre aumentano la resistenza delle cellule normali agli effetti tossici delle terapie antitumorali.
La restrizione calorica (CR), definita come il 30-60% in meno del fabbisogno calorico giornaliero è nota per estendere una vita sana dai lieviti ai mammiferi. La CR è particolarmente efficace nel ridurre l'incidenza, la massa e le metastasi delle cellule di cancro al seno. Sorprendentemente, l'applicazione di CR in combinazione con la radioterapia ha migliorato l'efficacia della radioterapia inducendo un'apoptosi più pronunciata delle cellule di cancro al seno rispetto alla sola radioterapia. Nell'uomo, tuttavia, la CR richiede che vengano mantenute compliance elevate per un adeguato periodo terapeutico.
Per queste ragioni, brevi periodi di digiuno senza malnutrizione sono stati proposti come interventi potenzialmente sicuri da associare ai trattamenti contro il cancro.
Il digiuno è comunemente definito come una privazione controllata dal tempo di tutti i tipi di alimenti e di nutrienti alimentari. Diversamente dal digiuno notturno, il digiuno controllato dal tempo porta ad una profonda riprogrammazione metabolica che sviluppa risposte adattive allo stress che sono coinvolte nell'estensione della vita e della salute. Tuttavia, le risposte adattive dello stress indotte dal digiuno che si verificano nelle cellule normali differiscono da quelle attivate dalle cellule tumorali perché gli oncogeni potrebbero limitare l'attivazione dei percorsi di percezione dei nutrienti aumentando la vulnerabilità alla chemioterapia.
In particolare, i proto-oncogeni come IGF1R, PI3K e AKT attivano il segnale di crescita e abituano le cellule cancerogene alle sostanze nutritive come glucosio e amminoacidi per soddisfare il loro alto tasso proliferativo. È stato dimostrato che diversi cicli di digiuno sono efficaci nel limitare la progressione del tumore in diversi modelli di cancro murino. I maggiori effetti sono stati osservati quando il digiuno è stato combinato con la chemioterapia convenzionale o la radioterapia. È interessante notare che in questi studi gli interventi di digiuno da soli non causano chiari segni di disagio, ma piuttosto migliorano le condizioni degli animali.
Gli effetti antitumorali del digiuno potrebbero anche fare affidamento sull'aumento di corpi chetonici. A sostegno di questa ipotesi, la meta-analisi sulle diete chetogeniche (KD), a basso contenuto di carboidrati e ad alto contenuto di grassi, ha suggerito un impatto salutare sulla sopravvivenza in modelli animali, con benefici prospetticamente legati all'entità della chetosi, al tempo di inizio della dieta e alla localizzazione del tumore. Altre prove hanno anche dimostrato che KD potrebbe essere tranquillamente usata come terapia adiuvante alle radiazioni e alle chemioterapie convenzionali.
Il digiuno sembra essere però più promettente come trattamento adiuvante nella terapia del cancro, per una più facile compliance dei pazienti.
Nonostante i recenti progressi nella terapia del cancro, la prognosi per molti malati di cancro rimane scarsa e gli attuali trattamenti mostrano ancora gravi eventi avversi. Pertanto, è urgente trovare trattamenti complementari che abbiano una tossicità limitata per il paziente e contemporaneamente aumentino le risposte terapeutiche nel cancro rispetto alle cellule normali. La dieta ha una forte capacità di modulare le risposte cellulari agli stimoli ambientali e mostra un grande potenziale nel migliorare la prognosi del cancro. Tuttavia, la maggior parte dei dati presenti in letteratura si avvantaggia dell'uso di topi e ciò può limitare la traduzione alla ricerca clinica. Pertanto, è ora necessaria un'enorme quantità di lavoro per confermare questi risultati molto promettenti negli esseri umani.
La privazione di nutrienti (ad es. Glucosio, amminoacidi solforati) e di fattori di crescita reattivi ai nutrienti (ad es. IGF-1) sembra uccidere selettivamente alte cellule tumorali proliferative / resilienti forzando il loro patrimonio glicolitico verso un metabolismo ossidativo (es. acidi grassi e corpi chetonici come fonti di energia) e limitando l'attività del GPX come conseguenza di livelli ridotti di GSH. La scarsità di nutrienti migliora anche l'immunometabolismo aumentando l'efficienza citotossica di CD8 + TIL all'interno della massa tumorale attraverso, probabilmente, il concomitante microbiota intestinale e riarrangiamenti immunometabolici.
Gli autori di questo articolo propongono cicli settimanali di 4 giorni di una dieta chetogenica moderata vegetale (k-PBD) che potrebbe riprogrammare il metabolismo sistemico conferendo un ambiente ostile alle cellule tumorali. In particolare, il k-PBD dovrebbe essere a basso contenuto di proteine (principalmente proteine vegetali a basso contenuto di amminoacidi e selenio), carboidrati (verdure non amidacee) e alto contenuto di lipidi (principalmente oli vegetali non trasformati ricchi di PUFA). Sorprendentemente, anche se non supportato da dati sperimentali, è previsto che questa dieta potrebbe essere in grado di aumentare la chetonemia poiché contiene elevate quantità di grassi in concomitanza con le calorie ridotte. Questa dieta potrebbe aumentare l'efficienza di CD8 + TIL, riprogrammando il loro metabolismo (metabolismo grasso-dipendente) per contrastare meglio le caratteristiche metaboliche delle cellule tumorali proliferanti (metabolismo glucosio-dipendente) e sensibilizzare le cellule tumorali alla terapia. Il k-PBD potrebbe essere consumato prima di terapie convenzionali di cancro (ad es., prima di ogni ciclo di chemioterapia o prima di una singola frazione di radioterapia).
Con questa composizione e il momento del trattamento, k-PBD potrebbe essere efficace nel:
Autori: Lettieri-Barbato D, Aquilano K.
Fonte: Front Oncol. 2018 May 8;8:148. doi: 10.3389/fonc.2018.00148. eCollection 2018.
Link della fonte: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5951973/
Una pletora di dati epidemiologici e sperimentali ha dimostrato l'efficacia dei regimi dietetici geroprotettivi (ad es. restrizioni caloriche, digiuno, proteine o singoli amminoacidi) nella prevenzione del cancro. Inoltre, tali modelli alimentari stanno emergendo per essere efficaci nell'uccidere selettivamente le cellule cancerose, mentre aumentano la resistenza delle cellule normali agli effetti tossici delle terapie antitumorali.
La restrizione calorica (CR), definita come il 30-60% in meno del fabbisogno calorico giornaliero è nota per estendere una vita sana dai lieviti ai mammiferi. La CR è particolarmente efficace nel ridurre l'incidenza, la massa e le metastasi delle cellule di cancro al seno. Sorprendentemente, l'applicazione di CR in combinazione con la radioterapia ha migliorato l'efficacia della radioterapia inducendo un'apoptosi più pronunciata delle cellule di cancro al seno rispetto alla sola radioterapia. Nell'uomo, tuttavia, la CR richiede che vengano mantenute compliance elevate per un adeguato periodo terapeutico.
Per queste ragioni, brevi periodi di digiuno senza malnutrizione sono stati proposti come interventi potenzialmente sicuri da associare ai trattamenti contro il cancro.
Il digiuno è comunemente definito come una privazione controllata dal tempo di tutti i tipi di alimenti e di nutrienti alimentari. Diversamente dal digiuno notturno, il digiuno controllato dal tempo porta ad una profonda riprogrammazione metabolica che sviluppa risposte adattive allo stress che sono coinvolte nell'estensione della vita e della salute. Tuttavia, le risposte adattive dello stress indotte dal digiuno che si verificano nelle cellule normali differiscono da quelle attivate dalle cellule tumorali perché gli oncogeni potrebbero limitare l'attivazione dei percorsi di percezione dei nutrienti aumentando la vulnerabilità alla chemioterapia.
In particolare, i proto-oncogeni come IGF1R, PI3K e AKT attivano il segnale di crescita e abituano le cellule cancerogene alle sostanze nutritive come glucosio e amminoacidi per soddisfare il loro alto tasso proliferativo. È stato dimostrato che diversi cicli di digiuno sono efficaci nel limitare la progressione del tumore in diversi modelli di cancro murino. I maggiori effetti sono stati osservati quando il digiuno è stato combinato con la chemioterapia convenzionale o la radioterapia. È interessante notare che in questi studi gli interventi di digiuno da soli non causano chiari segni di disagio, ma piuttosto migliorano le condizioni degli animali.
Gli effetti antitumorali del digiuno potrebbero anche fare affidamento sull'aumento di corpi chetonici. A sostegno di questa ipotesi, la meta-analisi sulle diete chetogeniche (KD), a basso contenuto di carboidrati e ad alto contenuto di grassi, ha suggerito un impatto salutare sulla sopravvivenza in modelli animali, con benefici prospetticamente legati all'entità della chetosi, al tempo di inizio della dieta e alla localizzazione del tumore. Altre prove hanno anche dimostrato che KD potrebbe essere tranquillamente usata come terapia adiuvante alle radiazioni e alle chemioterapie convenzionali.
Il digiuno sembra essere però più promettente come trattamento adiuvante nella terapia del cancro, per una più facile compliance dei pazienti.
Nonostante i recenti progressi nella terapia del cancro, la prognosi per molti malati di cancro rimane scarsa e gli attuali trattamenti mostrano ancora gravi eventi avversi. Pertanto, è urgente trovare trattamenti complementari che abbiano una tossicità limitata per il paziente e contemporaneamente aumentino le risposte terapeutiche nel cancro rispetto alle cellule normali. La dieta ha una forte capacità di modulare le risposte cellulari agli stimoli ambientali e mostra un grande potenziale nel migliorare la prognosi del cancro. Tuttavia, la maggior parte dei dati presenti in letteratura si avvantaggia dell'uso di topi e ciò può limitare la traduzione alla ricerca clinica. Pertanto, è ora necessaria un'enorme quantità di lavoro per confermare questi risultati molto promettenti negli esseri umani.
La privazione di nutrienti (ad es. Glucosio, amminoacidi solforati) e di fattori di crescita reattivi ai nutrienti (ad es. IGF-1) sembra uccidere selettivamente alte cellule tumorali proliferative / resilienti forzando il loro patrimonio glicolitico verso un metabolismo ossidativo (es. acidi grassi e corpi chetonici come fonti di energia) e limitando l'attività del GPX come conseguenza di livelli ridotti di GSH. La scarsità di nutrienti migliora anche l'immunometabolismo aumentando l'efficienza citotossica di CD8 + TIL all'interno della massa tumorale attraverso, probabilmente, il concomitante microbiota intestinale e riarrangiamenti immunometabolici.
Gli autori di questo articolo propongono cicli settimanali di 4 giorni di una dieta chetogenica moderata vegetale (k-PBD) che potrebbe riprogrammare il metabolismo sistemico conferendo un ambiente ostile alle cellule tumorali. In particolare, il k-PBD dovrebbe essere a basso contenuto di proteine (principalmente proteine vegetali a basso contenuto di amminoacidi e selenio), carboidrati (verdure non amidacee) e alto contenuto di lipidi (principalmente oli vegetali non trasformati ricchi di PUFA). Sorprendentemente, anche se non supportato da dati sperimentali, è previsto che questa dieta potrebbe essere in grado di aumentare la chetonemia poiché contiene elevate quantità di grassi in concomitanza con le calorie ridotte. Questa dieta potrebbe aumentare l'efficienza di CD8 + TIL, riprogrammando il loro metabolismo (metabolismo grasso-dipendente) per contrastare meglio le caratteristiche metaboliche delle cellule tumorali proliferanti (metabolismo glucosio-dipendente) e sensibilizzare le cellule tumorali alla terapia. Il k-PBD potrebbe essere consumato prima di terapie convenzionali di cancro (ad es., prima di ogni ciclo di chemioterapia o prima di una singola frazione di radioterapia).
Con questa composizione e il momento del trattamento, k-PBD potrebbe essere efficace nel:
- cambiare la chimica della membrana mediante l'arricchimento del PUFA (alto indice di perossidazione);
- ridurre il potere antiossidante zolfo-dipendente (abbassamento di NADPH, GSH, GPX4);
- forzare lo spostamento metabolico verso il metabolismo mitocondriale nelle cellule tumorali. Inoltre, le alte fibre fermentative del k-PBD potrebbero indurre un rimodellamento funzionale del microbiota migliorando l'efficacia dell'immunoterapia (ad es., Terapia anti-PD1).
Autori: Lettieri-Barbato D, Aquilano K.
Fonte: Front Oncol. 2018 May 8;8:148. doi: 10.3389/fonc.2018.00148. eCollection 2018.
Link della fonte: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5951973/
Perdere peso non vuol dire perdere osso!
Un'analisi longitudinale dell'influenza di diete a bassissimo contenuto energetico.
Uno studio condotto in Michigan ha esaminato l'impatto di un intervento medico per la perdita di peso intensivo, usando una dieta a basso contenuto calorico (VLED)
(~ 800 cal / giorno) che porta a cambiamenti significativi nel peso corporeo, sulla densità minerale ossea del corpo in 2 anni di follow-up.
I ricercatori hanno esaminato l'impatto della perdita di peso indotta dalla dieta fortemente ipocalorica sia sulla densità dell’osso che sulla FFM (Massa priva di grasso) dopo 3-6 mesi e di nuovo durante il mantenimento del peso a 2 anni in 49 soggetti.
Alla fine dei 2 anni, la perdita media di peso era maggiore per gli uomini (peso: 23,5 ± 12,5 kg) rispetto alle donne (peso: 16,8 ± 19,2 kg) e le donne hanno avuto una riduzione della densità ossea maggiore.
Dopo aggiustamento per salute delle ossa al basale, età e sesso, c'era una piccola ma significativa associazione tra perdita di peso totale e la densità ossea a 2 anni (β = - 0,001 g / cm2; p = 0,01). Allo stesso modo, c'è stata un'associazione significativa tra perdita di peso totale e FFM a 2 anni (β = - 116,5 g, p <0,01).
Tutto sommato, nonostante una significativa perdita di peso con VLED, c'è stata solo una piccola perdita di densità ossea.
Autori: Choksi P, Rothberg A, Krafton A, Miller N, Zurales K, Burant C, Van Poznak C, Peterson M.
Fonte: Clin Diabetes Endocrinol. 2018 Jun 19;4:14. doi: 10.1186/s40842-018-0063-6. eCollection 2018
Link della fonte: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/29946482
Uno studio condotto in Michigan ha esaminato l'impatto di un intervento medico per la perdita di peso intensivo, usando una dieta a basso contenuto calorico (VLED)
(~ 800 cal / giorno) che porta a cambiamenti significativi nel peso corporeo, sulla densità minerale ossea del corpo in 2 anni di follow-up.
I ricercatori hanno esaminato l'impatto della perdita di peso indotta dalla dieta fortemente ipocalorica sia sulla densità dell’osso che sulla FFM (Massa priva di grasso) dopo 3-6 mesi e di nuovo durante il mantenimento del peso a 2 anni in 49 soggetti.
Alla fine dei 2 anni, la perdita media di peso era maggiore per gli uomini (peso: 23,5 ± 12,5 kg) rispetto alle donne (peso: 16,8 ± 19,2 kg) e le donne hanno avuto una riduzione della densità ossea maggiore.
Dopo aggiustamento per salute delle ossa al basale, età e sesso, c'era una piccola ma significativa associazione tra perdita di peso totale e la densità ossea a 2 anni (β = - 0,001 g / cm2; p = 0,01). Allo stesso modo, c'è stata un'associazione significativa tra perdita di peso totale e FFM a 2 anni (β = - 116,5 g, p <0,01).
Tutto sommato, nonostante una significativa perdita di peso con VLED, c'è stata solo una piccola perdita di densità ossea.
Autori: Choksi P, Rothberg A, Krafton A, Miller N, Zurales K, Burant C, Van Poznak C, Peterson M.
Fonte: Clin Diabetes Endocrinol. 2018 Jun 19;4:14. doi: 10.1186/s40842-018-0063-6. eCollection 2018
Link della fonte: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/29946482
La dieta nella psoriasi e nella artrite psoriasica
Raccomandazioni dietetiche per adulti con psoriasi o artrite psoriasica dalla commissione medica della National Psoriasis Foundation.
La psoriasi è una malattia cronica infiammatoria della pelle e presenta una significativa morbilità e un effetto associato sulla qualità della vita.
Gli adulti con psoriasi e / o artrite psoriasica possono integrare le loro terapie mediche con interventi dieteticiper ridurre la gravità della malattia?
Un folto gruppo di ricercatori americani ha messo a punto una revisione sistematica di 55 studi e 4534 pazienti con psoriasi, identificando la riduzione del peso con una dieta ipocalorica come intervento di maggiore efficacia in pazienti obesi e in sovrappeso con psoriasi.
Da questa revisione, la commissione medica della National Psoriasis Foundation raccomanda la perdita di peso con una dieta ipocalorica per i pazienti sovrappeso e obesi con psoriasi.
Inoltre, i risultati supportano debolmente una dieta priva di glutine per quei pazienti che presentano marcatori sierologici di sensibilità al glutine.
Dati di bassa qualità suggeriscono invece che alcuni cibi, certe sostanze nutritive e determinati schemi alimentari possano avere un'influenza sull'andamento della malattia.
Per quanto riguarda invece i pazienti con artrite psoriasica, le prove permettono agli autori di consigliare solo debolmente l'integrazione con vitamina D e la riduzione del peso con una dieta a basso contenuto calorico in coloro che sono in sovrappeso e obesi.
Inoltre, i ricercatori hanno evidenziato tre concetti per interpretare le loro raccomandazioni:
- continuare la terapia medica regolare per le malattie psoriasiche, dato che gli interventi dietetici non possono essere l'unica fonte di trattamento.
- gli interventi dietetici possono essere associati a effetti avversi e controindicazioni
- le loro raccomandazioni potrebbero avere impatto anche su altre patologie e potrebbero influire sulla salute generale.
Autori: Ford AR, Siegel M, Bagel J, Cordoro KM, Garg A, Gottlieb A, Green LJ, Gudjonsson JE, Koo J, Lebwohl M, Liao W, Mandelin AM 2nd, Markenson JA, Mehta N, Merola JF, Prussick R, Ryan C, Schwartzman S, Siegel EL, Van Voorhees AS, Wu JJ, Armstrong AW
Fonte: JAMA Dermatol. 2018 Jun 20. doi: 10.1001/jamadermatol.2018.1412.
Link della fonte: https://jamanetwork.com/journals/jamadermatology/article-abstract/2684587
La psoriasi è una malattia cronica infiammatoria della pelle e presenta una significativa morbilità e un effetto associato sulla qualità della vita.
Gli adulti con psoriasi e / o artrite psoriasica possono integrare le loro terapie mediche con interventi dieteticiper ridurre la gravità della malattia?
Un folto gruppo di ricercatori americani ha messo a punto una revisione sistematica di 55 studi e 4534 pazienti con psoriasi, identificando la riduzione del peso con una dieta ipocalorica come intervento di maggiore efficacia in pazienti obesi e in sovrappeso con psoriasi.
Da questa revisione, la commissione medica della National Psoriasis Foundation raccomanda la perdita di peso con una dieta ipocalorica per i pazienti sovrappeso e obesi con psoriasi.
Inoltre, i risultati supportano debolmente una dieta priva di glutine per quei pazienti che presentano marcatori sierologici di sensibilità al glutine.
Dati di bassa qualità suggeriscono invece che alcuni cibi, certe sostanze nutritive e determinati schemi alimentari possano avere un'influenza sull'andamento della malattia.
Per quanto riguarda invece i pazienti con artrite psoriasica, le prove permettono agli autori di consigliare solo debolmente l'integrazione con vitamina D e la riduzione del peso con una dieta a basso contenuto calorico in coloro che sono in sovrappeso e obesi.
Inoltre, i ricercatori hanno evidenziato tre concetti per interpretare le loro raccomandazioni:
- continuare la terapia medica regolare per le malattie psoriasiche, dato che gli interventi dietetici non possono essere l'unica fonte di trattamento.
- gli interventi dietetici possono essere associati a effetti avversi e controindicazioni
- le loro raccomandazioni potrebbero avere impatto anche su altre patologie e potrebbero influire sulla salute generale.
Autori: Ford AR, Siegel M, Bagel J, Cordoro KM, Garg A, Gottlieb A, Green LJ, Gudjonsson JE, Koo J, Lebwohl M, Liao W, Mandelin AM 2nd, Markenson JA, Mehta N, Merola JF, Prussick R, Ryan C, Schwartzman S, Siegel EL, Van Voorhees AS, Wu JJ, Armstrong AW
Fonte: JAMA Dermatol. 2018 Jun 20. doi: 10.1001/jamadermatol.2018.1412.
Link della fonte: https://jamanetwork.com/journals/jamadermatology/article-abstract/2684587
Perchè la dieta proteica ?
Le diete ad alto contenuto proteico sono sempre più diffuse come strategia promettente per la perdita di peso, fornendo due vantaggi non sempre facili da conseguire:
- migliorare la sazietà
- ridurre la massa grassa.
Alcuni dei possibili meccanismi per la perdita di peso implicano un aumento della secrezione di ormoni della sazietà (GIP, GLP-1), ridotta secrezione di ormoni oressizzanti (grelina), aumento dell’effetto termico del cibo grazie alle proteine, alterazioni della gluconeogenesi e miglioramento dell'omeostasi del glucosio.
Le diete ad alto contenuto proteico possono aiutare a preservare la massa magra durante la perdita di peso: oltre ai numerosi studi sugli sportivi agonisti, una recente meta-analisi di 18 studi randomizzati controllati ha rilevato che gli anziani (oltre i 50 anni) possono conservare la massa magra durante la perdita di peso in modo più efficace quando consumano una dieta ricca di proteine.
Per quanto riguarda la distribuzione dei macronutrienti, sembra esserci una differenza nel fatto che la proteina venga aumentata a discapito di carboidrati o grassi: il contributo degli aminoacidi sul dispendio energetico e la ridotta lipogenesi dovuta alla diminuzione dell'offerta di glucosio nella dieta, riducono, nei soggetti obesi, lo sviluppo del tessuto adiposo. Una maggiore assunzione giornaliera di proteine a spese dell'assunzione di grassi potrebbe ridurre sostanzialmente l'apporto energetico totale, che potrebbe tradursi in uno stato ponderale più sano.
Gli effetti a lungo termine delle diete ad alto contenuto proteico dipendono dalla popolazione studiata e dall'esatta composizione della dieta, ma hanno dimostrato di ridurre il peso e di esercitare effetti benefici sui fattori di rischio metabolici come il colesterolo totale e il triacilglicerolo .
In uno studio australiano, i ricercatori hanno determinato l'efficacia di un'assunzione elevata di proteine verso una dieta ad alto contenuto di carboidrati sul mantenimento della perdita di peso dopo 64 settimane di follow-up. Gli autori non hanno riscontrato differenze significative tra i gruppi in merito alla perdita di peso. L'assunzione di proteine, tuttavia, era direttamente correlata alla perdita di peso.
Un altro gruppo ha studiato l'effetto di un apporto proteico del 20% superiore (18% di energia contro il 15% di energia) per i successivi 3 mesi di mantenimento del peso dopo il dimagrimento. Hanno osservato che l'assunzione di proteine più elevate comportava nel tempo un ri-guadagno del peso inferiore del 50%, probabilmente correlato all'aumento della sazietà e alla diminuzione dell'efficienza energetica. Va detto, tuttavia, che una dieta ipocalorica con un alto contenuto proteico del 20-30% è solo relativamente alta nelle proteine rispetto a una dieta eucalorica con un livello proteico normale del 10-15%, la quantità assoluta di proteine spesso non differisce tra le due diete.
La perdita di fluidi correlata all'assunzione ridotta di carboidrati e alla restrizione calorica complessiva sono altri fattori che potrebbero mediare la perdita di peso.
Studi di metabolomica hanno rivelato che un elevato apporto di aminoacidi a catena ramificata (BCAA, valina, leucina, isoleucina) e amminoacidi aromatici (fenilalanina, tirosina) possono essere associati con lo sviluppo di malattie metaboliche. È importante sottolineare che questo si verifica solo in combinazione con una dieta ricca di grassi: i ramificati contribuiscono all’accumulo di propionil-CoA e succinil-CoA, che sono un loro sottoprodotto catabolico. Propionil e succinil CoA inibiscono la citrato sintasi che rallenta il ciclo TCA, causano accumulo di substrati non completamente ossidati come le acilcarnitine, con stress mitocondriale, ridotta attività insulinica e perturbazione dell'omeostasi del glucosio. Pertanto, nelle persone con un apporto calorico elevato di grassi, l'integrazione con BCAA potrebbe esacerbare il rischio di malattia metabolica.
Le diete ricche di proteine potrebbero fornire un carico acido ai reni, principalmente come solfati e fosfati. È stato ipotizzato che il calcio e quindi la massa ossea vengano usati per tamponare questo carico acido ma l’ipotesi della perdita d’osso è stata smentita da parecchi studi.
Al fine di mantenere un equilibrio acido-base del corpo, chi fa dieta ad alto contenuto proteico deve assumere alimenti alcalinizzanti come frutta e verdura ad alto contenuto di potassio. Gli integratori di glutammina o bicarbonato di sodio possono anche aiutare a ripristinare l'equilibrio acido-base nel corpo.
Inoltre, la propria fonte di proteine va scelta con cura, con preferenza per quelle di alta qualità disponibili come integratori: molti alimenti ricchi di proteine di origine animale (ad es. Carni rosse, uova e latticini) contengono anche alti livelli di grassi saturi e colesterolo. Le proteine più sane delle verdure (fagioli, tofu, seitan o noci) o del pesce potrebbero essere un'alternativa valida.
Autori: Pesta DH, Samuel VT.
Fonte: Nutr Metab (Lond). 2014 Nov 19;11(1):53. doi: 10.1186/1743-7075-11-53.
Link della fonte: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4258944/
- migliorare la sazietà
- ridurre la massa grassa.
Alcuni dei possibili meccanismi per la perdita di peso implicano un aumento della secrezione di ormoni della sazietà (GIP, GLP-1), ridotta secrezione di ormoni oressizzanti (grelina), aumento dell’effetto termico del cibo grazie alle proteine, alterazioni della gluconeogenesi e miglioramento dell'omeostasi del glucosio.
Le diete ad alto contenuto proteico possono aiutare a preservare la massa magra durante la perdita di peso: oltre ai numerosi studi sugli sportivi agonisti, una recente meta-analisi di 18 studi randomizzati controllati ha rilevato che gli anziani (oltre i 50 anni) possono conservare la massa magra durante la perdita di peso in modo più efficace quando consumano una dieta ricca di proteine.
Per quanto riguarda la distribuzione dei macronutrienti, sembra esserci una differenza nel fatto che la proteina venga aumentata a discapito di carboidrati o grassi: il contributo degli aminoacidi sul dispendio energetico e la ridotta lipogenesi dovuta alla diminuzione dell'offerta di glucosio nella dieta, riducono, nei soggetti obesi, lo sviluppo del tessuto adiposo. Una maggiore assunzione giornaliera di proteine a spese dell'assunzione di grassi potrebbe ridurre sostanzialmente l'apporto energetico totale, che potrebbe tradursi in uno stato ponderale più sano.
Gli effetti a lungo termine delle diete ad alto contenuto proteico dipendono dalla popolazione studiata e dall'esatta composizione della dieta, ma hanno dimostrato di ridurre il peso e di esercitare effetti benefici sui fattori di rischio metabolici come il colesterolo totale e il triacilglicerolo .
In uno studio australiano, i ricercatori hanno determinato l'efficacia di un'assunzione elevata di proteine verso una dieta ad alto contenuto di carboidrati sul mantenimento della perdita di peso dopo 64 settimane di follow-up. Gli autori non hanno riscontrato differenze significative tra i gruppi in merito alla perdita di peso. L'assunzione di proteine, tuttavia, era direttamente correlata alla perdita di peso.
Un altro gruppo ha studiato l'effetto di un apporto proteico del 20% superiore (18% di energia contro il 15% di energia) per i successivi 3 mesi di mantenimento del peso dopo il dimagrimento. Hanno osservato che l'assunzione di proteine più elevate comportava nel tempo un ri-guadagno del peso inferiore del 50%, probabilmente correlato all'aumento della sazietà e alla diminuzione dell'efficienza energetica. Va detto, tuttavia, che una dieta ipocalorica con un alto contenuto proteico del 20-30% è solo relativamente alta nelle proteine rispetto a una dieta eucalorica con un livello proteico normale del 10-15%, la quantità assoluta di proteine spesso non differisce tra le due diete.
La perdita di fluidi correlata all'assunzione ridotta di carboidrati e alla restrizione calorica complessiva sono altri fattori che potrebbero mediare la perdita di peso.
Studi di metabolomica hanno rivelato che un elevato apporto di aminoacidi a catena ramificata (BCAA, valina, leucina, isoleucina) e amminoacidi aromatici (fenilalanina, tirosina) possono essere associati con lo sviluppo di malattie metaboliche. È importante sottolineare che questo si verifica solo in combinazione con una dieta ricca di grassi: i ramificati contribuiscono all’accumulo di propionil-CoA e succinil-CoA, che sono un loro sottoprodotto catabolico. Propionil e succinil CoA inibiscono la citrato sintasi che rallenta il ciclo TCA, causano accumulo di substrati non completamente ossidati come le acilcarnitine, con stress mitocondriale, ridotta attività insulinica e perturbazione dell'omeostasi del glucosio. Pertanto, nelle persone con un apporto calorico elevato di grassi, l'integrazione con BCAA potrebbe esacerbare il rischio di malattia metabolica.
Le diete ricche di proteine potrebbero fornire un carico acido ai reni, principalmente come solfati e fosfati. È stato ipotizzato che il calcio e quindi la massa ossea vengano usati per tamponare questo carico acido ma l’ipotesi della perdita d’osso è stata smentita da parecchi studi.
Al fine di mantenere un equilibrio acido-base del corpo, chi fa dieta ad alto contenuto proteico deve assumere alimenti alcalinizzanti come frutta e verdura ad alto contenuto di potassio. Gli integratori di glutammina o bicarbonato di sodio possono anche aiutare a ripristinare l'equilibrio acido-base nel corpo.
Inoltre, la propria fonte di proteine va scelta con cura, con preferenza per quelle di alta qualità disponibili come integratori: molti alimenti ricchi di proteine di origine animale (ad es. Carni rosse, uova e latticini) contengono anche alti livelli di grassi saturi e colesterolo. Le proteine più sane delle verdure (fagioli, tofu, seitan o noci) o del pesce potrebbero essere un'alternativa valida.
Autori: Pesta DH, Samuel VT.
Fonte: Nutr Metab (Lond). 2014 Nov 19;11(1):53. doi: 10.1186/1743-7075-11-53.
Link della fonte: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4258944/
Pesce contro zucchero
Proteine delle sardine per contrastare il diabete?
Uno studio ha esaminato se la proteina della sardina mitiga gli effetti negativi del fruttosio sul plasma-like peptide glucagone-1 (GLP-1) e sullo stress ossidativo nei ratti.
I ratti sono stati nutriti con caseina (C) o proteine della sardina (S) e con una dieta alta in fruttosio (HF) per 2 mesi. Sono stati analizzati glicemia, insulina, GLP-1, lipidi, proteine, ossidazione e enzimi antiossidanti.
I ratti HF hanno sviluppato obesità, iperglicemia, iperinsulinemia, insulino-resistenza e stress ossidativo nonostante le ridotte assunzioni energetiche e alimentari.
Creatinina plasmatica elevata e livelli di acido urico, oltre a albuminuria stati osservati in questi ratti grazie alla dieta con alto fruttosio.
I ratti in S-HF avevano ridotto glucosio, insulina, creatinina, acido urico e HOMA, tuttavia avevano aumentati livelli di GLP-1 rispetto a quelli in dieta C-HF.
Gli idroperossidi sono stati ridotti nel fegato, rene, cuore e muscoli di ratti S-HF ai C-HF, così come i carbonili nel fegato, rene e cuore e l’ossido nitrico (NO) nel fegato, rene e cuore dei ratti nutriti S-HF.
La dieta S-HF rispetto alla dieta C-HF ha aumentato i livelli di superossido dismutasi, catalasi epatica e muscolare, glutatione perossidasi e l’acido ascorbico epatico.
Insomma, tutte queste prove confermano l’ipotesi che una dieta a base di proteine del pesce possa invertire la resistenza all'insulina e lo stress ossidativo.
Tradotto nella pratica, una dieta a base di pesce può avere benefici nei pazienti con sindrome metabolica.
Autori: Madani Z, Sener A, Malaisse WJ, Dalila AY
Fonte: Mol Med Rep. 2015 Sep 14
Link della fonte:http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26398482
Uno studio ha esaminato se la proteina della sardina mitiga gli effetti negativi del fruttosio sul plasma-like peptide glucagone-1 (GLP-1) e sullo stress ossidativo nei ratti.
I ratti sono stati nutriti con caseina (C) o proteine della sardina (S) e con una dieta alta in fruttosio (HF) per 2 mesi. Sono stati analizzati glicemia, insulina, GLP-1, lipidi, proteine, ossidazione e enzimi antiossidanti.
I ratti HF hanno sviluppato obesità, iperglicemia, iperinsulinemia, insulino-resistenza e stress ossidativo nonostante le ridotte assunzioni energetiche e alimentari.
Creatinina plasmatica elevata e livelli di acido urico, oltre a albuminuria stati osservati in questi ratti grazie alla dieta con alto fruttosio.
I ratti in S-HF avevano ridotto glucosio, insulina, creatinina, acido urico e HOMA, tuttavia avevano aumentati livelli di GLP-1 rispetto a quelli in dieta C-HF.
Gli idroperossidi sono stati ridotti nel fegato, rene, cuore e muscoli di ratti S-HF ai C-HF, così come i carbonili nel fegato, rene e cuore e l’ossido nitrico (NO) nel fegato, rene e cuore dei ratti nutriti S-HF.
La dieta S-HF rispetto alla dieta C-HF ha aumentato i livelli di superossido dismutasi, catalasi epatica e muscolare, glutatione perossidasi e l’acido ascorbico epatico.
Insomma, tutte queste prove confermano l’ipotesi che una dieta a base di proteine del pesce possa invertire la resistenza all'insulina e lo stress ossidativo.
Tradotto nella pratica, una dieta a base di pesce può avere benefici nei pazienti con sindrome metabolica.
Autori: Madani Z, Sener A, Malaisse WJ, Dalila AY
Fonte: Mol Med Rep. 2015 Sep 14
Link della fonte:http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26398482
Qualità della dieta e metabolismo muscolare
La quantità di proteine non influenza il metabolismo del muscolo
Le diete ad alto contenuto proteico sono note e suscitano interesse per preservare la massa magra (FFM) durante bilancio energetico negativo. Questo vale comunque anche in un bilancio energetico neutro o positivo, ovvero un aumento temporaneo del consumo proteine alimentari per 3 mesi può portare ad un aumento della FFM, soprattutto se combinato con l'esercizio fisico regolare.
Tuttavia, l'impatto di un apporto a lungo termine basso o alto di proteine sul bilancio proteico del corpo in toto e del muscolo in particolare non è stato ancora bene definito. Un aumento della sintesi proteica, accompagnato da una contemporanea riduzione del catabolismo proteico a causa del maggior consumo di proteine, può essere responsabile del mantenimento o dell'aumento di massa magra, indipendentemente dal bilancio energetico.
A differenza di una dieta ricca di proteine, si pensa che un apporto relativamente basso di proteine possa portare ad una diminuzione della sintesi delle proteine muscolari, con conseguente perdita netta di proteine. Una dieta che fornisca il 15% di proteine di energia, o una quantità assoluta di 0,8 g di proteine/ kg/die, è quella raccomandata per mantenere il corretto equilibrio dell’azoto.
Questo studio considera l’ipotesi che il consumo di una dieta povera di proteine possa indurre un equilibrio proteico di tutto il corpo negativo e possa ridurre i tassi di sintesi proteica muscolare basale se confrontato con una dieta ricca di proteine.
Si tratta di uno studio randomizzato in parallelo in 40 soggetti che hanno seguito una dieta o iperproteica (proteine 2,4 g/kg /die) o basso contenuto proteico (0,4 g di proteine/kg/die) a energia equilibrata (30/35/35% o 5/ 60/35% di energia da proteine/carboidrati/grassi) per un periodo di 12 settimane.
Dopo 12 settimane di intervento, il bilancio proteico a digiuno è stato più negativo nel trattamento ricco di proteine rispetto al trattamento a basse proteine (-4,1 ± 0,5 vs -2.7 ± 0.6 micromol fenilalanina /kg /h; P <0.001 ). La distribuzione delle proteine nel corpo, la sintesi proteica e il metabolismo erano significativamente più alti nei soggetti in iperproteica rispetto a quelli a basse proteine. I parametri di sintesi proteica muscolare basale sono stati mantenuti uguali nei 2 trattamenti.
Nonostante un turnover proteico inferiore, il bilancio proteico netto post-assorbimento di tutto il corpo non era sceso nella dieta a basse proteine.
A digiuno durante la notte, l'adattamento a un basso apporto di proteine non si traduce in un equilibrio proteico di tutto il corpo più negativo, almeno in un trattamento di 3 mesi.
Saranno da indagare i meccanismi di adattamento sottesi, magari usando numeri maggiori di partecipanti. La popolazione è molto giovane e metabolicamente sana, senza problemi di sovrappeso o insulino resistenza. Questo potrebbe aver influenzato i risultati.
Autori: Hursel R, Martens EA, Gonnissen HK, Hamer HM, Senden JM, van Loon LJ, Westerterp-Plantenga MS
Fonte: PLoS One. 2015 Sep 14;10(9):e0137183
Link della fonte: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4569069/
Le diete ad alto contenuto proteico sono note e suscitano interesse per preservare la massa magra (FFM) durante bilancio energetico negativo. Questo vale comunque anche in un bilancio energetico neutro o positivo, ovvero un aumento temporaneo del consumo proteine alimentari per 3 mesi può portare ad un aumento della FFM, soprattutto se combinato con l'esercizio fisico regolare.
Tuttavia, l'impatto di un apporto a lungo termine basso o alto di proteine sul bilancio proteico del corpo in toto e del muscolo in particolare non è stato ancora bene definito. Un aumento della sintesi proteica, accompagnato da una contemporanea riduzione del catabolismo proteico a causa del maggior consumo di proteine, può essere responsabile del mantenimento o dell'aumento di massa magra, indipendentemente dal bilancio energetico.
A differenza di una dieta ricca di proteine, si pensa che un apporto relativamente basso di proteine possa portare ad una diminuzione della sintesi delle proteine muscolari, con conseguente perdita netta di proteine. Una dieta che fornisca il 15% di proteine di energia, o una quantità assoluta di 0,8 g di proteine/ kg/die, è quella raccomandata per mantenere il corretto equilibrio dell’azoto.
Questo studio considera l’ipotesi che il consumo di una dieta povera di proteine possa indurre un equilibrio proteico di tutto il corpo negativo e possa ridurre i tassi di sintesi proteica muscolare basale se confrontato con una dieta ricca di proteine.
Si tratta di uno studio randomizzato in parallelo in 40 soggetti che hanno seguito una dieta o iperproteica (proteine 2,4 g/kg /die) o basso contenuto proteico (0,4 g di proteine/kg/die) a energia equilibrata (30/35/35% o 5/ 60/35% di energia da proteine/carboidrati/grassi) per un periodo di 12 settimane.
Dopo 12 settimane di intervento, il bilancio proteico a digiuno è stato più negativo nel trattamento ricco di proteine rispetto al trattamento a basse proteine (-4,1 ± 0,5 vs -2.7 ± 0.6 micromol fenilalanina /kg /h; P <0.001 ). La distribuzione delle proteine nel corpo, la sintesi proteica e il metabolismo erano significativamente più alti nei soggetti in iperproteica rispetto a quelli a basse proteine. I parametri di sintesi proteica muscolare basale sono stati mantenuti uguali nei 2 trattamenti.
Nonostante un turnover proteico inferiore, il bilancio proteico netto post-assorbimento di tutto il corpo non era sceso nella dieta a basse proteine.
A digiuno durante la notte, l'adattamento a un basso apporto di proteine non si traduce in un equilibrio proteico di tutto il corpo più negativo, almeno in un trattamento di 3 mesi.
Saranno da indagare i meccanismi di adattamento sottesi, magari usando numeri maggiori di partecipanti. La popolazione è molto giovane e metabolicamente sana, senza problemi di sovrappeso o insulino resistenza. Questo potrebbe aver influenzato i risultati.
Autori: Hursel R, Martens EA, Gonnissen HK, Hamer HM, Senden JM, van Loon LJ, Westerterp-Plantenga MS
Fonte: PLoS One. 2015 Sep 14;10(9):e0137183
Link della fonte: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4569069/
Obesità infantile : basta !
Molto il lavoro da fare, ma ne vale la pena
Spesso i genitori sono i primi a non rendersi conto che il loro bambino è sovrappeso.
E l’epidemia dilaga: oramai nel mondo secondo le stime dell’International Obesity TaskForce, i bambini in età scolare obesi o in sovrappeso sono 155 milioni, cioè uno su dieci, ma allo stesso tempo 148 milioni di bimbi sotto i 5 anni sono sottopeso e si trovano prevalentemente nei Paesi in via di sviluppo.
In Italia, un bambino su 3 è obeso. Con quali conseguenze? Questo studio pubblicato sul New England Journal of Medicine ce lo spiega: più grave è l’obesità nel bambino, più alto il suo rischio cardiovascolare da grande.
I ricercatori hanno analizzato i dati di 8579 bambini e giovani di età compresa tra i 3 ei 19 anni. Li hanno divisi in classi di obesità secondo i percentili di indice di massa corporea (BMI) definiti come sovrappeso (≥85th a <95° percentile); obesità classe I (≥95th percentile a <120% del 95° percentile); obesità Classe II (≥120% a <140% del 95 °percentile o BMI ≥35 kg / m2); e obesità classe III (≥140% del 95 ° percentile o BMI≥40 kg / m2).
Quasi il 5% dei bambini rientrava nella obesità di Classe III.
Nella popolazione, il 46,9% dei ragazzi sono in sovrappeso mentre il 36,4% ha avuto obesità di classe I, l’11,9% obesità di classe II e il 4,8% obesità di classe III.
All'analisi multivariata (controllando per età, razza o etnia, sesso) i bambini con obesità di classe III avevano un rischio aumentato per bassi livelli di HDL, colesterolo alto, ipertensione, alti livelli di trigliceridi, e livelli elevati di HbA1c.
Da segnalare però che l’obesità grave in questo studio è stata associata ad una maggiore prevalenza di anomalie della pressione arteriosa sistolica, trigliceridi e livelli di HbA1c nei maschi rispetto alle femmine.
Come questi dati si traducono nella clinica pratica? Il messaggio è chiaro: l’obesità va diagnosticata e stratificata. Anche solo il passaggio da obesità di classe III a obesità di classe I può cambiare molto il futuro cardiometabolico dei ragazzi, anche se non si riesce a raggiungere il peso forma, la perdita ponderale sarà comunque premiante.
Autori: Skinner A, Perrin E, Moss LA, Skelton JA.
Fonte: N Engl J Med. 2015; 373: 1307-1317
Link della fonte: http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa1502821
Spesso i genitori sono i primi a non rendersi conto che il loro bambino è sovrappeso.
E l’epidemia dilaga: oramai nel mondo secondo le stime dell’International Obesity TaskForce, i bambini in età scolare obesi o in sovrappeso sono 155 milioni, cioè uno su dieci, ma allo stesso tempo 148 milioni di bimbi sotto i 5 anni sono sottopeso e si trovano prevalentemente nei Paesi in via di sviluppo.
In Italia, un bambino su 3 è obeso. Con quali conseguenze? Questo studio pubblicato sul New England Journal of Medicine ce lo spiega: più grave è l’obesità nel bambino, più alto il suo rischio cardiovascolare da grande.
I ricercatori hanno analizzato i dati di 8579 bambini e giovani di età compresa tra i 3 ei 19 anni. Li hanno divisi in classi di obesità secondo i percentili di indice di massa corporea (BMI) definiti come sovrappeso (≥85th a <95° percentile); obesità classe I (≥95th percentile a <120% del 95° percentile); obesità Classe II (≥120% a <140% del 95 °percentile o BMI ≥35 kg / m2); e obesità classe III (≥140% del 95 ° percentile o BMI≥40 kg / m2).
Quasi il 5% dei bambini rientrava nella obesità di Classe III.
Nella popolazione, il 46,9% dei ragazzi sono in sovrappeso mentre il 36,4% ha avuto obesità di classe I, l’11,9% obesità di classe II e il 4,8% obesità di classe III.
All'analisi multivariata (controllando per età, razza o etnia, sesso) i bambini con obesità di classe III avevano un rischio aumentato per bassi livelli di HDL, colesterolo alto, ipertensione, alti livelli di trigliceridi, e livelli elevati di HbA1c.
Da segnalare però che l’obesità grave in questo studio è stata associata ad una maggiore prevalenza di anomalie della pressione arteriosa sistolica, trigliceridi e livelli di HbA1c nei maschi rispetto alle femmine.
Come questi dati si traducono nella clinica pratica? Il messaggio è chiaro: l’obesità va diagnosticata e stratificata. Anche solo il passaggio da obesità di classe III a obesità di classe I può cambiare molto il futuro cardiometabolico dei ragazzi, anche se non si riesce a raggiungere il peso forma, la perdita ponderale sarà comunque premiante.
Autori: Skinner A, Perrin E, Moss LA, Skelton JA.
Fonte: N Engl J Med. 2015; 373: 1307-1317
Link della fonte: http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa1502821
Dieta e osteoporosi
La qualità dell'alimentazione influenza la salute dell’osso.
L’osteoporosi è la più comune patologia scheletrica sistemica.
Questa condizione è caratterizzata da una riduzione della massa ossea e da un deterioramento della microarchitettura del tessuto osseo risultante nella compromissione della resistenza ossea e nella maggiore suscettibilità a fratture.
La densitometria ad ultrasuoni rappresenta una soluzione accessibile e professionale per la diagnosi precoce di osteoporosi e permette un monitoraggio accurato e non invasivo della densità ossea.
Lo stato di salute delle ossa può essere influenzato dalla qualità della dieta generale e dal modello alimentare.
Per determinare la relazione tra qualità e abitudini alimentari e stato di salute delle ossa, si sono analizzati parametri quali RNI (recommended nutrient intake), NAR (nutrient adeguancy ratio), DDS (dietary diversity score), e i modelli di assunzione alimentare sono stati valutati in base allo stato di salute delle ossa per 847 donne in postmenopausa, utilizzando i dati 2010 dello studio KNHANES dopo aver eliminato le donne che probabilmente avevano cambiato la loro dieta per indicazione medica o le donne in terapia con estrogeni.
La salute delle ossa è peggiore, così come la qualità della dieta, nelle donne analizzate: RNI e NAR erano altamente associati ai livelli di salute delle ossa (secondo 3 gruppi: normale, osteopenia e osteoporosi secondo i criteri WHO basati sulla densità ossea). La frequenza di consumo di fonti Calcio, il DDS e le abitudini alimentari hanno confermato i risultati.
Questo studio ha confermato che i modelli dietetici nutrizionali sono importanti per la salute delle ossa. L'educazione nutrizionale basata sull’assunzione di cibi dai cinque gruppi alimentari di base deve essere sottolineata per prevenire l'osteoporosi nelle donne anziane.
Il nutrizionista quindi, oltre ad avere la possibilità di misurare il rischio di frattura in modo non invasivo tramite l’ultrasonometria ossea, può intervenire con diete adatte a mantenere la salute delle ossa.
Autore: G Go, Z Tserendejid, Y Lim et al.
Fonte: Nutr Res Pract. 2014 Dec; 8(6): 662–669.
Link della fonte: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4252526/
L’osteoporosi è la più comune patologia scheletrica sistemica.
Questa condizione è caratterizzata da una riduzione della massa ossea e da un deterioramento della microarchitettura del tessuto osseo risultante nella compromissione della resistenza ossea e nella maggiore suscettibilità a fratture.
La densitometria ad ultrasuoni rappresenta una soluzione accessibile e professionale per la diagnosi precoce di osteoporosi e permette un monitoraggio accurato e non invasivo della densità ossea.
Lo stato di salute delle ossa può essere influenzato dalla qualità della dieta generale e dal modello alimentare.
Per determinare la relazione tra qualità e abitudini alimentari e stato di salute delle ossa, si sono analizzati parametri quali RNI (recommended nutrient intake), NAR (nutrient adeguancy ratio), DDS (dietary diversity score), e i modelli di assunzione alimentare sono stati valutati in base allo stato di salute delle ossa per 847 donne in postmenopausa, utilizzando i dati 2010 dello studio KNHANES dopo aver eliminato le donne che probabilmente avevano cambiato la loro dieta per indicazione medica o le donne in terapia con estrogeni.
La salute delle ossa è peggiore, così come la qualità della dieta, nelle donne analizzate: RNI e NAR erano altamente associati ai livelli di salute delle ossa (secondo 3 gruppi: normale, osteopenia e osteoporosi secondo i criteri WHO basati sulla densità ossea). La frequenza di consumo di fonti Calcio, il DDS e le abitudini alimentari hanno confermato i risultati.
Questo studio ha confermato che i modelli dietetici nutrizionali sono importanti per la salute delle ossa. L'educazione nutrizionale basata sull’assunzione di cibi dai cinque gruppi alimentari di base deve essere sottolineata per prevenire l'osteoporosi nelle donne anziane.
Il nutrizionista quindi, oltre ad avere la possibilità di misurare il rischio di frattura in modo non invasivo tramite l’ultrasonometria ossea, può intervenire con diete adatte a mantenere la salute delle ossa.
Autore: G Go, Z Tserendejid, Y Lim et al.
Fonte: Nutr Res Pract. 2014 Dec; 8(6): 662–669.
Link della fonte: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4252526/
Proteine per dimagrire
Le diete proteiche sono efficaci nel breve e nel lungo periodo.
Negli ultimi 20 anni, le diete con un contenuto di proteine più alto sono state presentate come una strategia vincente per prevenire o trattare l'obesità attraverso miglioramenti nella gestione del peso e della composizione corporea. Questi miglioramenti si pensa siano dovuti, in parte, alla modulazione del metabolismo energetico, dell'appetito, e dell'assunzione di energia.
Prove recenti dimostrano che le diete a più elevato tenore di proteine migliorano i fattori di rischio cardiometabolico. Sono state segnalate in particolare riduzioni dei trigliceridi, pressione arteriosa, e circonferenza vita.
Diverse meta-analisi di studi a breve termine strettamente controllati hanno dimostrato maggiore perdita di peso, perdita di massa grassa, e conservazione della massa magra dopo restrizione calorica in diete proteiche.
Studi a lungo termine hanno prodotto risultati limitati e contrastanti; tuttavia, una recente meta-analisi ha dimostrato benefici persistenti di una dieta a più alto contenuto di proteine sul peso corporeo e la massa grassa.
La conformità alimentare sembra essere il principale contributore ai risultati discrepanti perché i miglioramenti nella gestione del peso sono stati individuati in coloro che hanno aderito al regime di alto contenuto proteico prescritto, mentre quelli che non hanno aderito alla dieta non avevano miglioramenti marcati.
Insieme questi dati suggeriscono che le diete a più alto contenuto di proteine che contengono tra 1.2 e 1.6 g di proteine kg-1 d-1 e potenzialmente comprendono quantitativi di proteine specifiche del pasto di almeno 25-30 g di proteine / pasto danno miglioramenti dell'appetito, di gestione del peso, dei fattori di rischio cardiometabolico.
Negli studi a lungo termine, è necessario trovare una strategia per aumentare la compliance dei pazienti. Come in tutte le diete, del resto.
Autori: HJ Leidy, PM Clifton, A Astrup et al.
Fonte: Am J Clin Nutr 2015;101(Suppl):1320S–9S.
http://ajcn.nutrition.org/content/101/6/1320S.full.pdf+html
Negli ultimi 20 anni, le diete con un contenuto di proteine più alto sono state presentate come una strategia vincente per prevenire o trattare l'obesità attraverso miglioramenti nella gestione del peso e della composizione corporea. Questi miglioramenti si pensa siano dovuti, in parte, alla modulazione del metabolismo energetico, dell'appetito, e dell'assunzione di energia.
Prove recenti dimostrano che le diete a più elevato tenore di proteine migliorano i fattori di rischio cardiometabolico. Sono state segnalate in particolare riduzioni dei trigliceridi, pressione arteriosa, e circonferenza vita.
Diverse meta-analisi di studi a breve termine strettamente controllati hanno dimostrato maggiore perdita di peso, perdita di massa grassa, e conservazione della massa magra dopo restrizione calorica in diete proteiche.
Studi a lungo termine hanno prodotto risultati limitati e contrastanti; tuttavia, una recente meta-analisi ha dimostrato benefici persistenti di una dieta a più alto contenuto di proteine sul peso corporeo e la massa grassa.
La conformità alimentare sembra essere il principale contributore ai risultati discrepanti perché i miglioramenti nella gestione del peso sono stati individuati in coloro che hanno aderito al regime di alto contenuto proteico prescritto, mentre quelli che non hanno aderito alla dieta non avevano miglioramenti marcati.
Insieme questi dati suggeriscono che le diete a più alto contenuto di proteine che contengono tra 1.2 e 1.6 g di proteine kg-1 d-1 e potenzialmente comprendono quantitativi di proteine specifiche del pasto di almeno 25-30 g di proteine / pasto danno miglioramenti dell'appetito, di gestione del peso, dei fattori di rischio cardiometabolico.
Negli studi a lungo termine, è necessario trovare una strategia per aumentare la compliance dei pazienti. Come in tutte le diete, del resto.
Autori: HJ Leidy, PM Clifton, A Astrup et al.
Fonte: Am J Clin Nutr 2015;101(Suppl):1320S–9S.
http://ajcn.nutrition.org/content/101/6/1320S.full.pdf+html
Dieta acidificante e calcolosi
Frutta e verdura per evitare nuovi calcoli renali.
L’assunzione di proteine animali può causare un carico acido che predispone gli individui a calcoli, influenzando l’escrezione di calcio e di citrato. Queste associazioni non sono state confermate in studi recenti.
Uno studio tutto italiano ha indagato il ruolo della qualità della dieta e in particolare il carico acido sulla formazione di calcoli renali.
I partecipanti allo studio sono stati 157 pazienti con calcolosi e 144 controlli. Le loro abitudini alimentari sono state analizzate grazie a un software che ha valutato l'assunzione di nutrienti da un diario alimentare di tre giorni.
Questo software ha permesso la stima del carico acido renale (Potential Renal Acid Load- PRAL, mEq / die).
Si è dosata inoltre l’escrezione urinaria di ioni e citrato nelle 24 ore.
I pazienti con calcolosi avevano formato in media 4 calcoli nella loro vita. Rispetto ai controlli, avevano una minore assunzione di zucchero (glucosio, fruttosio) potassio e fibre e più alto PRAL.
L'analisi di regressione logistica multinomiale ha dimostrato che il rischio di calcolosi è ridotto in corrispondenza del terzile intermedio e più alto di assunzione di fibre e aumenta nel terzile di PRAL più alto. L'analisi lineare di regressione multipla ha mostrato che l'escrezione di calcio si associa con l'escrezione di sodio. L'escrezione di citrato è associata a PRAL e alla assunzione di proteine animali nei pazienti con nefrolitiasi.
Questo studio suggerisce che i calcoli renali possono essere favoriti da una dieta acidificante, a basso contenuto di verdura. L’intake di proteine animali non differiva tra i due gruppi.
Il carico acido dietetico non appare come la principale determinante di escrezione di calcio, ma può promuovere il rischio calcolosi diminuendo l'escrezione di citrato. L'assunzione di sodio può predisporre a litiasi, stimolando l'escrezione di calcio.
Fonte: Nutr Metab Cardiovasc Dis. 2015 Jun;25(6):588-93
Link della fonte http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25921845
L’assunzione di proteine animali può causare un carico acido che predispone gli individui a calcoli, influenzando l’escrezione di calcio e di citrato. Queste associazioni non sono state confermate in studi recenti.
Uno studio tutto italiano ha indagato il ruolo della qualità della dieta e in particolare il carico acido sulla formazione di calcoli renali.
I partecipanti allo studio sono stati 157 pazienti con calcolosi e 144 controlli. Le loro abitudini alimentari sono state analizzate grazie a un software che ha valutato l'assunzione di nutrienti da un diario alimentare di tre giorni.
Questo software ha permesso la stima del carico acido renale (Potential Renal Acid Load- PRAL, mEq / die).
Si è dosata inoltre l’escrezione urinaria di ioni e citrato nelle 24 ore.
I pazienti con calcolosi avevano formato in media 4 calcoli nella loro vita. Rispetto ai controlli, avevano una minore assunzione di zucchero (glucosio, fruttosio) potassio e fibre e più alto PRAL.
L'analisi di regressione logistica multinomiale ha dimostrato che il rischio di calcolosi è ridotto in corrispondenza del terzile intermedio e più alto di assunzione di fibre e aumenta nel terzile di PRAL più alto. L'analisi lineare di regressione multipla ha mostrato che l'escrezione di calcio si associa con l'escrezione di sodio. L'escrezione di citrato è associata a PRAL e alla assunzione di proteine animali nei pazienti con nefrolitiasi.
Questo studio suggerisce che i calcoli renali possono essere favoriti da una dieta acidificante, a basso contenuto di verdura. L’intake di proteine animali non differiva tra i due gruppi.
Il carico acido dietetico non appare come la principale determinante di escrezione di calcio, ma può promuovere il rischio calcolosi diminuendo l'escrezione di citrato. L'assunzione di sodio può predisporre a litiasi, stimolando l'escrezione di calcio.
Fonte: Nutr Metab Cardiovasc Dis. 2015 Jun;25(6):588-93
Link della fonte http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25921845
Peso in gravidanza sotto controllo
L’alimentazione deve essere sana per mamma e bebè
L’eccessivo aumento di peso gestazionale può essere un fattore di rischio per il diabete mellito gestazionale.
Una metanalisi ha studiato l’associazione tra eccesso di crescita ponderale in gravidanza (GWG) e sviluppo di GDM (diabete gestazionale): l’analisi ha incluso otto studi che hanno coinvolto 13.748 partecipanti e conferma un OR di rischio pari a 1.40 (con omogeneità tra i diversi studi), indipendentemente dal BMI della madre all’inizio della gravidanza.
Evitare l’eccessivo aumento di peso durante la gravidanza prima dello screening GDM può essere una strategia potenziale per ridurre il rischio di GDM, quindi.
Il diabete mellito gestazionale può essere prevenuto con interventi sullo stile di vita. The Finnish Diabetes Prevention Study gestazionale (Radiel), uno studio controllato randomizzato, ha dimostrato che si può ridurre l'incidenza di GDM del 39% nelle donne in gravidanza ad alto rischio, tramite intervento personalizzato sulla dieta, il controllo del peso, l’attività fisica e il supporto di un dietista. Questi risultati possono avere importanti conseguenze per la salute sia per la madre e il bambino.
Pare che le donne che mangiano sano (e mediterraneo!) prima e durante la gravidanza riducano il rischio che il loro bambino sviluppi problemi al cuore. A scoprire questo legame e' stato uno studio americano pubblicato su Archives of Diseases in Childhood Fetal & Neonatal Edition. Lo studio ha coinvolto circa 19 mila donne, interrogate sulla dieta seguita durante la gravidanza.
Metà delle mamme ha messo al mondo un bambino con problemi cardiaci, l'altra metà invece ha dato alla luce figli sani.
Dal confronto delle diete seguite da entrambi i gruppi delle mamme è emerso che chi ha consumato una dieta sana ha avuto meno probabilità di partorire un bambino con problemi cardiaci.
Autori: Ziebarth SS, Nehring I, Rifas-Shiman S et al.
Fonte: Diabetologia, luglio 2015
Link della fonte http://link.springer.com/article/10.1007%2Fs00125-015-3686-5
L’eccessivo aumento di peso gestazionale può essere un fattore di rischio per il diabete mellito gestazionale.
Una metanalisi ha studiato l’associazione tra eccesso di crescita ponderale in gravidanza (GWG) e sviluppo di GDM (diabete gestazionale): l’analisi ha incluso otto studi che hanno coinvolto 13.748 partecipanti e conferma un OR di rischio pari a 1.40 (con omogeneità tra i diversi studi), indipendentemente dal BMI della madre all’inizio della gravidanza.
Evitare l’eccessivo aumento di peso durante la gravidanza prima dello screening GDM può essere una strategia potenziale per ridurre il rischio di GDM, quindi.
Il diabete mellito gestazionale può essere prevenuto con interventi sullo stile di vita. The Finnish Diabetes Prevention Study gestazionale (Radiel), uno studio controllato randomizzato, ha dimostrato che si può ridurre l'incidenza di GDM del 39% nelle donne in gravidanza ad alto rischio, tramite intervento personalizzato sulla dieta, il controllo del peso, l’attività fisica e il supporto di un dietista. Questi risultati possono avere importanti conseguenze per la salute sia per la madre e il bambino.
Pare che le donne che mangiano sano (e mediterraneo!) prima e durante la gravidanza riducano il rischio che il loro bambino sviluppi problemi al cuore. A scoprire questo legame e' stato uno studio americano pubblicato su Archives of Diseases in Childhood Fetal & Neonatal Edition. Lo studio ha coinvolto circa 19 mila donne, interrogate sulla dieta seguita durante la gravidanza.
Metà delle mamme ha messo al mondo un bambino con problemi cardiaci, l'altra metà invece ha dato alla luce figli sani.
Dal confronto delle diete seguite da entrambi i gruppi delle mamme è emerso che chi ha consumato una dieta sana ha avuto meno probabilità di partorire un bambino con problemi cardiaci.
Autori: Ziebarth SS, Nehring I, Rifas-Shiman S et al.
Fonte: Diabetologia, luglio 2015
Link della fonte http://link.springer.com/article/10.1007%2Fs00125-015-3686-5
Grasso addominale e lesioni epatiche
Uno studio con l’impedenza bioelettrica
Il grasso addominale svolge un ruolo importante nella steatosi epatica non alcolica (NAFLD), ma non è facile da studiare e misurare. In questo studio, si è utilizzata l’impedenza bioelettrica (BIA) per quantificare l'obesità viscerale.
Settantaquattro pazienti con NAFLD (Non Alcholic Fatty Liver Disease- steatosi non alcolica) sono stati sottoposti a misurazione dei livelli di massa grassa addominale. I livelli pari a 12,5 sono stati usati come cut off: soggetti con più di 12,5 sono stati considerati ad alto grasso addominale.
La media ± DS del BMI era di 30 ± 4 kg / m2 ed i livelli medi di grasso addominale erano 16 ± 5, mentre il 26% dei pazienti aveva livelli medi di grasso addominale (inferiori a 12.5).
I pazienti con grasso addominale medio rispetto a quelli con un aumento dei livelli di grasso addominale erano più frequentemente donne (50 contro 12%, p = 0,001), con più basso indice di massa corporea (27 ± 3 vs 31 ± 4 kg/m2, p <0.001), HOMA più basso (2,6 ± 1,4 vs 3,9 ± 2,7, p = 0.045), ed inferiore rigidità epatica mediana tramite elastografia transitoria (5,3 vs. 6,8 kPa, P = 0.025).
Nei pazienti con biopsia epatica, era presente steatoepatite più frequentemente in pazienti con un aumento di grasso addominale (78 vs 38%, p = 0,030) e nei pazienti con BMI di 30 o superiore rispetto a quelli con meno di 30 kg/m2 (87 vs 48%, p = 0,033), ma era simile in pazienti con circonferenza della vita normale o aumentata (67 vs 56%, p = 0,693).
I livelli medi di grasso addominale, valutati mediante BIA , sono principalmente presenti nei pazienti di sesso femminile con NAFLD e sono associati con un minor grado di insulino-resistenza.
La NFLD è una patologia piuttosto frequente nelle persone obese ed in sovrappeso ed è legata allo sviluppo di fibrosi epatica, cirrosi e insufficienza epatica. È legata alla sindrome metabolica e aumenta il rischio cardiovascolare.
La valutazione del grasso viscerale con l’impedenza bioelettrica può contribuire a predire il danno epatico nella NFLD. Il grasso viscerale è spesso misconosciuto, non sempre è correlato al BMI o alla circonferenza addominale.
La valutazione della composizione corporea è un’indagine non invasiva e fondamentale per la valutazione dello stato nutrizionale (e di salute) di un paziente.
Autori: Margariti A, Kontogianni MD, Tileli N, Georgoulis M, Deutsch M, Zafeiropoulou R, Tiniakos D, Manios Y, Pectasides D, Papatheodoridis GV.
Fonte: Eur J Gastroenterol Hepatol. 2015 May 19. Increased abdominal fat levels measured by bioelectrical impedance are associated with histological lesions of nonalcoholic steatohepatitis.
Link della fonte: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26011231
Il grasso addominale svolge un ruolo importante nella steatosi epatica non alcolica (NAFLD), ma non è facile da studiare e misurare. In questo studio, si è utilizzata l’impedenza bioelettrica (BIA) per quantificare l'obesità viscerale.
Settantaquattro pazienti con NAFLD (Non Alcholic Fatty Liver Disease- steatosi non alcolica) sono stati sottoposti a misurazione dei livelli di massa grassa addominale. I livelli pari a 12,5 sono stati usati come cut off: soggetti con più di 12,5 sono stati considerati ad alto grasso addominale.
La media ± DS del BMI era di 30 ± 4 kg / m2 ed i livelli medi di grasso addominale erano 16 ± 5, mentre il 26% dei pazienti aveva livelli medi di grasso addominale (inferiori a 12.5).
I pazienti con grasso addominale medio rispetto a quelli con un aumento dei livelli di grasso addominale erano più frequentemente donne (50 contro 12%, p = 0,001), con più basso indice di massa corporea (27 ± 3 vs 31 ± 4 kg/m2, p <0.001), HOMA più basso (2,6 ± 1,4 vs 3,9 ± 2,7, p = 0.045), ed inferiore rigidità epatica mediana tramite elastografia transitoria (5,3 vs. 6,8 kPa, P = 0.025).
Nei pazienti con biopsia epatica, era presente steatoepatite più frequentemente in pazienti con un aumento di grasso addominale (78 vs 38%, p = 0,030) e nei pazienti con BMI di 30 o superiore rispetto a quelli con meno di 30 kg/m2 (87 vs 48%, p = 0,033), ma era simile in pazienti con circonferenza della vita normale o aumentata (67 vs 56%, p = 0,693).
I livelli medi di grasso addominale, valutati mediante BIA , sono principalmente presenti nei pazienti di sesso femminile con NAFLD e sono associati con un minor grado di insulino-resistenza.
La NFLD è una patologia piuttosto frequente nelle persone obese ed in sovrappeso ed è legata allo sviluppo di fibrosi epatica, cirrosi e insufficienza epatica. È legata alla sindrome metabolica e aumenta il rischio cardiovascolare.
La valutazione del grasso viscerale con l’impedenza bioelettrica può contribuire a predire il danno epatico nella NFLD. Il grasso viscerale è spesso misconosciuto, non sempre è correlato al BMI o alla circonferenza addominale.
La valutazione della composizione corporea è un’indagine non invasiva e fondamentale per la valutazione dello stato nutrizionale (e di salute) di un paziente.
Autori: Margariti A, Kontogianni MD, Tileli N, Georgoulis M, Deutsch M, Zafeiropoulou R, Tiniakos D, Manios Y, Pectasides D, Papatheodoridis GV.
Fonte: Eur J Gastroenterol Hepatol. 2015 May 19. Increased abdominal fat levels measured by bioelectrical impedance are associated with histological lesions of nonalcoholic steatohepatitis.
Link della fonte: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26011231
L'importanza della qualità dell'acqua per la nostra salute
Lo stile di vita, i fattori ambientali e il corredo genetico sono gli elementi principali che intervengono nel determinare la qualità della nostra salute e la velocità con cui il nostro corpo invecchia.
Nel processo di infiammazione e di invecchiamento entrano in gioco numerosi meccanismi che interagiscono simultaneamente e determinano una progressiva riduzione dell’efficacia di varie funzioni fisiologiche nell’organismo.
Con il passare degli anni, il carico antigenico cronico - che può essere considerato come uno stress a cui si è esposti per tutta la durata della vita - diventa responsabile dell’immunosenescenza e dello sviluppo di una condizione cronica di infiammazione, il vero killer silenzioso della nostra epoca.
Questo è il terreno di approfondimento della PNEI (Psico-Neuro-Endocrino-Immunologia), il nuovo paradigma scientifico “olistico” della medicina moderna.
La PNEI ha come fulcro lo studio dei sistemi dello stress e delle conseguenze della loro iper-attivazione. Bruce McEwen (grande ricercatore in tema di stress) ci ricorda che questo termine, in origine, era considerato una risposta dell’organismo a sollecitazioni di vario tipo. Il nostro corpo è programmato per consentirci di rispondere ai cambiamenti che si verificano nell’ambiente e alle sfide che, ogni giorno, dobbiamo affrontare.
In una valle ad alta quota nel nord del Pakistan vive una popolazione (Hunza) particolarmente longeva. All’inizio del secolo scorso il dr. Henri Coandă, premio Nobel e padre della dinamica dei fluidi, studiò l’acqua degli Hunza. Studi successivi del dr. Flanagan evidenziarono un elevato ph alcalino e una straordinaria quantità di idrogeno attivo con forte potere antiossidante ed elevato contenuto di minerali.
Un’importante garanzia di salute è data dalla qualità dell’acqua che beviamo. Cosa fare?
L’osmosi inversa consente di “depurare” l’acqua dai diversi inquinanti, modulare la durezza (data dalla quantità di sali di calcio e di magnesio contenuti nell’acqua) e il residuo fisso. Riteniamo ottimale un residuo fisso intorno ai 100 mg/dl.
L’acqua così ottenuta si presta ad essere ulteriormente trattata mediante il processo di ionizzazione che la rende alcalina e antiossidante.
L’acqua ionizzata è acqua potabile trattata che viene trasformata in acqua alcalina-antiossidante, ricca di minerali alcalinizzanti altamente biodisponibili e di ossigeno (in forma OH-).
Nella nostra esperienza consigliamo di bere acqua a pH superiore a 8.5 lontano dai pasti come una vera e propria terapia alcalinizzante mentre riteniamo idonea l’acqua depurata ad osmosi inversa e/o acqua a pH 7-7.5 per usi gastronomici e per il consumo a tavola.
Nel processo di infiammazione e di invecchiamento entrano in gioco numerosi meccanismi che interagiscono simultaneamente e determinano una progressiva riduzione dell’efficacia di varie funzioni fisiologiche nell’organismo.
Con il passare degli anni, il carico antigenico cronico - che può essere considerato come uno stress a cui si è esposti per tutta la durata della vita - diventa responsabile dell’immunosenescenza e dello sviluppo di una condizione cronica di infiammazione, il vero killer silenzioso della nostra epoca.
Questo è il terreno di approfondimento della PNEI (Psico-Neuro-Endocrino-Immunologia), il nuovo paradigma scientifico “olistico” della medicina moderna.
La PNEI ha come fulcro lo studio dei sistemi dello stress e delle conseguenze della loro iper-attivazione. Bruce McEwen (grande ricercatore in tema di stress) ci ricorda che questo termine, in origine, era considerato una risposta dell’organismo a sollecitazioni di vario tipo. Il nostro corpo è programmato per consentirci di rispondere ai cambiamenti che si verificano nell’ambiente e alle sfide che, ogni giorno, dobbiamo affrontare.
In una valle ad alta quota nel nord del Pakistan vive una popolazione (Hunza) particolarmente longeva. All’inizio del secolo scorso il dr. Henri Coandă, premio Nobel e padre della dinamica dei fluidi, studiò l’acqua degli Hunza. Studi successivi del dr. Flanagan evidenziarono un elevato ph alcalino e una straordinaria quantità di idrogeno attivo con forte potere antiossidante ed elevato contenuto di minerali.
Un’importante garanzia di salute è data dalla qualità dell’acqua che beviamo. Cosa fare?
L’osmosi inversa consente di “depurare” l’acqua dai diversi inquinanti, modulare la durezza (data dalla quantità di sali di calcio e di magnesio contenuti nell’acqua) e il residuo fisso. Riteniamo ottimale un residuo fisso intorno ai 100 mg/dl.
L’acqua così ottenuta si presta ad essere ulteriormente trattata mediante il processo di ionizzazione che la rende alcalina e antiossidante.
L’acqua ionizzata è acqua potabile trattata che viene trasformata in acqua alcalina-antiossidante, ricca di minerali alcalinizzanti altamente biodisponibili e di ossigeno (in forma OH-).
Nella nostra esperienza consigliamo di bere acqua a pH superiore a 8.5 lontano dai pasti come una vera e propria terapia alcalinizzante mentre riteniamo idonea l’acqua depurata ad osmosi inversa e/o acqua a pH 7-7.5 per usi gastronomici e per il consumo a tavola.
Fruttosio nel mirino
Il consumo di fruttosio è drammaticamente aumentato negli ultimi 30 anni. Gli effetti del consumo eccessivo di fruttosio sulla salute, però, sono ancora quasi sconosciuti.
Le concentrazioni più elevate di fruttosio si trovano nello sciroppo di mais, nelle bibite e negli alimenti trasformati. Il fruttosio è stato implicato come causa in diverse complicanze correlate all'obesità e alla sindrome metabolica.
Questi temi sono trattati in una recente revisione che prende in considerazione varie fasi del metabolismo del fruttosio, cercando di approfondire come un eccessivo consumo di fruttosio possa influenzare de novo la lipogenesi, l'insulino-resistenza, l'infiammazione, e la produzione di specie reattive dell'ossigeno. Il fruttosio potrebbe anche indurre un cambiamento nella permeabilità della barriera intestinale e promuovere il rilascio di fattori infiammatori per il fegato con potenziali implicazioni nell’aumento di infiammazione epatica (epatite).
Inoltre, il fruttosio è stato associato a tumori del fegato, colon e pancreas. Complessivamente le evidenze suggeriscono che il consumo di fruttosio dovrebbe essere limitato in quanto dannoso per la salute umana nel lungo termine. È una questione da tener ben presente quando s’intende pianificare una dieta sostituendo lo zucchero semplice con il fruttosio.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25965509
Horm Mol Biol Clin Investig. 2015 May 12. pii: /j/hmbci.ahead-of-print/hmbci-2015-0009/hmbci-2015-0009.xml. doi: 10.1515/hmbci-2015-0009. [Epub ahead of print]
The role of fructose in metabolism and cancer.
Le concentrazioni più elevate di fruttosio si trovano nello sciroppo di mais, nelle bibite e negli alimenti trasformati. Il fruttosio è stato implicato come causa in diverse complicanze correlate all'obesità e alla sindrome metabolica.
Questi temi sono trattati in una recente revisione che prende in considerazione varie fasi del metabolismo del fruttosio, cercando di approfondire come un eccessivo consumo di fruttosio possa influenzare de novo la lipogenesi, l'insulino-resistenza, l'infiammazione, e la produzione di specie reattive dell'ossigeno. Il fruttosio potrebbe anche indurre un cambiamento nella permeabilità della barriera intestinale e promuovere il rilascio di fattori infiammatori per il fegato con potenziali implicazioni nell’aumento di infiammazione epatica (epatite).
Inoltre, il fruttosio è stato associato a tumori del fegato, colon e pancreas. Complessivamente le evidenze suggeriscono che il consumo di fruttosio dovrebbe essere limitato in quanto dannoso per la salute umana nel lungo termine. È una questione da tener ben presente quando s’intende pianificare una dieta sostituendo lo zucchero semplice con il fruttosio.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25965509
Horm Mol Biol Clin Investig. 2015 May 12. pii: /j/hmbci.ahead-of-print/hmbci-2015-0009/hmbci-2015-0009.xml. doi: 10.1515/hmbci-2015-0009. [Epub ahead of print]
The role of fructose in metabolism and cancer.
Allergie alimentari in pediatria
La prevalenza di allergie alimentari e anafilassi in età pediatrica è aumentata negli ultimi decenni, in particolare nei paesi occidentalizzati dove questo fenomeno è emergente.
Negli ultimi anni sono stati raggiunti grandi progressi nel campo della diagnosi di allergia contribuendo, nelle pratica clinica, a una valutazione accurata del rischio di gravi reazioni allergiche crociate. Il concetto di base della gestione delle allergie alimentari nei bambini sta cambiando.
Evitare il cibo incriminato è ancora il pilastro per la gestione della malattia, soprattutto in contesti di assistenza sanitaria di base, ma colpisce gravemente la qualità della vita dei pazienti, senza ridurre il rischio di reazioni allergiche accidentali. In proposito vi sono crescenti evidenze che dimostrano che l'induzione specifica della tolleranza orale può rappresentare un'opzione terapeutica promettente per i pazienti con allergie alimentari.
In parallelo, l'educazione dei pazienti e di chi li assiste, nonché dei medici, sull’anafilassi e il suo trattamento, continua ad essere riconosciuta come una priorità. Le linee guida internazionali hanno recentemente integrato queste nuove evidenze e la loro vasta applicazione in tutta Europa rappresenta la nuova sfida per gli specialisti delle allergie alimentari. Per tutti questi motivi l’aggiornamento professionale è doveroso.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25880827
Ital J Pediatr. 2015 Feb 19;41(1):13. doi: 10.1186/s13052-014-0108-0.
Diagnosis and treatment of pediatric food allergy: an update.
Negli ultimi anni sono stati raggiunti grandi progressi nel campo della diagnosi di allergia contribuendo, nelle pratica clinica, a una valutazione accurata del rischio di gravi reazioni allergiche crociate. Il concetto di base della gestione delle allergie alimentari nei bambini sta cambiando.
Evitare il cibo incriminato è ancora il pilastro per la gestione della malattia, soprattutto in contesti di assistenza sanitaria di base, ma colpisce gravemente la qualità della vita dei pazienti, senza ridurre il rischio di reazioni allergiche accidentali. In proposito vi sono crescenti evidenze che dimostrano che l'induzione specifica della tolleranza orale può rappresentare un'opzione terapeutica promettente per i pazienti con allergie alimentari.
In parallelo, l'educazione dei pazienti e di chi li assiste, nonché dei medici, sull’anafilassi e il suo trattamento, continua ad essere riconosciuta come una priorità. Le linee guida internazionali hanno recentemente integrato queste nuove evidenze e la loro vasta applicazione in tutta Europa rappresenta la nuova sfida per gli specialisti delle allergie alimentari. Per tutti questi motivi l’aggiornamento professionale è doveroso.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25880827
Ital J Pediatr. 2015 Feb 19;41(1):13. doi: 10.1186/s13052-014-0108-0.
Diagnosis and treatment of pediatric food allergy: an update.
Uova assolte per il colesterolo ?!
Il consumo di uova è sconsigliato a causa del contenuto in colesterolo; tuttavia, studi recenti non hanno dimostrato una chiara influenza negativa sui lipidi nel sangue.
Venticinque uomini e donne (18-35 anni) adulti sani hanno partecipato a uno studio di dodici settimane dopo l'assegnazione casuale a due gruppi diversi dei quali uno consumava una colazione a base di uova (2 al giorno) e il secondo una colazione a base di bagel (panini salati a forma di ciambelle), entrambi erano sottoposti ad esercizio fisico intenso.
Il quadro lipidico e la pressione arteriosa sono stati misurati al basale, dopo 6 e 12 settimane. Si è così, in sostanza , dimostrato che i trigliceridi plasmatici (TG) sono diminuiti in modo significativo nel gruppo con la colazione a base d'uovo dal basale a sei settimane (p = 0,011) e da sei a dodici settimane (p = 0,045). Non sono stati rilevati effetti significativi sulla pressione arteriosa e sul colesterolo totale, HDL e LDL.
Nel complesso, quindi, gli autori ritengono che il consumo di uova ogni giorno per 12 settimane non abbia influenzato i livelli di colesterolo e abbia migliorato la trigliceridemia, tuttavia l’attività fisica intensa è stata probabilmente d’aiuto, ricordando che si trattava comunque di soggetti giovani e sani.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25785868
J Am Coll Nutr. 2015 Mar 18:1-7. [Epub ahead of print]
Influence of Resistance Training Combined with Daily Consumption of an Egg-based or Bagel-based Breakfast on Risk Factors for Chronic Diseases in Healthy Untrained Individuals.
Venticinque uomini e donne (18-35 anni) adulti sani hanno partecipato a uno studio di dodici settimane dopo l'assegnazione casuale a due gruppi diversi dei quali uno consumava una colazione a base di uova (2 al giorno) e il secondo una colazione a base di bagel (panini salati a forma di ciambelle), entrambi erano sottoposti ad esercizio fisico intenso.
Il quadro lipidico e la pressione arteriosa sono stati misurati al basale, dopo 6 e 12 settimane. Si è così, in sostanza , dimostrato che i trigliceridi plasmatici (TG) sono diminuiti in modo significativo nel gruppo con la colazione a base d'uovo dal basale a sei settimane (p = 0,011) e da sei a dodici settimane (p = 0,045). Non sono stati rilevati effetti significativi sulla pressione arteriosa e sul colesterolo totale, HDL e LDL.
Nel complesso, quindi, gli autori ritengono che il consumo di uova ogni giorno per 12 settimane non abbia influenzato i livelli di colesterolo e abbia migliorato la trigliceridemia, tuttavia l’attività fisica intensa è stata probabilmente d’aiuto, ricordando che si trattava comunque di soggetti giovani e sani.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25785868
J Am Coll Nutr. 2015 Mar 18:1-7. [Epub ahead of print]
Influence of Resistance Training Combined with Daily Consumption of an Egg-based or Bagel-based Breakfast on Risk Factors for Chronic Diseases in Healthy Untrained Individuals.
Estate e vitamina D
L’estate è la stagione propizia per fare scorta di vitamina D e per la salute delle ossa: è bene pensarci in tempo.
Lo stato della vitamina D può essere valutato dalle misure delle concentrazioni di 25-idrossivitamina D (25) (OH) D nel siero. La luce solare è la più importante fonte naturale di vitamina D e stimola la produzione di vitamina D3 nella pelle durante l'estate, a seconda dell'età, della pigmentazione della pelle, dello stile di abbigliamento, e dell’impiego delle creme solari.
La variazione stagionale nel siero della 25 (OH) D è compresa tra 10 e 20 nmol/L negli adulti e quasi assente nei residenti delle case di cura. Utilizzare la protezione solare diminuisce, ma non abolisce, la produzione di vitamina D nella pelle. Lo stile dell’abbigliamento ha una grande influenza sulla produzione di vitamina D.
Inoltre, lo stato della vitamina D può essere migliorato con l'ingestione di pesce grasso e la fortificazione del latte o del succo d'arancia. Un elevato apporto di calcio nella dieta ha un effetto vitamina D-risparmiatore, perché aumenta l'emivita della 25 (OH) D. Dunque, l’esposizione alla luce solare dell’estate combinata con la giusta nutrizione fortificata, sono sufficienti per avere scorte di vitamina D per tutto l’anno.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24814938
Ann N Y Acad Sci. 2014 May;1317(1):92-8. doi: 10.1111/nyas.12443. Epub 2014 May 9.
Diet, sun, and lifestyle as determinants of vitamin D status.
Lo stato della vitamina D può essere valutato dalle misure delle concentrazioni di 25-idrossivitamina D (25) (OH) D nel siero. La luce solare è la più importante fonte naturale di vitamina D e stimola la produzione di vitamina D3 nella pelle durante l'estate, a seconda dell'età, della pigmentazione della pelle, dello stile di abbigliamento, e dell’impiego delle creme solari.
La variazione stagionale nel siero della 25 (OH) D è compresa tra 10 e 20 nmol/L negli adulti e quasi assente nei residenti delle case di cura. Utilizzare la protezione solare diminuisce, ma non abolisce, la produzione di vitamina D nella pelle. Lo stile dell’abbigliamento ha una grande influenza sulla produzione di vitamina D.
Inoltre, lo stato della vitamina D può essere migliorato con l'ingestione di pesce grasso e la fortificazione del latte o del succo d'arancia. Un elevato apporto di calcio nella dieta ha un effetto vitamina D-risparmiatore, perché aumenta l'emivita della 25 (OH) D. Dunque, l’esposizione alla luce solare dell’estate combinata con la giusta nutrizione fortificata, sono sufficienti per avere scorte di vitamina D per tutto l’anno.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24814938
Ann N Y Acad Sci. 2014 May;1317(1):92-8. doi: 10.1111/nyas.12443. Epub 2014 May 9.
Diet, sun, and lifestyle as determinants of vitamin D status.
Alimentazione e prevenzione cardiovascolare
I progetti comunitari preventivi volti al miglioramento della salute pubblica e centrati sullo stile di vita e sulla sana alimentazione, sembrano funzionare.
In Canada nell’ambito del programma CHIP (Complete Health Improvement Program) un totale di 1.003 persone (di età compresa tra 56.3 ± 12,1 anni, 68% donne) sono state selezionate per partecipare a uno dei 27 interventi previsti e ospitati in ambienti comunitari dalle chiese avventiste tra il 2005 e il 2011.
Il programma prevedeva un intervento correttivo dell’alimentazione con la proposta di un maggior consumo di vegetali e alcune modificazioni dello stile di vita. Si è così verificato che dopo 30 giorni dall’inizio del programma si potevano rilevare significative riduzioni complessive del BMI dei partecipanti (-3,1%), della pressione arteriosa sistolica (-7,3%), della pressione diastolica (-4,3%), del colesterolo totale ([TC] - 11,3%), del colesterolo LDL-C (-12.9%), dei trigliceridi ([TG] -8,2%), e della glicemia a digiuno FBS (-7,0%).
Gli autori ritengono che tali programmi siano da incentivare soprattutto per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. Intervenire sull’alimentazione, dunque, specie negli ambienti comunitari, potrebbe costituire una soluzione vincente per la prevenzione delle malattie cronico-degenerative, nelle popolazioni a rischio.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24897012
Can J Diet Pract Res. 2014 Summer;75(1):72-7.
The Complete Health Improvement Program (CHIP) And Reduction of Chronic Disease Risk Factors in Canada.
In Canada nell’ambito del programma CHIP (Complete Health Improvement Program) un totale di 1.003 persone (di età compresa tra 56.3 ± 12,1 anni, 68% donne) sono state selezionate per partecipare a uno dei 27 interventi previsti e ospitati in ambienti comunitari dalle chiese avventiste tra il 2005 e il 2011.
Il programma prevedeva un intervento correttivo dell’alimentazione con la proposta di un maggior consumo di vegetali e alcune modificazioni dello stile di vita. Si è così verificato che dopo 30 giorni dall’inizio del programma si potevano rilevare significative riduzioni complessive del BMI dei partecipanti (-3,1%), della pressione arteriosa sistolica (-7,3%), della pressione diastolica (-4,3%), del colesterolo totale ([TC] - 11,3%), del colesterolo LDL-C (-12.9%), dei trigliceridi ([TG] -8,2%), e della glicemia a digiuno FBS (-7,0%).
Gli autori ritengono che tali programmi siano da incentivare soprattutto per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. Intervenire sull’alimentazione, dunque, specie negli ambienti comunitari, potrebbe costituire una soluzione vincente per la prevenzione delle malattie cronico-degenerative, nelle popolazioni a rischio.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24897012
Can J Diet Pract Res. 2014 Summer;75(1):72-7.
The Complete Health Improvement Program (CHIP) And Reduction of Chronic Disease Risk Factors in Canada.
Obesità infantile e stile di vita
La probabilità di essere obesi, specie per i ragazzini, oltre che da fattori dietetici e familiari, sembra fortemente influenzata dallo stile di vita.
In altri termini, un’attività fisica costante, una maggiore durata del sonno e un minor tempo trascorso davanti alla TV, sono le variabili che possono garantire protezione dall’obesità specie per i ragazzini. Com’è risultato da un’indagine campione condotta in America nel Midwest su 674 bambini (età 7-12 anni) provenienti da due comunità.
I partecipanti sono stati suddivisi in quattro gruppi a seconda di quante erano le raccomandazioni rispettate (0,1,2, 3 o tutte ). Sui dati è stata effettuata un’analisi logistica per determinare l'influenza sull’obesità di: attività fisica , tempo trascorso davanti alla TV e durata del sonno.
Si è così evidenziato che, i bambini (9,2% del campione totale) che avevano rispettato tutte tre le raccomandazioni simultaneamente (attività fisica costante e regolare, riduzione del tempo davanti alla TV, aumento della durata del sonno) avevano la minore probabilità di essere obesi. Circa il 16% dei ragazzi e il 9 % delle ragazze che raggiungevano tutte le raccomandazioni erano in sovrappeso o obesi, rispetto al 53% dei ragazzi e il 42,5% delle ragazze che rispettavano alcuna raccomandazione.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24734210
ISRN Obes. 2014 Mar 9;2014:204540. doi: 10.1155/2014/204540. eCollection 2014.
Concurrent Associations between Physical Activity, Screen Time, and Sleep Duration with Childhood Obesity.
In altri termini, un’attività fisica costante, una maggiore durata del sonno e un minor tempo trascorso davanti alla TV, sono le variabili che possono garantire protezione dall’obesità specie per i ragazzini. Com’è risultato da un’indagine campione condotta in America nel Midwest su 674 bambini (età 7-12 anni) provenienti da due comunità.
I partecipanti sono stati suddivisi in quattro gruppi a seconda di quante erano le raccomandazioni rispettate (0,1,2, 3 o tutte ). Sui dati è stata effettuata un’analisi logistica per determinare l'influenza sull’obesità di: attività fisica , tempo trascorso davanti alla TV e durata del sonno.
Si è così evidenziato che, i bambini (9,2% del campione totale) che avevano rispettato tutte tre le raccomandazioni simultaneamente (attività fisica costante e regolare, riduzione del tempo davanti alla TV, aumento della durata del sonno) avevano la minore probabilità di essere obesi. Circa il 16% dei ragazzi e il 9 % delle ragazze che raggiungevano tutte le raccomandazioni erano in sovrappeso o obesi, rispetto al 53% dei ragazzi e il 42,5% delle ragazze che rispettavano alcuna raccomandazione.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24734210
ISRN Obes. 2014 Mar 9;2014:204540. doi: 10.1155/2014/204540. eCollection 2014.
Concurrent Associations between Physical Activity, Screen Time, and Sleep Duration with Childhood Obesity.
Tè verde si, ma non per dimagrire
Il consumo di tè verde o dei suoi estratti (caffeina e catechine) non sembra avere effetti significativi sul peso corporeo e la composizione corporea.
Questo, nella sostanza, il risultato di una revisione sistematica della letteratura condotta da un gruppo di ricercatori spagnoli. Lo scopo primario era determinare l'entità dell'effetto del tè verde o dei suoi estratti sul peso corporeo (kg), sull’indice di massa corporea (BMI) (kg/m2), sulla massa grassa (%), e sulle circonferenze vita e vita-fianchi (cm).
Sono stati considerati gli studi pubblicati dal 2000 al 2013, recuperati da PubMed e riguardanti soggetti sani di entrambi i sessi, di età ≥ 18 anni, con un BMI 25-40 kg/m2. Sono stati così esaminati 154 studi, di cui solo 5 potevano essere inclusi nell'analisi quantitativa. L'analisi ha rivelato una differenza media (MD) non statisticamente significativa nella perdita di peso nel campione in toto e nei sottogruppi analizzati (asiatici -0,81 kg, caucasici -0,73 kg).
Nessuna riduzione statisticamente significativa è stata rivelata nel cambiamento del BMI sia nel campione in toto, sia nei sottogruppi analizzati (asiatici -0.65, -0,21 caucasici), e lo stesso si è verificato per le circonferenze vita e vita-fianchi. Uno scarso effetto si è, invece, evidenziato sulla diminuzione della percentuale di massa grassa, ma tale effetto non era clinicamente rilevante .
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24558988
Nutr Hosp. 2014 Mar 1;29(3):479-90. doi: 10.3305/nh.2014.29.3.7118.
[Effect of green tea or green tea extract consumption on body weight and body composition; systematic review and meta-analysis].
Questo, nella sostanza, il risultato di una revisione sistematica della letteratura condotta da un gruppo di ricercatori spagnoli. Lo scopo primario era determinare l'entità dell'effetto del tè verde o dei suoi estratti sul peso corporeo (kg), sull’indice di massa corporea (BMI) (kg/m2), sulla massa grassa (%), e sulle circonferenze vita e vita-fianchi (cm).
Sono stati considerati gli studi pubblicati dal 2000 al 2013, recuperati da PubMed e riguardanti soggetti sani di entrambi i sessi, di età ≥ 18 anni, con un BMI 25-40 kg/m2. Sono stati così esaminati 154 studi, di cui solo 5 potevano essere inclusi nell'analisi quantitativa. L'analisi ha rivelato una differenza media (MD) non statisticamente significativa nella perdita di peso nel campione in toto e nei sottogruppi analizzati (asiatici -0,81 kg, caucasici -0,73 kg).
Nessuna riduzione statisticamente significativa è stata rivelata nel cambiamento del BMI sia nel campione in toto, sia nei sottogruppi analizzati (asiatici -0.65, -0,21 caucasici), e lo stesso si è verificato per le circonferenze vita e vita-fianchi. Uno scarso effetto si è, invece, evidenziato sulla diminuzione della percentuale di massa grassa, ma tale effetto non era clinicamente rilevante .
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24558988
Nutr Hosp. 2014 Mar 1;29(3):479-90. doi: 10.3305/nh.2014.29.3.7118.
[Effect of green tea or green tea extract consumption on body weight and body composition; systematic review and meta-analysis].
La dieta e le circonferenze
Alcuni modelli dietetici possono influenzare le misure antropometriche indicative della deposizione di grasso addominale.
Uno studio cross-sezionale è stato condotto in una regione centro-occidentale del Brasile, con un campione probabilistico di 208 adulti di entrambi i sessi. I dati sulla assunzione abituale di cibo sono stati ottenuti utilizzando un FFQ e un’analisi della frequenza dei consumi (componenti principali) è stata condotta per identificare i modelli alimentari.
La circonferenza della vita (WC) e il rapporto vita-fianchi (WHR) sono stati utilizzati per valutare il grasso addominale. Sono stati dapprima identificati tre modelli alimentari: occidentale, tradizionale regionale e “prudente”. Dall’elaborazione dei dati una prima associazione positiva è stata trovata tra il modello occidentale e WC e WHR, e tra il modello tradizionale regionale e WHR, tra le donne.
Un’associazione meno evidente è stata trovata anche tra il modello regionale tradizionale e WC, sempre tra le donne reclutate. Gli autori, dunque, sono propensi a credere che la dieta abituale su modello occidentale e la dieta tradizionale regionale possano comportare, nelle donne, un aumento del grasso addominale.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24714940
Cad Saude Publica. 2014 Mar;30(3):502-10.
Dietary patterns associated with anthropometric indicators of abdominal fat in adults.
Uno studio cross-sezionale è stato condotto in una regione centro-occidentale del Brasile, con un campione probabilistico di 208 adulti di entrambi i sessi. I dati sulla assunzione abituale di cibo sono stati ottenuti utilizzando un FFQ e un’analisi della frequenza dei consumi (componenti principali) è stata condotta per identificare i modelli alimentari.
La circonferenza della vita (WC) e il rapporto vita-fianchi (WHR) sono stati utilizzati per valutare il grasso addominale. Sono stati dapprima identificati tre modelli alimentari: occidentale, tradizionale regionale e “prudente”. Dall’elaborazione dei dati una prima associazione positiva è stata trovata tra il modello occidentale e WC e WHR, e tra il modello tradizionale regionale e WHR, tra le donne.
Un’associazione meno evidente è stata trovata anche tra il modello regionale tradizionale e WC, sempre tra le donne reclutate. Gli autori, dunque, sono propensi a credere che la dieta abituale su modello occidentale e la dieta tradizionale regionale possano comportare, nelle donne, un aumento del grasso addominale.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24714940
Cad Saude Publica. 2014 Mar;30(3):502-10.
Dietary patterns associated with anthropometric indicators of abdominal fat in adults.
Bevande dolci: attenti all'ictus !
In Svezia 32.575 donne di età compresa tra 49-83 anni e 35.884 uomini di età compresa tra 45-79 anni, senza malattie cardiovascolari, cancro o diabete al basale, sono stati seguiti per oltre 10 anni. I dati relativi ai loro consumi sono stati rilevati tramite questionari FFQ e le eventuali patologie cardiovascolari subentranti sono state accertate dai dati presenti nel registro nazionale ospedaliero svedese e al registro delle cause di mortalità.
Dopo un’analisi dei dati disponibili sono emersi: 3.510 casi incidenti di ictus, tra cui 2.588 infarti cerebrali, 349 emorragie intracerebrali, 156 emorragie subaracnoidee, e 417 ictus non specificati, nel corso di un follow-up medio di 10.3 anni. Queste evidenze, secondo gli autori, suggeriscono che il consumo di bevande zuccherate era positivamente e significativamente associato con il rischio di ictus totale e infarto cerebrale, ma non con ictus emorragico.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24717367
J Nutr. 2014 Apr 9. [Epub ahead of print]
Sweetened Beverage Consumption Is Associated with Increased Risk of Stroke in Women and Men.
Dopo un’analisi dei dati disponibili sono emersi: 3.510 casi incidenti di ictus, tra cui 2.588 infarti cerebrali, 349 emorragie intracerebrali, 156 emorragie subaracnoidee, e 417 ictus non specificati, nel corso di un follow-up medio di 10.3 anni. Queste evidenze, secondo gli autori, suggeriscono che il consumo di bevande zuccherate era positivamente e significativamente associato con il rischio di ictus totale e infarto cerebrale, ma non con ictus emorragico.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24717367
J Nutr. 2014 Apr 9. [Epub ahead of print]
Sweetened Beverage Consumption Is Associated with Increased Risk of Stroke in Women and Men.
Più diete giovano al diabete di tipo 2
Diverse diete salutari, piuttosto che una sola e specifica, appaiono associate con una riduzione del rischio d’insorgenza del diabete di tipo 2.
In proposito, alcuni ricercatori napoletani hanno condotto una meta-analisi sistematica sui dati forniti dagli studi prospettici e di coorte, per valutare l'associazione tra diete diverse e la prevenzione del diabete di tipo 2. Allo scopo sono stati interrogati alcuni database elettronici (Medline, Scopus, EMBASE, ISI Web of Knowledge) fino ad agosto 2013, in base a criteri predefiniti.
Sono stati così inclusi gli studi di coorte che hanno valutato il ruolo delle diverse diete nella prevenzione del diabete di tipo 2. Si procedeva con la definizione del rischio relativo (RR) di diabete incidente e associato a modelli alimentari salutari. Sono stati identificati un totale di 21.372 casi di diabete incidente, da 18 studi prospettici, comprendenti 20 coorti, in 4 regioni del mondo. La meta-analisi degli effetti casuali su 20 coorti, ha mostrato un’elevata eterogeneità dei dati e un RR non significativo. L’esclusione di due coorti ha prodotto RR identico, con eterogeneità non significativa.
Il rischio di diabete incidente non mutava considerando le diverse zone geografiche (USA, Europa e Asia), la durata del follow-up ( ≤ 10 e > 10 anni ), e il tipo di dieta (mediterranea e DASH). Secondo gli autori, quindi, i dati analizzati hanno dimostrato che non vi è una sola dieta specifica raccomandata per la prevenzione del diabete 2, ma diverse diete salutari sembrano avere una funzione protettiva.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24744219
Endocrine. 2014 Apr 18. [Epub ahead of print]
Which diet for prevention of type 2 diabetes? A meta-analysis of prospective studies.
In proposito, alcuni ricercatori napoletani hanno condotto una meta-analisi sistematica sui dati forniti dagli studi prospettici e di coorte, per valutare l'associazione tra diete diverse e la prevenzione del diabete di tipo 2. Allo scopo sono stati interrogati alcuni database elettronici (Medline, Scopus, EMBASE, ISI Web of Knowledge) fino ad agosto 2013, in base a criteri predefiniti.
Sono stati così inclusi gli studi di coorte che hanno valutato il ruolo delle diverse diete nella prevenzione del diabete di tipo 2. Si procedeva con la definizione del rischio relativo (RR) di diabete incidente e associato a modelli alimentari salutari. Sono stati identificati un totale di 21.372 casi di diabete incidente, da 18 studi prospettici, comprendenti 20 coorti, in 4 regioni del mondo. La meta-analisi degli effetti casuali su 20 coorti, ha mostrato un’elevata eterogeneità dei dati e un RR non significativo. L’esclusione di due coorti ha prodotto RR identico, con eterogeneità non significativa.
Il rischio di diabete incidente non mutava considerando le diverse zone geografiche (USA, Europa e Asia), la durata del follow-up ( ≤ 10 e > 10 anni ), e il tipo di dieta (mediterranea e DASH). Secondo gli autori, quindi, i dati analizzati hanno dimostrato che non vi è una sola dieta specifica raccomandata per la prevenzione del diabete 2, ma diverse diete salutari sembrano avere una funzione protettiva.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24744219
Endocrine. 2014 Apr 18. [Epub ahead of print]
Which diet for prevention of type 2 diabetes? A meta-analysis of prospective studies.
Colazione e glicemia
Saltare la prima colazione significa influenzare negativamente il bilancio energetico quotidiano, e prima ancora, sconvolgere l’omeostasi del glucosio.
Ne sono convinti alcuni ricercatori giapponesi che hanno valutato gli effetti del “salto” della prima colazione sulla variazione diurna del metabolismo energetico e della glicemia. In studi passati si è visto che chi evita la prima colazione di solito compensa la mancata assunzione d’energia caricando di calorie il pranzo e la cena.
Così gli studiosi hanno misurato il bilancio energetico di otto maschi che avevano soggiornato due volte in una camera respiratoria. E si procedeva così alla misura continua della glicemia. Si è così dimostrato, nella sostanza, che saltare la prima colazione non ha influenzato il dispendio energetico nelle 24 ore, l'ossidazione dei grassi e l'effetto termico del cibo, ma ha complessivamente aumentato il valore della glicemia (media delle 24 ore 83 ± 3 vs 89 ± 2 mg / dl).
Tutto questo, secondo gli autori, significa che lo sbilanciamento della glicemia precede quello del bilancio energetico. Una condizione dismetabolica di scompenso che va attentamente valutata e corretta prima possibile, riconfermando con forza il valore aggiunto di una buona prima colazione, magari quella all’italiana: caffelatte, pane e marmellata.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24847666
Obes Res Clin Pract. 2014 May-Jun;8(3):e201-98. doi: 10.1016/j.orcp.2013.01.001.
Effect of breakfast skipping on diurnal variation of energy metabolism and blood glucose.
Ne sono convinti alcuni ricercatori giapponesi che hanno valutato gli effetti del “salto” della prima colazione sulla variazione diurna del metabolismo energetico e della glicemia. In studi passati si è visto che chi evita la prima colazione di solito compensa la mancata assunzione d’energia caricando di calorie il pranzo e la cena.
Così gli studiosi hanno misurato il bilancio energetico di otto maschi che avevano soggiornato due volte in una camera respiratoria. E si procedeva così alla misura continua della glicemia. Si è così dimostrato, nella sostanza, che saltare la prima colazione non ha influenzato il dispendio energetico nelle 24 ore, l'ossidazione dei grassi e l'effetto termico del cibo, ma ha complessivamente aumentato il valore della glicemia (media delle 24 ore 83 ± 3 vs 89 ± 2 mg / dl).
Tutto questo, secondo gli autori, significa che lo sbilanciamento della glicemia precede quello del bilancio energetico. Una condizione dismetabolica di scompenso che va attentamente valutata e corretta prima possibile, riconfermando con forza il valore aggiunto di una buona prima colazione, magari quella all’italiana: caffelatte, pane e marmellata.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24847666
Obes Res Clin Pract. 2014 May-Jun;8(3):e201-98. doi: 10.1016/j.orcp.2013.01.001.
Effect of breakfast skipping on diurnal variation of energy metabolism and blood glucose.
Adolescenti e spuntini
L'associazione tra le abitudini di spuntini e il sovrappeso non è ancora chiara, specie negli adolescenti.
In proposito, un gruppo di ricercatori italiani di Torino, ha studiato le abitudini alimentari di 400 adolescenti scelti a caso; quelli con BMI ≥ 85° percentile sono stati considerati in sovrappeso/obesi. Tutti i partecipanti sono stati classificati per l’apporto calorico da snack (<15%, 15-2%, >20%), la frequenza degli spuntini (1, 2, ≥3), e il tempo di consumo dello snack più calorico (mattina, pomeriggio, sera).
Si è così dapprima evidenziato che solo una minoranza (13/400, 3,3%) non consumava alcun tipo di snack; e 5/13 (38,5%) erano in sovrappeso/obesi. Nella maggioranza degli snacker (387/400), le prevalenze di sovrappeso/obesità sono state rispettivamente 10,4%, 14,4%, 20,5% in quelli che consumavano <15% 15-10% e> 20% del loro apporto energetico quotidiano dagli snack.
Il RR (rischio relativo) sovrappeso/obesità erano rispettivamente 1,35 e 2,32 per il 15-20% e> 20% di calorie / giorno da spuntini. La prevalenza di sovrappeso e obesità era associata a consumi di 2 e ≥ 3 / spuntini al giorno. Infine gli snack più calorici sono stati consumati la mattina e il pomeriggio e il 28,6% degli “snacker” serali (28/387) erano in sovrappeso/obesi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24897170
J Pediatr Gastroenterol Nutr. 2014 Jun 2. [Epub ahead of print]
Impact of Snacking Pattern on Overweight and Obesity Risk in A Cohort of 11-13-y Adolescents.
In proposito, un gruppo di ricercatori italiani di Torino, ha studiato le abitudini alimentari di 400 adolescenti scelti a caso; quelli con BMI ≥ 85° percentile sono stati considerati in sovrappeso/obesi. Tutti i partecipanti sono stati classificati per l’apporto calorico da snack (<15%, 15-2%, >20%), la frequenza degli spuntini (1, 2, ≥3), e il tempo di consumo dello snack più calorico (mattina, pomeriggio, sera).
Si è così dapprima evidenziato che solo una minoranza (13/400, 3,3%) non consumava alcun tipo di snack; e 5/13 (38,5%) erano in sovrappeso/obesi. Nella maggioranza degli snacker (387/400), le prevalenze di sovrappeso/obesità sono state rispettivamente 10,4%, 14,4%, 20,5% in quelli che consumavano <15% 15-10% e> 20% del loro apporto energetico quotidiano dagli snack.
Il RR (rischio relativo) sovrappeso/obesità erano rispettivamente 1,35 e 2,32 per il 15-20% e> 20% di calorie / giorno da spuntini. La prevalenza di sovrappeso e obesità era associata a consumi di 2 e ≥ 3 / spuntini al giorno. Infine gli snack più calorici sono stati consumati la mattina e il pomeriggio e il 28,6% degli “snacker” serali (28/387) erano in sovrappeso/obesi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24897170
J Pediatr Gastroenterol Nutr. 2014 Jun 2. [Epub ahead of print]
Impact of Snacking Pattern on Overweight and Obesity Risk in A Cohort of 11-13-y Adolescents.
Modelli alimentari e contesto socio-economico
In un contesto socio-economico disagiato prevalgono modelli alimentari malsani e aumenta la tendenza all’obesità, specie nei bambini e negli adolescenti.
Questo è quanto, in sostanza, si verifica in Spagna, dove sono stati analizzati i dati forniti da un programma nazionale di sorveglianza della salute (del 2007) su un campione rappresentativo di ragazzi spagnoli (6.143 soggetti 5-15 anni). Si procedeva osservando la prevalenza dell’abitudine di saltare la prima colazione, la prevalenza di un basso consumo di frutta e verdura e la prevalenza dei consumi di fast food, snack e bevande zuccherate.
Parallelamente si osservavano alcuni indicatori dello stato socio-economico: il livello d’istruzione e la classe sociale delle famiglie di appartenenza dei ragazzi. In ogni modello di consumi alimentari le differenze socio-economiche sono state stimate dal rapporto di prevalenza utilizzando lo status socio-economico più elevato come categoria di riferimento. Si è così evidenziato che, durante l'infanzia e l'adolescenza, la grandezza del rapporto di prevalenza mostra un gradiente socio-economico inverso in tutti i consumi di alimenti indicati e i rapporti di prevalenza più bassi e più alti sono stati osservati in soggetti provenienti rispettivamente da famiglie di più alto e più basso status socio-economico.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24656757
Aten Primaria. 2014 Mar 20. pii: S0212-6567(14)00030-4. doi: 10.1016/j.aprim.2013.05.010. [Epub ahead of print]
[Socioeconomic pattern in unhealthy diet in children and adolescents in Spain.]
Questo è quanto, in sostanza, si verifica in Spagna, dove sono stati analizzati i dati forniti da un programma nazionale di sorveglianza della salute (del 2007) su un campione rappresentativo di ragazzi spagnoli (6.143 soggetti 5-15 anni). Si procedeva osservando la prevalenza dell’abitudine di saltare la prima colazione, la prevalenza di un basso consumo di frutta e verdura e la prevalenza dei consumi di fast food, snack e bevande zuccherate.
Parallelamente si osservavano alcuni indicatori dello stato socio-economico: il livello d’istruzione e la classe sociale delle famiglie di appartenenza dei ragazzi. In ogni modello di consumi alimentari le differenze socio-economiche sono state stimate dal rapporto di prevalenza utilizzando lo status socio-economico più elevato come categoria di riferimento. Si è così evidenziato che, durante l'infanzia e l'adolescenza, la grandezza del rapporto di prevalenza mostra un gradiente socio-economico inverso in tutti i consumi di alimenti indicati e i rapporti di prevalenza più bassi e più alti sono stati osservati in soggetti provenienti rispettivamente da famiglie di più alto e più basso status socio-economico.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24656757
Aten Primaria. 2014 Mar 20. pii: S0212-6567(14)00030-4. doi: 10.1016/j.aprim.2013.05.010. [Epub ahead of print]
[Socioeconomic pattern in unhealthy diet in children and adolescents in Spain.]
Bevande gassate e rischio cancro
Le bevande analcoliche e gassate sarebbero parzialmente assolte per quanto riguarda il rischi dell’insorgenza di cancro.
Questo è quanto è stato dimostrato in uno studio, basato su un’analisi multivariata, che ha stimato il rischio per alcuni tipi di cancro a fronte del consumo abituale di bevande zuccherate e gassate. Per l’analisi, erano disponibili oltre 50 stime indipendenti di rischio, 11 per le cole in particolare.
Complessivamente per tutti i siti di cancro, il rischio relativo (SRR), quando tutte le 55 stime indipendenti sono state considerate insieme, era piuttosto scarso (SRR = 1.03). Tuttavia, quando sono stati considerati i siti singoli, non c'era nessun significativo aumento o diminuzione della stima di rischio di cancro al pancreas, alla vescica, ai reni, all’esofago, al colon, al cardias, alla prostata, alla mammella, alla laringe e all’ovaio.
Le analisi dei risultati per tutte le altre forme di cancro erano, però, notevolmente ostacolate dalla scarsa metodologia utilizzata e dall’esiguo numero di studi. Nel complesso, quindi, i risultati sono rassicuranti in termini di associazione tra bevande analcoliche, tra cui cole, e rischio di cancro, anche se la qualità di molti degli studi è molto scarsa e nessuno studio è stato effettuato con l'uso di bevande gassate come ipotesi primaria. Per essere pratici, quindi, è meglio non eccedere mai nei consumi di queste bevande.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24625472
Eur J Cancer Prev. 2014 Mar 12. [Epub ahead of print]
Sweetened carbonated beverage consumption and cancer risk: meta-analysis and review.
Questo è quanto è stato dimostrato in uno studio, basato su un’analisi multivariata, che ha stimato il rischio per alcuni tipi di cancro a fronte del consumo abituale di bevande zuccherate e gassate. Per l’analisi, erano disponibili oltre 50 stime indipendenti di rischio, 11 per le cole in particolare.
Complessivamente per tutti i siti di cancro, il rischio relativo (SRR), quando tutte le 55 stime indipendenti sono state considerate insieme, era piuttosto scarso (SRR = 1.03). Tuttavia, quando sono stati considerati i siti singoli, non c'era nessun significativo aumento o diminuzione della stima di rischio di cancro al pancreas, alla vescica, ai reni, all’esofago, al colon, al cardias, alla prostata, alla mammella, alla laringe e all’ovaio.
Le analisi dei risultati per tutte le altre forme di cancro erano, però, notevolmente ostacolate dalla scarsa metodologia utilizzata e dall’esiguo numero di studi. Nel complesso, quindi, i risultati sono rassicuranti in termini di associazione tra bevande analcoliche, tra cui cole, e rischio di cancro, anche se la qualità di molti degli studi è molto scarsa e nessuno studio è stato effettuato con l'uso di bevande gassate come ipotesi primaria. Per essere pratici, quindi, è meglio non eccedere mai nei consumi di queste bevande.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24625472
Eur J Cancer Prev. 2014 Mar 12. [Epub ahead of print]
Sweetened carbonated beverage consumption and cancer risk: meta-analysis and review.
La durata del sonno e l'accumulo di grasso
Sembra che, negli adulti e nel lungo termine, i cambiamenti spontanei della durata del sonno notturno, possano influenzare la deposizione di grasso addominale.
Un'analisi longitudinale è stato condotta su 293 partecipanti, di età compresa tra 18-65 anni, seguiti per una media di 6,0 ± 0,9 anni. La durata del sonno e la deposizione di grasso viscerale sono state confrontate al momento dell’arruolamento e dopo 6 anni. Si procedeva con un’analisi multivariata aggiustando i dati per i fattori confondenti: età, sesso, cambiamento del BMI, caratteristiche personali, intake energetico, e attività fisica.
Al termine del follow-up si è potuto evidenziare che tutti i partecipanti avevano guadagnato una media di 19,2 ± 37,3 cm2 di grasso viscerale. E in particolare, chi al tempo dell’arruolamento riferiva di dormire per un tempo breve (≤ 6 ore / giorno) o lungo (≥ 9 ore / giorno) aveva guadagnato una quantità significativamente più elevata di grasso addominale, rispetto a chi dormiva 7-8 ore a notte.
Tuttavia, osservando i dati continui, nei 6 anni di follow-up, sui cambiamenti spontanei relativi alla durata del sonno (da durata breve a durata adeguata), si è visto che il cambiamento nella durata del sonno era indipendente e inversamente associato con l’accumulo di grasso viscerale nel lungo termine.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24420871
Obesity (Silver Spring). 2014 Jan 13. doi: 10.1002/oby.20701. [Epub ahead of print]Change in sleep duration and visceral fat accumulation over 6 years in adults.
Un'analisi longitudinale è stato condotta su 293 partecipanti, di età compresa tra 18-65 anni, seguiti per una media di 6,0 ± 0,9 anni. La durata del sonno e la deposizione di grasso viscerale sono state confrontate al momento dell’arruolamento e dopo 6 anni. Si procedeva con un’analisi multivariata aggiustando i dati per i fattori confondenti: età, sesso, cambiamento del BMI, caratteristiche personali, intake energetico, e attività fisica.
Al termine del follow-up si è potuto evidenziare che tutti i partecipanti avevano guadagnato una media di 19,2 ± 37,3 cm2 di grasso viscerale. E in particolare, chi al tempo dell’arruolamento riferiva di dormire per un tempo breve (≤ 6 ore / giorno) o lungo (≥ 9 ore / giorno) aveva guadagnato una quantità significativamente più elevata di grasso addominale, rispetto a chi dormiva 7-8 ore a notte.
Tuttavia, osservando i dati continui, nei 6 anni di follow-up, sui cambiamenti spontanei relativi alla durata del sonno (da durata breve a durata adeguata), si è visto che il cambiamento nella durata del sonno era indipendente e inversamente associato con l’accumulo di grasso viscerale nel lungo termine.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24420871
Obesity (Silver Spring). 2014 Jan 13. doi: 10.1002/oby.20701. [Epub ahead of print]Change in sleep duration and visceral fat accumulation over 6 years in adults.
Chi mangia con la TV, mangia di più !
Guardare la televisione mentre si mangia può influenzare alcuni processi di autocontrollo che si accompagnano all’assunzione del cibo, e così si tende a mangiare di più.
Troppe ore davanti alla TV alimentano la sedentarietà e questo comporta spesso un aumento della tendenza a prendere peso; ma non è tutto! In uno studio osservazionale sono stati confrontati alcuni dei meccanismi che regolano l’assunzione di cibo in due gruppi di donne che mangiavano lo stesso tipo di spuntino con o senza la TV.
In particolare sono stati valutati il senso di pienezza e di fame riportati, l'umore e altre variabili. Sono stati anche, in una seconda fase, incrociati i due gruppi e proposti un singolo alimento come spuntino o quattro tipi di spuntini. Si è così dimostrato, nella sostanza, che tutti e due i gruppi tendevano a mangiare di più, sia con la TV, sia senza.
In particolare si è visto che il gruppo che era invitato a mangiare un solo tipo di spuntino davanti alla TV non manifestava adeguatamente la fame e la sazietà. In ogni caso, indipendentemente dal gruppo di appartenenza, occorreva una maggiore quantità di cibo per modificare la sensazione di sazietà che si otteneva guardando la TV.
Infine, guardare la TV mangiando, sembrava avere un effetto diverso sull’umore e sull’assunzione di cibo se le donne partecipanti erano telespettatrici abituali di un particolare show o se erano frequenti telespettatrici in generale. Ovvero, nel primo caso migliorava l’umore mangiando di più e nel secondo caso gli effetti della TV sull’assunzione di cibo erano meno evidenti.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24462489
Appetite. 2014 Jan 22. pii: S0195-6663(14)00013-0. doi: 10.1016/j.appet.2014.01.005. [Epub ahead of print]
Watching television while eating increases energy intake: Examining the mechanisms in female participants.
Troppe ore davanti alla TV alimentano la sedentarietà e questo comporta spesso un aumento della tendenza a prendere peso; ma non è tutto! In uno studio osservazionale sono stati confrontati alcuni dei meccanismi che regolano l’assunzione di cibo in due gruppi di donne che mangiavano lo stesso tipo di spuntino con o senza la TV.
In particolare sono stati valutati il senso di pienezza e di fame riportati, l'umore e altre variabili. Sono stati anche, in una seconda fase, incrociati i due gruppi e proposti un singolo alimento come spuntino o quattro tipi di spuntini. Si è così dimostrato, nella sostanza, che tutti e due i gruppi tendevano a mangiare di più, sia con la TV, sia senza.
In particolare si è visto che il gruppo che era invitato a mangiare un solo tipo di spuntino davanti alla TV non manifestava adeguatamente la fame e la sazietà. In ogni caso, indipendentemente dal gruppo di appartenenza, occorreva una maggiore quantità di cibo per modificare la sensazione di sazietà che si otteneva guardando la TV.
Infine, guardare la TV mangiando, sembrava avere un effetto diverso sull’umore e sull’assunzione di cibo se le donne partecipanti erano telespettatrici abituali di un particolare show o se erano frequenti telespettatrici in generale. Ovvero, nel primo caso migliorava l’umore mangiando di più e nel secondo caso gli effetti della TV sull’assunzione di cibo erano meno evidenti.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24462489
Appetite. 2014 Jan 22. pii: S0195-6663(14)00013-0. doi: 10.1016/j.appet.2014.01.005. [Epub ahead of print]
Watching television while eating increases energy intake: Examining the mechanisms in female participants.
Si alla dieta vegana, ma non per tutti
Numerose evidenze suggeriscono che alcuni fattori riguardanti la dieta abituale e la qualità dei suoi componenti, possono avere un ruolo centrale nella patogenesi di diverse malattie croniche legate all’invecchiamento.
Secondo una revisione italo-americana, i dati attuali, provenienti da diversi studi su animali, suggeriscono che il grado e il tempo di esordio di una dieta a restrizione calorica (CR), la tempistica dell’assunzione di cibo, così come la composizione della dieta, svolgano un ruolo importante nella promozione della salute e della longevità. E questo è in contrasto con i vecchi presupposti che attribuivano un valore centrale al solo apporto calorico nell’estendere la durata della vita in buona salute.
I dati provenienti da studi sull'uomo indicano che la CR, protratta nel lungo termine, con un adeguato apporto di nutrienti, comporta diversi adattamenti metabolici che riducono il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2, l’ipertensione, le malattie cardiovascolari e il cancro. Inoltre, la CR si oppone alle alterazioni legate all'età: rigidità miocardica, ridotta funzione del sistema autonomo, e ridotta espressione genica nel muscolo scheletrico umano.
Tuttavia, è possibile che alcuni degli effetti benefici sulla salute metabolica non siano del tutto attribuibili alla restrizione calorica, ma a una dieta ipoenergetica a elevata qualità dei contenuti nutrizionali, come suggerito dai dati raccolti in individui che consumano severe diete vegane.
Dunque, secondo gli autori, la qualità della dieta, più che la restrizione calorica, avrebbe un peso determinante sulla salute e sulla longevità. Ma sono necessari ulteriori studi a conferma di questa ipotesi.
Recentemente i media hanno dato grande enfasi alla salubrità dei regimi vegetariani, puntando il dito sui colpevoli di sempre, cioè i grassi saturi soprattutto presenti nelle carni rosse e nei prodotti da queste derivati (salumi, insaccati, strutto, lardo) dei quali sono arcinote le proprietà negative, seppure a volte ingiustamente denigrati.
È ormai accertato, dai risultati di differenti studi, come la dieta vegetariana rappresenti un regime alimentare salutare, grazie al contenuto in fibre (funzioni intestinali) e altri fitoderivati (derivati vegetali). Queste componenti sono certo importanti per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. E le persone che né consumano in buone quantità, di fatto, appaiono meno esposte al rischio d’ipertensione, ictus, infarto e di alcuni tipi di tumori e anche al sovrappeso.
Un altro pregio importante delle diete vegetariane è il contenuto in minerali (legumi) e vitamine con alto potenziale antiossidante (la C, la A e la E). Tuttavia, abbandonare del tutto gli alimenti di provenienza animale, significa rinunciare a ferro, zinco, acidi grassi omega-3 (pesci) e alla vitamina B12 (carni). E queste rinunce si ripercuotono soprattutto sulla struttura e le funzioni del tessuto nervoso.
Anche la vitamina D e il calcio sono alquanto carenti, specie nelle diete dei vegani, così tanto da intaccare la densità minerale ossea delle persone che vivono in comunità che hanno scelto il vegetarianesimo come religione e filosofia di vita. E questo, come è stato dimostrato, comporterebbe i danni più gravi nei bambini e negli adolescenti in cui l’accrescimento osseo e in piena attività, per non parlare delle giovani donne in gravidanza.
In altri termini, esistono ottimi presupposti perché un adulto possa scegliere un regime vegetariano e, d’altro canto, il vegetarianesimo inteso in senso stretto (vegan) è sconsigliato a determinate categorie di persone.
Dal punto di vista del nutrizionista, dunque, la promozione di una dieta latto-ovo-vegetariana ben bilanciata e personalizzata magari con un’aggiunta di carni di pesce (in pratica una dieta mediterranea), potrebbe essere la soluzione vincente, specie per un paziente obeso che, di solito, oppone una forte resistenza ai cambiamenti restrittivi troppo drastici.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24291541
Ageing Res Rev. 2014 Jan;13:38-45. doi: 10.1016/j.arr.2013.11.002. Epub 2013 Nov 27.
What are the roles of calorie restriction and diet quality in promoting healthy longevity?
Secondo una revisione italo-americana, i dati attuali, provenienti da diversi studi su animali, suggeriscono che il grado e il tempo di esordio di una dieta a restrizione calorica (CR), la tempistica dell’assunzione di cibo, così come la composizione della dieta, svolgano un ruolo importante nella promozione della salute e della longevità. E questo è in contrasto con i vecchi presupposti che attribuivano un valore centrale al solo apporto calorico nell’estendere la durata della vita in buona salute.
I dati provenienti da studi sull'uomo indicano che la CR, protratta nel lungo termine, con un adeguato apporto di nutrienti, comporta diversi adattamenti metabolici che riducono il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2, l’ipertensione, le malattie cardiovascolari e il cancro. Inoltre, la CR si oppone alle alterazioni legate all'età: rigidità miocardica, ridotta funzione del sistema autonomo, e ridotta espressione genica nel muscolo scheletrico umano.
Tuttavia, è possibile che alcuni degli effetti benefici sulla salute metabolica non siano del tutto attribuibili alla restrizione calorica, ma a una dieta ipoenergetica a elevata qualità dei contenuti nutrizionali, come suggerito dai dati raccolti in individui che consumano severe diete vegane.
Dunque, secondo gli autori, la qualità della dieta, più che la restrizione calorica, avrebbe un peso determinante sulla salute e sulla longevità. Ma sono necessari ulteriori studi a conferma di questa ipotesi.
Recentemente i media hanno dato grande enfasi alla salubrità dei regimi vegetariani, puntando il dito sui colpevoli di sempre, cioè i grassi saturi soprattutto presenti nelle carni rosse e nei prodotti da queste derivati (salumi, insaccati, strutto, lardo) dei quali sono arcinote le proprietà negative, seppure a volte ingiustamente denigrati.
È ormai accertato, dai risultati di differenti studi, come la dieta vegetariana rappresenti un regime alimentare salutare, grazie al contenuto in fibre (funzioni intestinali) e altri fitoderivati (derivati vegetali). Queste componenti sono certo importanti per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. E le persone che né consumano in buone quantità, di fatto, appaiono meno esposte al rischio d’ipertensione, ictus, infarto e di alcuni tipi di tumori e anche al sovrappeso.
Un altro pregio importante delle diete vegetariane è il contenuto in minerali (legumi) e vitamine con alto potenziale antiossidante (la C, la A e la E). Tuttavia, abbandonare del tutto gli alimenti di provenienza animale, significa rinunciare a ferro, zinco, acidi grassi omega-3 (pesci) e alla vitamina B12 (carni). E queste rinunce si ripercuotono soprattutto sulla struttura e le funzioni del tessuto nervoso.
Anche la vitamina D e il calcio sono alquanto carenti, specie nelle diete dei vegani, così tanto da intaccare la densità minerale ossea delle persone che vivono in comunità che hanno scelto il vegetarianesimo come religione e filosofia di vita. E questo, come è stato dimostrato, comporterebbe i danni più gravi nei bambini e negli adolescenti in cui l’accrescimento osseo e in piena attività, per non parlare delle giovani donne in gravidanza.
In altri termini, esistono ottimi presupposti perché un adulto possa scegliere un regime vegetariano e, d’altro canto, il vegetarianesimo inteso in senso stretto (vegan) è sconsigliato a determinate categorie di persone.
Dal punto di vista del nutrizionista, dunque, la promozione di una dieta latto-ovo-vegetariana ben bilanciata e personalizzata magari con un’aggiunta di carni di pesce (in pratica una dieta mediterranea), potrebbe essere la soluzione vincente, specie per un paziente obeso che, di solito, oppone una forte resistenza ai cambiamenti restrittivi troppo drastici.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24291541
Ageing Res Rev. 2014 Jan;13:38-45. doi: 10.1016/j.arr.2013.11.002. Epub 2013 Nov 27.
What are the roles of calorie restriction and diet quality in promoting healthy longevity?
Menopausa da ritardare
Alcuni fattori dietetici e socio-ambientali, che intervengono nello stile di vita, potrebbero essere corretti per ritardare l’inizio della menopausa fisiologica (naturale) e le sue deleterie conseguenze.
Nei Paesi in via di sviluppo, si verifica un inizio precoce della menopausa naturale (fisiologica). Poiché l'età alla menopausa naturale (ANM) dipende da vari fattori genetici, ambientali, socio-economici, riproduttivi, dalla dieta e dallo stile di vita, alcuni ricercatori indiani hanno approfondito la questione revisionando la letteratura disponibile.
Prima di tutto si è evidenziato che vi sono fattori che accelerano la comparsa della menopausa come per esempio la nulliparità (nelle donne giapponesi), la dieta vegetariana, il fumo, l'assunzione di grassi, di colesterolo e di caffeina. Mentre altri fattori come la parità, il precedente uso di contraccettivi orali e l’etnia, ritardano l’ANM.
Come è noto, l’ANM è un importante fattore di rischio per morbilità e mortalità nel lungo termine e, di conseguenza, la necessità di identificare i fattori di rischio modificabili come la dieta e stile di vita cambia è prioritaria, specie nei Paesi in via di sviluppo. Va anche ricordato che la menopausa ritardata è associata a un aumentato rischio del cancro al seno e all’endometrio, mentre la menopausa precoce aumenta il rischio di malattie cardiovascolari e osteoporosi.
La correlazione tra dieta e ANM non è ancora stata ampiamente studiata. Tuttavia, qualunque siano le conclusioni, gli studi condotti fino ad ora tendono a coinvolgere l’elevato apporto di calorie totali, di frutta e proteine nel ritardare l'ANM, mentre una maggiore assunzione di grassi polinsaturi sembra accelerare la menopausa.
Il ruolo della soia nella dieta, dei grassi totali, dei grassi saturi, del consumo di carne rossa, e di fibra alimentare, nel determinare l'ANM, è comunque controverso e necessita di ulteriori studi. I fattori dello stile di vita come il fumo e l'esercizio fisico intenso, sono stati significativamente associati con la menopausa precoce, mentre il consumo moderato di alcol sembra avere una funzione ritardante.
Gli autori concludono indicando che per studiare l'associazione di ANM con altri fattori modificabili, come il fumo passivo, il consumo di pesce, soia, e vari tipi di tè, sono necessari ampi e ulteriori studi prospettici. Anche se questa revisione riguarda soprattutto le etnie orientali e i Paesi in via di sviluppo, è ovvio che la possibilità di ritardare la menopausa e le sue conseguenze è interessante per tutti. Più che altro è importante osservare come i fattori dietetici modificabili abbiano un ruolo controverso.
Da quanto riportato dagli autori, si direbbe che un maggior apporto energetico, di frutta e di proteine, possano giocare a favore del ritardo della comparsa della menopausa, mentre un maggior apporto di acidi grassi polinsaturi sembra accelerarla. Dunque, in donne fortemente esposte al rischio di menopausa precoce, i fattori modificabili nella dieta, con fine preventivo, vanno attentamente valutati, e non solo nei Paesi in via di sviluppo.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24672198
J Midlife Health. 2014 Jan;5(1):3-5.
Lifestyle and dietary factors determine age at natural menopause.
Nei Paesi in via di sviluppo, si verifica un inizio precoce della menopausa naturale (fisiologica). Poiché l'età alla menopausa naturale (ANM) dipende da vari fattori genetici, ambientali, socio-economici, riproduttivi, dalla dieta e dallo stile di vita, alcuni ricercatori indiani hanno approfondito la questione revisionando la letteratura disponibile.
Prima di tutto si è evidenziato che vi sono fattori che accelerano la comparsa della menopausa come per esempio la nulliparità (nelle donne giapponesi), la dieta vegetariana, il fumo, l'assunzione di grassi, di colesterolo e di caffeina. Mentre altri fattori come la parità, il precedente uso di contraccettivi orali e l’etnia, ritardano l’ANM.
Come è noto, l’ANM è un importante fattore di rischio per morbilità e mortalità nel lungo termine e, di conseguenza, la necessità di identificare i fattori di rischio modificabili come la dieta e stile di vita cambia è prioritaria, specie nei Paesi in via di sviluppo. Va anche ricordato che la menopausa ritardata è associata a un aumentato rischio del cancro al seno e all’endometrio, mentre la menopausa precoce aumenta il rischio di malattie cardiovascolari e osteoporosi.
La correlazione tra dieta e ANM non è ancora stata ampiamente studiata. Tuttavia, qualunque siano le conclusioni, gli studi condotti fino ad ora tendono a coinvolgere l’elevato apporto di calorie totali, di frutta e proteine nel ritardare l'ANM, mentre una maggiore assunzione di grassi polinsaturi sembra accelerare la menopausa.
Il ruolo della soia nella dieta, dei grassi totali, dei grassi saturi, del consumo di carne rossa, e di fibra alimentare, nel determinare l'ANM, è comunque controverso e necessita di ulteriori studi. I fattori dello stile di vita come il fumo e l'esercizio fisico intenso, sono stati significativamente associati con la menopausa precoce, mentre il consumo moderato di alcol sembra avere una funzione ritardante.
Gli autori concludono indicando che per studiare l'associazione di ANM con altri fattori modificabili, come il fumo passivo, il consumo di pesce, soia, e vari tipi di tè, sono necessari ampi e ulteriori studi prospettici. Anche se questa revisione riguarda soprattutto le etnie orientali e i Paesi in via di sviluppo, è ovvio che la possibilità di ritardare la menopausa e le sue conseguenze è interessante per tutti. Più che altro è importante osservare come i fattori dietetici modificabili abbiano un ruolo controverso.
Da quanto riportato dagli autori, si direbbe che un maggior apporto energetico, di frutta e di proteine, possano giocare a favore del ritardo della comparsa della menopausa, mentre un maggior apporto di acidi grassi polinsaturi sembra accelerarla. Dunque, in donne fortemente esposte al rischio di menopausa precoce, i fattori modificabili nella dieta, con fine preventivo, vanno attentamente valutati, e non solo nei Paesi in via di sviluppo.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24672198
J Midlife Health. 2014 Jan;5(1):3-5.
Lifestyle and dietary factors determine age at natural menopause.
Dieta vegana e salute del cuore
Adottare una dieta vegana potrebbe essere molto utile per la perdita di peso e per il miglioramento del quadro lipidico.
Uno studio in parallelo è stato condotto in un ospedale canadese dall’aprile 2005 a novembre 2006 coinvolgendo 39 uomini iperlipidemici in sovrappeso e donne in postmenopausa.
I partecipanti sono stati invitati a consumare o una dieta vegana a basso contenuto di carboidrati o una dieta latto-ovo-vegetariana, ricca di carboidrati per 6 mesi. Le assunzioni di macronutrienti prescritti erano rispettivamente: il 26% e il 58% di energia da carboidrati, il 31% e il 16% dalle proteine e il 43% e il 25% da grassi.
Si è, così, dapprima evidenziato che la perdita di peso andava da -6,9 kg per la dieta scarsa in carboidrati a -5,8 kg per la dieta ad alto contenuto di carboidrati dopo 6 mesi di trattamento ad libitum. E anche le riduzioni relative al colesterolo LDL e ai trigliceridi plasmatici, erano più evidenti nella dieta a basso contenuto di carboidrati, migliorando così i fattori di rischio cardiovascolare.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24500611
BMJ Open. 2014 Feb 5;4(2):e003505. doi: 10.1136/bmjopen-2013-003505.
Effect of a 6-month vegan low-carbohydrate ('Eco-Atkins') diet on cardiovascular risk factors and body weight in hyperlipidaemic adults: a randomised controlled trial.
Uno studio in parallelo è stato condotto in un ospedale canadese dall’aprile 2005 a novembre 2006 coinvolgendo 39 uomini iperlipidemici in sovrappeso e donne in postmenopausa.
I partecipanti sono stati invitati a consumare o una dieta vegana a basso contenuto di carboidrati o una dieta latto-ovo-vegetariana, ricca di carboidrati per 6 mesi. Le assunzioni di macronutrienti prescritti erano rispettivamente: il 26% e il 58% di energia da carboidrati, il 31% e il 16% dalle proteine e il 43% e il 25% da grassi.
Si è, così, dapprima evidenziato che la perdita di peso andava da -6,9 kg per la dieta scarsa in carboidrati a -5,8 kg per la dieta ad alto contenuto di carboidrati dopo 6 mesi di trattamento ad libitum. E anche le riduzioni relative al colesterolo LDL e ai trigliceridi plasmatici, erano più evidenti nella dieta a basso contenuto di carboidrati, migliorando così i fattori di rischio cardiovascolare.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24500611
BMJ Open. 2014 Feb 5;4(2):e003505. doi: 10.1136/bmjopen-2013-003505.
Effect of a 6-month vegan low-carbohydrate ('Eco-Atkins') diet on cardiovascular risk factors and body weight in hyperlipidaemic adults: a randomised controlled trial.
Latto-ovo-vegetariani da supplementare
Nei regimi latto-ovo-vegetariani alcune supplementazioni sono necessarie per migliorare il profilo dei marcatori di rischio cardiovascolare.
Questo è, nella sostanza, il risultato, di uno studio condotto su 20 soggetti sani LOV (latto-ovo-vegetariani) che sono stati assegnati, in modo casuale in un disegno crossover, a ricevere uno dei seguenti 3 integratori: uovo arricchito n-3 FA (6/alla settimana), noci (28.4 g, 6/porzioni alla settimana ) o un uovo standard per 6 volte la settimana (gruppo di controllo), per 8 settimane ciascuno con 4 settimane di washout tra i trattamenti.
Al termine di ogni trattamento venivano misurati gli acidi grassi di membrana eritrocitaria, i lipidi sierici e alcuni indicatori infiammatori. Si è così, in sintesi, dimostrato che, l’uovo arricchito con n-3 FA era maggiormente utile per fluidificare le membrane dei globuli rossi e il trattamento con aggiunta di noci aveva ridotto significativamente il rapporto colesterolo totale/colesterolo HDL. Non sono emerse, invece, differenze tra i trattamenti per i marcatori infiammatori.
Dunque, gli autori ritengono che per i LOV, una fonte diretta di DHA come n-3 FA delle uova arricchite sia utile per aumentare i livelli di membrana di DHA. Tuttavia, per produrre un profilo globale favorevole dei lipidi nel sangue, il consumo quotidiano di una manciata di noci ricche di ALA può essere molto utile.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24673793
Nutr J. 2014 Mar 27;13(1):29. [Epub ahead of print]
Effects of supplementing n-3 fatty acid enriched eggs and walnuts on cardiovascular disease risk markers in healthy free-living lacto-ovo-vegetarians: a randomized, crossover, free-living intervention study.
Questo è, nella sostanza, il risultato, di uno studio condotto su 20 soggetti sani LOV (latto-ovo-vegetariani) che sono stati assegnati, in modo casuale in un disegno crossover, a ricevere uno dei seguenti 3 integratori: uovo arricchito n-3 FA (6/alla settimana), noci (28.4 g, 6/porzioni alla settimana ) o un uovo standard per 6 volte la settimana (gruppo di controllo), per 8 settimane ciascuno con 4 settimane di washout tra i trattamenti.
Al termine di ogni trattamento venivano misurati gli acidi grassi di membrana eritrocitaria, i lipidi sierici e alcuni indicatori infiammatori. Si è così, in sintesi, dimostrato che, l’uovo arricchito con n-3 FA era maggiormente utile per fluidificare le membrane dei globuli rossi e il trattamento con aggiunta di noci aveva ridotto significativamente il rapporto colesterolo totale/colesterolo HDL. Non sono emerse, invece, differenze tra i trattamenti per i marcatori infiammatori.
Dunque, gli autori ritengono che per i LOV, una fonte diretta di DHA come n-3 FA delle uova arricchite sia utile per aumentare i livelli di membrana di DHA. Tuttavia, per produrre un profilo globale favorevole dei lipidi nel sangue, il consumo quotidiano di una manciata di noci ricche di ALA può essere molto utile.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24673793
Nutr J. 2014 Mar 27;13(1):29. [Epub ahead of print]
Effects of supplementing n-3 fatty acid enriched eggs and walnuts on cardiovascular disease risk markers in healthy free-living lacto-ovo-vegetarians: a randomized, crossover, free-living intervention study.
Giovani donne angosciate dal diabete
La forte preoccupazione per il diabete e la paura dell’ipoglicemia possono condizionare le abitudini alimentari delle donne con diabete di tipo 1 (DM1).
Ne sono convinti alcuni ricercatori dell’University of Illinois (Chicago) che hanno indagato i comportamenti alimentari di 15 donne (età media 37 ± 13,5 anni) con diabete tipo 1. Tutte le donne hanno completato questionari volti a determinare lo stato di angoscia per il diabete, la paura dell’ipoglicemia (FOH), e le abitudini alimentari.
Delle stesse donne erano disponibili anche i dati relativi al peso, all’altezza, ai livelli plasmatici di HbA1c e i commenti riguardanti le preoccupazioni per le esperienze di ipoglicemia. Si è così evidenziato che la forte preoccupazione per il diabete era positivamente associata con i livelli plasmatici di HbA1c.
Inoltre, lo stile alimentare delle donne appariva fortemente condizionato dallo stato emotivo (47 %) dalle restrizioni (53%), e da fattori esterni ambientali (73%). In sostanza, lo stile alimentare era fortemente legato alla preoccupazione complessiva per la malattia.
Tra l’altro, le donne con scarso controllo glicemico (HbA1c > 7%, 53 mmol/ mol) avevano un comportamento alimentare molto contenuto e mostravano un forte disagio nelle relazioni interpersonali, rispetto alle donne con migliore controllo glicemico (HbA1c <7 %, 53 mmol/mol). Per quanto riguarda l’esperienza dell’ipoglicemia, si è evidenziata una debole relazione lineare con i comportamenti di primo soccorso.
Gli autori ritengono che, alla luce di questi dati, si possa affermare che le donne con diabete di tipo 1, in questo campione, erano angosciate dalla loro malattia, subendo un forte disagio che si ripercuoteva sui rapporti interpersonali, sullo stato emotivo e sullo stile alimentare.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24615054
Acta Diabetol. 2014 Mar 11. [Epub ahead of print]
Diabetes distress may adversely affect the eating styles of women with type 1 diabetes.
Ne sono convinti alcuni ricercatori dell’University of Illinois (Chicago) che hanno indagato i comportamenti alimentari di 15 donne (età media 37 ± 13,5 anni) con diabete tipo 1. Tutte le donne hanno completato questionari volti a determinare lo stato di angoscia per il diabete, la paura dell’ipoglicemia (FOH), e le abitudini alimentari.
Delle stesse donne erano disponibili anche i dati relativi al peso, all’altezza, ai livelli plasmatici di HbA1c e i commenti riguardanti le preoccupazioni per le esperienze di ipoglicemia. Si è così evidenziato che la forte preoccupazione per il diabete era positivamente associata con i livelli plasmatici di HbA1c.
Inoltre, lo stile alimentare delle donne appariva fortemente condizionato dallo stato emotivo (47 %) dalle restrizioni (53%), e da fattori esterni ambientali (73%). In sostanza, lo stile alimentare era fortemente legato alla preoccupazione complessiva per la malattia.
Tra l’altro, le donne con scarso controllo glicemico (HbA1c > 7%, 53 mmol/ mol) avevano un comportamento alimentare molto contenuto e mostravano un forte disagio nelle relazioni interpersonali, rispetto alle donne con migliore controllo glicemico (HbA1c <7 %, 53 mmol/mol). Per quanto riguarda l’esperienza dell’ipoglicemia, si è evidenziata una debole relazione lineare con i comportamenti di primo soccorso.
Gli autori ritengono che, alla luce di questi dati, si possa affermare che le donne con diabete di tipo 1, in questo campione, erano angosciate dalla loro malattia, subendo un forte disagio che si ripercuoteva sui rapporti interpersonali, sullo stato emotivo e sullo stile alimentare.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24615054
Acta Diabetol. 2014 Mar 11. [Epub ahead of print]
Diabetes distress may adversely affect the eating styles of women with type 1 diabetes.
I probiotici giovano al fegato
L’assunzione di probiotici potrebbe essere utile e protettiva nella steatosi epatica non alcolica (NAFLD).
Lo conferma una ricerca condotta su animali di laboratorio (topi) che propone l’utilizzo dei probiotici in quanto possono contenere antigeni batterici che modulano direttamente le funzioni effettrici delle cellule NKT (linfociti T Natural Killer).
Questi linfociti sono coinvolti nella patogenesi della NAFLD, secondo studi precedenti degli stessi autori, e quindi l’effetto benefico della somministrazione di probiotici potrebbe essere altrettanto importante per i pazienti in sovrappeso o obesi con NAFLD. In particolare, i topi ricevevano una dieta ricca di grassi per indurre la steatosi e alcuni di questi animali hanno anche ricevuto diverse dosi di probiotici di una formula mixed; o un singolo ceppo probiotico (Bifidobacterium infantis) o antibiotici.
Gli autori concludono ritenendo che i probiotici utilizzati possano avere un effetto positivo sulla microflora intestinale che risulta alterata nei soggetti con steatosi epatica non alcolica.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24400795
Immunology. 2014 Feb;141(2):203-10. doi: 10.1111/imm.12180.
Probiotic antigens stimulate hepatic natural killer T cells.
Lo conferma una ricerca condotta su animali di laboratorio (topi) che propone l’utilizzo dei probiotici in quanto possono contenere antigeni batterici che modulano direttamente le funzioni effettrici delle cellule NKT (linfociti T Natural Killer).
Questi linfociti sono coinvolti nella patogenesi della NAFLD, secondo studi precedenti degli stessi autori, e quindi l’effetto benefico della somministrazione di probiotici potrebbe essere altrettanto importante per i pazienti in sovrappeso o obesi con NAFLD. In particolare, i topi ricevevano una dieta ricca di grassi per indurre la steatosi e alcuni di questi animali hanno anche ricevuto diverse dosi di probiotici di una formula mixed; o un singolo ceppo probiotico (Bifidobacterium infantis) o antibiotici.
Gli autori concludono ritenendo che i probiotici utilizzati possano avere un effetto positivo sulla microflora intestinale che risulta alterata nei soggetti con steatosi epatica non alcolica.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24400795
Immunology. 2014 Feb;141(2):203-10. doi: 10.1111/imm.12180.
Probiotic antigens stimulate hepatic natural killer T cells.
Obesità e nutrigenomica: il ruolo del calcio
Sembra probabile che la predisposizione genetica all’obesità, sia da mettere in relazione non solo con i valori più elevati di BMI, WC (circonferenza vita) o di WHR (rapporto vita-fianchi), ma anche con il calcio nella dieta.
Nell’ambito di differenti studi sulla popolazione danese è stata esaminata l’eventuale associazione, ipotizzata in altri studi, tra il Calcio contenuto nella dieta e la tendenza all’obesità, sia in base alla predisposizione genetica, sia in base alle variazioni annuali del peso corporeo BW (ΔBW) e della misura della circonferenza vita WC (ΔWC).
Lo studio riguardava 7.569 individui e le loro tendenze genomiche, i determinanti di malattie cardiovascolari e le informazioni sulla dieta danese. In particolare sono state analizzate le analogie tra 54 polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) con BMI, WC, o WHR aggiustando i dati per il BMI e gli altri potenziali fattori confondenti.
Si è così nelle sostanza dimostrato un ΔBW significativo di -0,076 kg se il Ca della dieta era pari a 1000 mg. Nessuna associazione significativa è stata, invece, osservata tra il calcio nella dieta e ΔWC. Tuttavia, è stata trovata una significativa interazione tra un punteggio di 6 SNPs WC- associati e il calcio in relazione al ΔWC.
Gli autori, dunque, ritengono che tali risultati possano indicare che il calcio nella dieta abbia una debole correlazione con il BW. E sebbene non sia stata dimostrata alcuna associazione generale tra calcio e ΔWC, è possibile che il calcio possa in qualche maniera influire sulla riduzione di WC nelle persone geneticamente predisposte a un elevato WC.
Il ruolo del calcio della dieta, a proposito della nutrigenomica dell’obesità resta, dunque, ancora da approfondire, prima di tutto con un ampliamento dei campioni di popolazione. Nel frattempo, si può cominciare a tenere il calcio sotto controllo quando si pianifica una dietoterapia restrittiva.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24500147
Am J Clin Nutr. 2014 Feb 5. [Epub ahead of print]
Interaction between genetic predisposition to obesity and dietary calcium in relation to subsequent change in body weight and waist circumference
Nell’ambito di differenti studi sulla popolazione danese è stata esaminata l’eventuale associazione, ipotizzata in altri studi, tra il Calcio contenuto nella dieta e la tendenza all’obesità, sia in base alla predisposizione genetica, sia in base alle variazioni annuali del peso corporeo BW (ΔBW) e della misura della circonferenza vita WC (ΔWC).
Lo studio riguardava 7.569 individui e le loro tendenze genomiche, i determinanti di malattie cardiovascolari e le informazioni sulla dieta danese. In particolare sono state analizzate le analogie tra 54 polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) con BMI, WC, o WHR aggiustando i dati per il BMI e gli altri potenziali fattori confondenti.
Si è così nelle sostanza dimostrato un ΔBW significativo di -0,076 kg se il Ca della dieta era pari a 1000 mg. Nessuna associazione significativa è stata, invece, osservata tra il calcio nella dieta e ΔWC. Tuttavia, è stata trovata una significativa interazione tra un punteggio di 6 SNPs WC- associati e il calcio in relazione al ΔWC.
Gli autori, dunque, ritengono che tali risultati possano indicare che il calcio nella dieta abbia una debole correlazione con il BW. E sebbene non sia stata dimostrata alcuna associazione generale tra calcio e ΔWC, è possibile che il calcio possa in qualche maniera influire sulla riduzione di WC nelle persone geneticamente predisposte a un elevato WC.
Il ruolo del calcio della dieta, a proposito della nutrigenomica dell’obesità resta, dunque, ancora da approfondire, prima di tutto con un ampliamento dei campioni di popolazione. Nel frattempo, si può cominciare a tenere il calcio sotto controllo quando si pianifica una dietoterapia restrittiva.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24500147
Am J Clin Nutr. 2014 Feb 5. [Epub ahead of print]
Interaction between genetic predisposition to obesity and dietary calcium in relation to subsequent change in body weight and waist circumference
Neuroendocrinologia intestinale e obesità
Recenti progressi nella comprensione fisiologica dei processi biochimico-metabolici intestinali, alla base dell’obesità, hanno fornito nuove prospettive sulle sue origini e sui potenziali trattamenti.
In una revisione inglese, basata sulla letteratura pubblicata nel campo della fisiologia dell'intestino e sulla neuroendocrinologia dell’obesità, si discutono alcuni temi di ricerca scientifica attuali e interessanti che ancora costituiscono aree inesplorate.
Vi è un accordo sostanziale, ma relativo, sul concetto che l’intestino sia in grado di rilasciare ormoni diversi in risposta ai cambiamenti dello stato nutrizionale. Le variazioni delle concentrazioni plasmatiche di questi ormoni rappresentano la risposta dei circuiti neuro-ormonali partenti dal sistema nervoso centrale che controllano l'appetito e il dispendio energetico.
Alcuni studi hanno dimostrato che la secrezione intestinale degli ormoni è responsabile, almeno in parte, della perdita di peso dopo alcuni particolari interventi di chirurgia bariatrica. Tuttavia, è controversa la questione che riguarda in che misura si modifica la secrezione ormonale intestinale dopo la chirurgia bariatrica e se potrebbe essere anche responsabile della remissione del diabete. In proposito, è ancora motivo di discussioni, la comprensione di come una severa restrizione calorica possa essere, da sola, in grado di ripristinare la secrezione d’insulina, sempre dopo l’intervento.
Alla luce di queste acquisizioni, sono stati sviluppati farmaci che agiscono a livello intestinale a base di ormoni che potrebbero essere utilizzati per il trattamento dell’obesità. E, secondo l’autore della revisione, sarà importante scoprire se il loro impiego combinato, imitando il milieu ormonale che si riscontra nel post-intervento, potrà, in sicurezza, causare perdita di peso e benefici metabolici di grandezza simile a quelle risultanti dalla chirurgia bariatrica.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24501226
Br Med Bull. 2014 Feb 5. [Epub ahead of print]
Neuroendocrinology of obesity.
In una revisione inglese, basata sulla letteratura pubblicata nel campo della fisiologia dell'intestino e sulla neuroendocrinologia dell’obesità, si discutono alcuni temi di ricerca scientifica attuali e interessanti che ancora costituiscono aree inesplorate.
Vi è un accordo sostanziale, ma relativo, sul concetto che l’intestino sia in grado di rilasciare ormoni diversi in risposta ai cambiamenti dello stato nutrizionale. Le variazioni delle concentrazioni plasmatiche di questi ormoni rappresentano la risposta dei circuiti neuro-ormonali partenti dal sistema nervoso centrale che controllano l'appetito e il dispendio energetico.
Alcuni studi hanno dimostrato che la secrezione intestinale degli ormoni è responsabile, almeno in parte, della perdita di peso dopo alcuni particolari interventi di chirurgia bariatrica. Tuttavia, è controversa la questione che riguarda in che misura si modifica la secrezione ormonale intestinale dopo la chirurgia bariatrica e se potrebbe essere anche responsabile della remissione del diabete. In proposito, è ancora motivo di discussioni, la comprensione di come una severa restrizione calorica possa essere, da sola, in grado di ripristinare la secrezione d’insulina, sempre dopo l’intervento.
Alla luce di queste acquisizioni, sono stati sviluppati farmaci che agiscono a livello intestinale a base di ormoni che potrebbero essere utilizzati per il trattamento dell’obesità. E, secondo l’autore della revisione, sarà importante scoprire se il loro impiego combinato, imitando il milieu ormonale che si riscontra nel post-intervento, potrà, in sicurezza, causare perdita di peso e benefici metabolici di grandezza simile a quelle risultanti dalla chirurgia bariatrica.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24501226
Br Med Bull. 2014 Feb 5. [Epub ahead of print]
Neuroendocrinology of obesity.
Obesità e dieta chetogenica
L'obesità sta raggiungendo proporzioni epidemiche in molti Paesi, e lo stesso vale per le sue complicanze cardiovascolari e metaboliche.
Nonostante le continue raccomandazioni delle organizzazioni sanitarie, per quanto riguarda l'importanza del controllo del peso, questo obiettivo appare irraggiungibile. La predisposizione genetica in combinazione con lo stile di vita sedentario e l’eccessivo apporto calorico, sono i fattori concausali.
Anche se ci può essere un accordo sul concetto che i cambiamenti dello stile di vita che influenzano le abitudini alimentari e l'attività fisica sono fondamentali per promuovere la perdita di peso e per il controllo del peso; la quantità ideale e il tipo di esercizio fisico e anche la dieta ideale sono ancora in discussione. Per molti anni, gli studi che riguardano le modificazioni della dieta, soprattutto centrati sulla riduzione dei cibi grassi, hanno evidenziato scarsi risultati, specie nel lungo termine.
È per questo che si sono fatte strada altre strategie dietetiche per la perdita e il controllo del peso; tra queste vi è la dieta chetogenica. Molti studi hanno dimostrato che questo tipo di approccio nutrizionale ha una base fisiologica e biochimica solida ed è in grado di indurre efficace perdita di peso con miglioramento dei parametri di rischio cardiovascolare.
Tutto ciò si discute in una revisione centrata sulle basi fisiologiche della dieta chetogenica e sulle opportunità di utilizzarla nei pazienti obesi, anche se vi sono pro e contro e molte precauzioni da osservare, per prima la prescrizione obbligatoria da parte di un dietologo.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24557522
Int J Environ Res Public Health. 2014 Feb 19;11(2):2092-107. doi: 10.3390/ijerph110202092.
Ketogenic diet for obesity: friend or foe?
Nonostante le continue raccomandazioni delle organizzazioni sanitarie, per quanto riguarda l'importanza del controllo del peso, questo obiettivo appare irraggiungibile. La predisposizione genetica in combinazione con lo stile di vita sedentario e l’eccessivo apporto calorico, sono i fattori concausali.
Anche se ci può essere un accordo sul concetto che i cambiamenti dello stile di vita che influenzano le abitudini alimentari e l'attività fisica sono fondamentali per promuovere la perdita di peso e per il controllo del peso; la quantità ideale e il tipo di esercizio fisico e anche la dieta ideale sono ancora in discussione. Per molti anni, gli studi che riguardano le modificazioni della dieta, soprattutto centrati sulla riduzione dei cibi grassi, hanno evidenziato scarsi risultati, specie nel lungo termine.
È per questo che si sono fatte strada altre strategie dietetiche per la perdita e il controllo del peso; tra queste vi è la dieta chetogenica. Molti studi hanno dimostrato che questo tipo di approccio nutrizionale ha una base fisiologica e biochimica solida ed è in grado di indurre efficace perdita di peso con miglioramento dei parametri di rischio cardiovascolare.
Tutto ciò si discute in una revisione centrata sulle basi fisiologiche della dieta chetogenica e sulle opportunità di utilizzarla nei pazienti obesi, anche se vi sono pro e contro e molte precauzioni da osservare, per prima la prescrizione obbligatoria da parte di un dietologo.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24557522
Int J Environ Res Public Health. 2014 Feb 19;11(2):2092-107. doi: 10.3390/ijerph110202092.
Ketogenic diet for obesity: friend or foe?
Il sovrappeso aumenta con l'età
La tendenza all’aumento dell’obesità nella media età è stata associata a un’alterata attività delle reti dei segnali che arrivano al cervello in risposta a stimoli legati agli alimenti e anche a quelli che derivano dal bilancio energetico.
Con l’intento di verificare quale possa essere l’impatto dell’età sui meccanismi neuro-cerebrali che modulano il comportamento alimentare, sono stati studiati i cambiamenti nelle risposte del cervello a stimoli alimentari, e l'effetto modulatorio dell’assunzione di un pasto su 24 soggetti sani destrimani, di età compresa tra 19.5 e 52.6 anni.
Tutti i partecipanti sono stati osservati in giorni separati, dopo il digiuno notturno, e dopo che avevano ricevuto, in modo casuale, 50 ml di acqua o un pasto misto di 554 kcal prima di essere sottoposti a risonanza magnetica funzionale del cervello, mentre erano sottoposti a stimoli alimentari visivi. Complessivamente, l’ingestione del pasto misto ha causato una ridotta attività evocata dagli stimoli visivi in alcune zone cerebrali (amigdala, putamen, insula e talamo), e una maggiore attività in altre (precuneus e corteccia parietale bilaterale).
Quando si correggeva i risultati aggiungendo la variabile del valore di BMI, l'invecchiamento è stato associato con la diminuzione dell’attivazione di particolari zone cerebrali dopo lo stimolo visivo. E positivamente o negativamente associato con la differenza tra l’assunzione di acqua o di cibo. Gli autori concludono, quindi, ipotizzando che l’età possa influenzare le risposte cerebrali a stimoli visivi del cibo. E questo potrebbe spiegare in parte la tendenza all’aumento dell’obesità nell’età media.
Alla luce di questi e altri dati, è probabile che gli interventi di educazione alimentare possano essere efficaci nelle persone di media età che tendono ad aumentare di peso. Allo scopo, si possono utilizzare metodi diversi tra i quali quelli visivi che appaiono molto ben percepiti anche dalle persone adulte, oltre che elettivi, per i bambini.
E di solito, invece, evitati dagli adolescenti che mostrano una certa resistenza al counselling nutrizionale, sia se proposto con immagini, sia con parole. Questa resistenza è probabilmente dovuta anche all’eccesso di stimoli provenienti dalla rete Internet, cui i ragazzi sono continuamente sottoposti in quanto maggiori fruitori delle informazioni diffuse dalla rete, che non sono controllate in alcun modo.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24335762
Int J Obes (Lond). 2013 Dec 16. doi: 10.1038/ijo.2013.237. [Epub ahead of print]
Ageing diminishes the modulation of human brain responses to visual food cues by meal ingestion.
Con l’intento di verificare quale possa essere l’impatto dell’età sui meccanismi neuro-cerebrali che modulano il comportamento alimentare, sono stati studiati i cambiamenti nelle risposte del cervello a stimoli alimentari, e l'effetto modulatorio dell’assunzione di un pasto su 24 soggetti sani destrimani, di età compresa tra 19.5 e 52.6 anni.
Tutti i partecipanti sono stati osservati in giorni separati, dopo il digiuno notturno, e dopo che avevano ricevuto, in modo casuale, 50 ml di acqua o un pasto misto di 554 kcal prima di essere sottoposti a risonanza magnetica funzionale del cervello, mentre erano sottoposti a stimoli alimentari visivi. Complessivamente, l’ingestione del pasto misto ha causato una ridotta attività evocata dagli stimoli visivi in alcune zone cerebrali (amigdala, putamen, insula e talamo), e una maggiore attività in altre (precuneus e corteccia parietale bilaterale).
Quando si correggeva i risultati aggiungendo la variabile del valore di BMI, l'invecchiamento è stato associato con la diminuzione dell’attivazione di particolari zone cerebrali dopo lo stimolo visivo. E positivamente o negativamente associato con la differenza tra l’assunzione di acqua o di cibo. Gli autori concludono, quindi, ipotizzando che l’età possa influenzare le risposte cerebrali a stimoli visivi del cibo. E questo potrebbe spiegare in parte la tendenza all’aumento dell’obesità nell’età media.
Alla luce di questi e altri dati, è probabile che gli interventi di educazione alimentare possano essere efficaci nelle persone di media età che tendono ad aumentare di peso. Allo scopo, si possono utilizzare metodi diversi tra i quali quelli visivi che appaiono molto ben percepiti anche dalle persone adulte, oltre che elettivi, per i bambini.
E di solito, invece, evitati dagli adolescenti che mostrano una certa resistenza al counselling nutrizionale, sia se proposto con immagini, sia con parole. Questa resistenza è probabilmente dovuta anche all’eccesso di stimoli provenienti dalla rete Internet, cui i ragazzi sono continuamente sottoposti in quanto maggiori fruitori delle informazioni diffuse dalla rete, che non sono controllate in alcun modo.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24335762
Int J Obes (Lond). 2013 Dec 16. doi: 10.1038/ijo.2013.237. [Epub ahead of print]
Ageing diminishes the modulation of human brain responses to visual food cues by meal ingestion.
Diabete 2 emerge in pediatria
Il diabete mellito di tipo 2, fino a pochi anni fa appannaggio esclusivo dell’adulto, oggi sta emergendo come un nuovo problema clinico della pratica pediatrica. Siamo pronti ad affrontarlo?
Recenti rapporti indicano una crescente prevalenza di diabete mellito tipo 2 nei bambini e negli adolescenti in tutto il mondo e in tutte le etnie, nonostante l’incremento della prevalenza dell’obesità, abbia registrato una battuta d’arresto o un rallentamento. Comunque sia, la maggior parte dei giovani con diagnosi di diabete mellito tipo 2 è stata trovata in specifici sottogruppi etnici come afro-americani, ispanici, asiatici/Pacific Islanders e indiani americani.
In ogni caso, è bene che medici, nutrizionisti e operatori sanitari, continuino a mantenere l’allerta sui bambini e sui ragazzi con manifestazioni lievi di diabete mellito tipo 2. Più specificamente, i dati prospettici al riguardo, evidenziano una proiezione significativa soprattutto nei gruppi ad alto rischio, come i bambini e gli adolescenti con obesità, o con parenti stretti affetti da diabete mellito tipo 2, e con le caratteristiche cliniche di insulino-resistenza (ipertensione, dislipidemia, sindrome dell'ovaio policistico, o acanthosis nigricans).
Così come avviene per il diabete 2 dell’adulto, anche per l’età pediatrica, il trattamento di scelta è il cambiamento nello stile di vita (dieta controllata e attività fisica) seguito dal trattamento farmacologico (ad esempio, metformina ). Si stanno studiando, in proposito, anche nuovi farmaci dedicati ai giovanissimi con diabete 2: come gli inibitori della dipeptidil-peptidasi o GLP-1 mimetici.
Tuttavia, dati recenti indicano un drammatico abbandono delle cure da parte di questi giovani e delicati pazienti, suggerendo che la gestione dei bambini e degli adolescenti con diabete mellito tipo 2 richiede una maggiore attenzione e una correzione delle attuali pratiche sanitarie comunemente in uso. Diversi motivi in più per cominciare la prevenzione dell’obesità e del diabete precocemente, specie nelle famiglie dove già sono presenti fattori di rischio predisponenti.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24379917
World J Diabetes. 2013 Dec 15;4(6):270-281.
Type 2 diabetes mellitus in children and adolescents.
Recenti rapporti indicano una crescente prevalenza di diabete mellito tipo 2 nei bambini e negli adolescenti in tutto il mondo e in tutte le etnie, nonostante l’incremento della prevalenza dell’obesità, abbia registrato una battuta d’arresto o un rallentamento. Comunque sia, la maggior parte dei giovani con diagnosi di diabete mellito tipo 2 è stata trovata in specifici sottogruppi etnici come afro-americani, ispanici, asiatici/Pacific Islanders e indiani americani.
In ogni caso, è bene che medici, nutrizionisti e operatori sanitari, continuino a mantenere l’allerta sui bambini e sui ragazzi con manifestazioni lievi di diabete mellito tipo 2. Più specificamente, i dati prospettici al riguardo, evidenziano una proiezione significativa soprattutto nei gruppi ad alto rischio, come i bambini e gli adolescenti con obesità, o con parenti stretti affetti da diabete mellito tipo 2, e con le caratteristiche cliniche di insulino-resistenza (ipertensione, dislipidemia, sindrome dell'ovaio policistico, o acanthosis nigricans).
Così come avviene per il diabete 2 dell’adulto, anche per l’età pediatrica, il trattamento di scelta è il cambiamento nello stile di vita (dieta controllata e attività fisica) seguito dal trattamento farmacologico (ad esempio, metformina ). Si stanno studiando, in proposito, anche nuovi farmaci dedicati ai giovanissimi con diabete 2: come gli inibitori della dipeptidil-peptidasi o GLP-1 mimetici.
Tuttavia, dati recenti indicano un drammatico abbandono delle cure da parte di questi giovani e delicati pazienti, suggerendo che la gestione dei bambini e degli adolescenti con diabete mellito tipo 2 richiede una maggiore attenzione e una correzione delle attuali pratiche sanitarie comunemente in uso. Diversi motivi in più per cominciare la prevenzione dell’obesità e del diabete precocemente, specie nelle famiglie dove già sono presenti fattori di rischio predisponenti.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24379917
World J Diabetes. 2013 Dec 15;4(6):270-281.
Type 2 diabetes mellitus in children and adolescents.
Tè e caffè per il controllo del peso?
Il tè ricco di caffeina e catechine sembra utile per mantenere il peso corporeo sotto controllo. Ma forse non vale per tutti.
Il mantenimento di un buon livello di dispendio energetico giornaliero durante la perdita di peso e il mantenimento del peso, appaiono importanti quanto mantenere la sazietà riducendo l'apporto energetico. In questo contesto, diversi tipi di tè ricchi di caffeina (CCRTs) sono stati proposti (tè verde, tè olong e tè bianchi), così come la caffeina da sola, come strumenti per mantenere o migliorare il dispendio energetico e per aumentare l'ossidazione dei grassi.
In particolare i polifenoli del tè sono stati proposti per contrastare la diminuzione del tasso metabolico che è normalmente presente durante la perdita di peso. I loro effetti possono essere di particolare importanza durante il mantenimento del peso dopo la perdita di peso iniziale.
D’altro canto, anche se l'effetto termogenico del tè CCRT, ha il potenziale per produrre effetti significativi su tali obiettivi metabolici, nonché sull'assorbimento dei grassi e l'assunzione di energia, probabilmente attraverso il suo impatto sull'espressione genetica del microbiota, un risultato clinicamente significativo dipende anche dalla compliance soggettiva dei pazienti.
Le limitazioni di questo approccio, nel trattamento dell’obesità, richiedono ulteriori considerazioni, compresi fattori come la predisposizione genetica, l'assunzione di caffeina abituale, la composizione delle catechine e la dose assunta. Questo è quanto, in sostanza, si discute in una revisione centrata sull’opportunità di trattare le persone obese con tè ricco di catechine e caffeina. Ma non senza la pianificazione di una dieta adeguata e di un monitoraggio periodico dello stato nutrizionale.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24172301
Am J Clin Nutr. 2013 Dec;98(6):1682S-93S. doi: 10.3945/ajcn.113.058396. Epub 2013 Oct 30.
Catechin- and caffeine-rich teas for control of body weight in humans.
Il mantenimento di un buon livello di dispendio energetico giornaliero durante la perdita di peso e il mantenimento del peso, appaiono importanti quanto mantenere la sazietà riducendo l'apporto energetico. In questo contesto, diversi tipi di tè ricchi di caffeina (CCRTs) sono stati proposti (tè verde, tè olong e tè bianchi), così come la caffeina da sola, come strumenti per mantenere o migliorare il dispendio energetico e per aumentare l'ossidazione dei grassi.
In particolare i polifenoli del tè sono stati proposti per contrastare la diminuzione del tasso metabolico che è normalmente presente durante la perdita di peso. I loro effetti possono essere di particolare importanza durante il mantenimento del peso dopo la perdita di peso iniziale.
D’altro canto, anche se l'effetto termogenico del tè CCRT, ha il potenziale per produrre effetti significativi su tali obiettivi metabolici, nonché sull'assorbimento dei grassi e l'assunzione di energia, probabilmente attraverso il suo impatto sull'espressione genetica del microbiota, un risultato clinicamente significativo dipende anche dalla compliance soggettiva dei pazienti.
Le limitazioni di questo approccio, nel trattamento dell’obesità, richiedono ulteriori considerazioni, compresi fattori come la predisposizione genetica, l'assunzione di caffeina abituale, la composizione delle catechine e la dose assunta. Questo è quanto, in sostanza, si discute in una revisione centrata sull’opportunità di trattare le persone obese con tè ricco di catechine e caffeina. Ma non senza la pianificazione di una dieta adeguata e di un monitoraggio periodico dello stato nutrizionale.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24172301
Am J Clin Nutr. 2013 Dec;98(6):1682S-93S. doi: 10.3945/ajcn.113.058396. Epub 2013 Oct 30.
Catechin- and caffeine-rich teas for control of body weight in humans.
Le ossa e le proteine della dieta
Le diete ricche di proteine appaiono molto efficaci per perdere peso, tuttavia l'effetto delle proteine alimentari sul tessuto osseo, durante la perdita di peso, non è da trascurare.
In proposito è stata pubblicata una revisione. Per prima cosa è bene chiarire che col termine dieta a elevato contenuto di proteine s’intende un regime nel quale almeno il 30% del contenuto di energia proviene da proteine alimentari (> 1,2 g / kg / die) e per dieta moderatamente ricca di proteine s’intende un regime con contenuto proteico che va dal 22% al 29% di energia da proteine (1,0 a 1,2 g / kg / giorno).
In numerosi studi si è visto che le proteine potrebbero aiutare a preservare la massa ossea durante la perdita di peso stimolando il fattore di crescita ILGF-1 (insulin-like growth factor 1). Questo fattore è un potente anabolizzante dell’osso e aumenta l'assorbimento intestinale del calcio. Per altro, l’acidità della dieta indotta dalle proteine, sembra avere un effetto minimo sul riassorbimento osseo negli adulti con funzione renale normale.
Vanno considerate, tuttavia, sia la quantità, sia la qualità delle proteine (fonti animali o vegetali) presenti in un regime restrittivo, poiché entrambe influenzano il metabolismo osseo, ma in maniera diversa. In altri termini, le diete a contenuto proteico superiore a quello raccomandato e le diete a elevato contenuto di latte e derivati, possono contribuire ad attenuare la perdita ossea durante la perdita di peso.
Fonte:
http://www.andjrnl.org/article/S2212-2672(13)01376-2/abstract
J Acad Nutr Diet. 2014 Jan;114(1):72-85. doi: 10.1016/j.jand.2013.08.021. Epub 2013 Oct 30.
Diet-induced weight loss: the effect of dietary protein on bone.
In proposito è stata pubblicata una revisione. Per prima cosa è bene chiarire che col termine dieta a elevato contenuto di proteine s’intende un regime nel quale almeno il 30% del contenuto di energia proviene da proteine alimentari (> 1,2 g / kg / die) e per dieta moderatamente ricca di proteine s’intende un regime con contenuto proteico che va dal 22% al 29% di energia da proteine (1,0 a 1,2 g / kg / giorno).
In numerosi studi si è visto che le proteine potrebbero aiutare a preservare la massa ossea durante la perdita di peso stimolando il fattore di crescita ILGF-1 (insulin-like growth factor 1). Questo fattore è un potente anabolizzante dell’osso e aumenta l'assorbimento intestinale del calcio. Per altro, l’acidità della dieta indotta dalle proteine, sembra avere un effetto minimo sul riassorbimento osseo negli adulti con funzione renale normale.
Vanno considerate, tuttavia, sia la quantità, sia la qualità delle proteine (fonti animali o vegetali) presenti in un regime restrittivo, poiché entrambe influenzano il metabolismo osseo, ma in maniera diversa. In altri termini, le diete a contenuto proteico superiore a quello raccomandato e le diete a elevato contenuto di latte e derivati, possono contribuire ad attenuare la perdita ossea durante la perdita di peso.
Fonte:
http://www.andjrnl.org/article/S2212-2672(13)01376-2/abstract
J Acad Nutr Diet. 2014 Jan;114(1):72-85. doi: 10.1016/j.jand.2013.08.021. Epub 2013 Oct 30.
Diet-induced weight loss: the effect of dietary protein on bone.
Obesità: il peso sul cuore
L'ipertrofia ventricolare sinistra (IVS) è nota come complicanza frequente dell’obesità, ma al riguardo mancano dati aggiornati sull’incidenza. Un gruppo di ricercatori di Milano, ha condotto in proposito una metanalisi della letteratura.
Una ricerca della letteratura con le seguenti parole chiave: ventricolo sinistro, ipertrofia ventricolare sinistra, ipertrofia cardiaca, obesità, ipertensione, ecocardiografia, è stata effettuata al fine di identificare i lavori pertinenti. Sono stati considerati articoli completi pubblicati in lingua inglese negli ultimi 12 anni che riportano studi in soggetti obesi adulti.
Sono stati selezionati in totale 22 studi, comprendenti 5.486 soggetti obesi e inclusi nell’analisi. In generale, nel pool della popolazione obesa, la prevalenza d’ipertrofia ventricolare sinistra, definita da 12 criteri ecocardiografici e clinici, era del 56,0 %.
I dati forniti da 15 studi (n = 4.999 individui obesi, 6.623 controlli non obesi), hanno mostrato che la probabilità di avere IVS (LVH) era molto più elevata nei casi di obesità rispetto alle controparti di soggetti non obesi. Un'analisi di regressione (n = 2214, 14 studi) ha mostrato una correlazione diretta tra il valore del BMI e la massa ventricolare sinistra. Inoltre, tra i pazienti obesi con IVS (n = 1930, 15 studi), l’ipertrofia eccentrica era più frequente rispetto al fenotipo concentrica (66 vs 34 %).
Questi dati mostrano con forza statistica che la presenza di IVS è consistente nella popolazione obesa e che l'ipertrofia eccentrica prevale sul fenotipo concentrico. L'obesità legata a IVS è un potente fattore di rischio per la disfunzione sistolica/diastolica, dunque, secondo gli autori, la prevenzione e il trattamento dell'obesità potrebbero avere un forte impatto positivo sull’incidenza dell’insufficienza cardiaca.
Quindi, nell’approccio diagnostico all’obeso di media età e apparentemente sano, una delle prime cose da fare è controllare i parametri cardiocircolatori (ecocardiografia compresa) per non rischiare di arrivare troppo tardi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24309485
J Hypertens. 2013 Dec 4. [Epub ahead of print]
Left-ventricular hypertrophy and obesity: a systematic review and meta-analysis of echocardiographic studies.
Una ricerca della letteratura con le seguenti parole chiave: ventricolo sinistro, ipertrofia ventricolare sinistra, ipertrofia cardiaca, obesità, ipertensione, ecocardiografia, è stata effettuata al fine di identificare i lavori pertinenti. Sono stati considerati articoli completi pubblicati in lingua inglese negli ultimi 12 anni che riportano studi in soggetti obesi adulti.
Sono stati selezionati in totale 22 studi, comprendenti 5.486 soggetti obesi e inclusi nell’analisi. In generale, nel pool della popolazione obesa, la prevalenza d’ipertrofia ventricolare sinistra, definita da 12 criteri ecocardiografici e clinici, era del 56,0 %.
I dati forniti da 15 studi (n = 4.999 individui obesi, 6.623 controlli non obesi), hanno mostrato che la probabilità di avere IVS (LVH) era molto più elevata nei casi di obesità rispetto alle controparti di soggetti non obesi. Un'analisi di regressione (n = 2214, 14 studi) ha mostrato una correlazione diretta tra il valore del BMI e la massa ventricolare sinistra. Inoltre, tra i pazienti obesi con IVS (n = 1930, 15 studi), l’ipertrofia eccentrica era più frequente rispetto al fenotipo concentrica (66 vs 34 %).
Questi dati mostrano con forza statistica che la presenza di IVS è consistente nella popolazione obesa e che l'ipertrofia eccentrica prevale sul fenotipo concentrico. L'obesità legata a IVS è un potente fattore di rischio per la disfunzione sistolica/diastolica, dunque, secondo gli autori, la prevenzione e il trattamento dell'obesità potrebbero avere un forte impatto positivo sull’incidenza dell’insufficienza cardiaca.
Quindi, nell’approccio diagnostico all’obeso di media età e apparentemente sano, una delle prime cose da fare è controllare i parametri cardiocircolatori (ecocardiografia compresa) per non rischiare di arrivare troppo tardi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24309485
J Hypertens. 2013 Dec 4. [Epub ahead of print]
Left-ventricular hypertrophy and obesity: a systematic review and meta-analysis of echocardiographic studies.
Mandorle come prebiotici
Pare che le mandorle, polpa e pelli comprese, siano molto sono ricche di fibre e di altri componenti che hanno potenziali proprietà prebiotiche.
Un totale di 48 volontari sani adulti ha consumato una dose giornaliera di mandorle tostate (56 g), bucce di mandorle (10 g), o di integratori di fibre contenute nelle pelli di mandorla (fructo-oligosaccaridi - 8 g) per 6 settimane. I campioni fecali sono stati raccolti in momenti definiti e analizzati per la composizione del microbiota e gli indicatori selezionati di attività microbica.
Diversi ceppi di batteri intestinali sono stati individuati la cui crescita era legata a diversi gradi di sensibilità alle mandorle o alle pelli. Per esempio aumenti significativi delle popolazioni di Bifidobacterium spp. e Lactobacillus spp. sono stati osservati nei campioni fecali in relazione al consumo di mandorle o di supplementi delle pelli di mandorla. Tuttavia, le popolazioni di Escherichia coli non sono cambiate significativamente, mentre la crescita dei patogeni (Clostridium perfringens) era significativamente diminuita. In totale si osservava una complessiva modificazione del microbiota intestinale che ha prodotto cambiamenti dell'attività degli enzimi batterici.
Queste osservazioni, secondo gli autori, suggeriscono che l'ingestione di mandorle e delle loro pelli, possa portare a un miglioramento del profilo del microbiota intestinale e a una modifica delle attività batteriche intestinali, con potenziale incremento di fattori prebiotici e probiotici salutari a scapito di fattori nocivi. Al contrario, dunque, di quanto si pensa, le mandorle potrebbero essere utili in caso di stipsi ostinata abbinata a intestino irritabile.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24315808
Anaerobe. 2013 Dec 3. pii: S1075-9964(13)00193-5. doi: 10.1016/j.anaerobe.2013.11.007. [Epub ahead of print]
Prebiotic effects of almonds and almond skins on intestinal microbiota in healthy adult humans.
Un totale di 48 volontari sani adulti ha consumato una dose giornaliera di mandorle tostate (56 g), bucce di mandorle (10 g), o di integratori di fibre contenute nelle pelli di mandorla (fructo-oligosaccaridi - 8 g) per 6 settimane. I campioni fecali sono stati raccolti in momenti definiti e analizzati per la composizione del microbiota e gli indicatori selezionati di attività microbica.
Diversi ceppi di batteri intestinali sono stati individuati la cui crescita era legata a diversi gradi di sensibilità alle mandorle o alle pelli. Per esempio aumenti significativi delle popolazioni di Bifidobacterium spp. e Lactobacillus spp. sono stati osservati nei campioni fecali in relazione al consumo di mandorle o di supplementi delle pelli di mandorla. Tuttavia, le popolazioni di Escherichia coli non sono cambiate significativamente, mentre la crescita dei patogeni (Clostridium perfringens) era significativamente diminuita. In totale si osservava una complessiva modificazione del microbiota intestinale che ha prodotto cambiamenti dell'attività degli enzimi batterici.
Queste osservazioni, secondo gli autori, suggeriscono che l'ingestione di mandorle e delle loro pelli, possa portare a un miglioramento del profilo del microbiota intestinale e a una modifica delle attività batteriche intestinali, con potenziale incremento di fattori prebiotici e probiotici salutari a scapito di fattori nocivi. Al contrario, dunque, di quanto si pensa, le mandorle potrebbero essere utili in caso di stipsi ostinata abbinata a intestino irritabile.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24315808
Anaerobe. 2013 Dec 3. pii: S1075-9964(13)00193-5. doi: 10.1016/j.anaerobe.2013.11.007. [Epub ahead of print]
Prebiotic effects of almonds and almond skins on intestinal microbiota in healthy adult humans.
Obesità: una malattia infiammatoria
La maggior parte delle condizioni patologiche associate al sovrappeso deriverebbero dal potenziale pro-infimmatorio del tessuto adiposo.
L’obesità: una malattia infiammatoria a tutti gli effetti. Obesità e sovrappeso sono due condizioni caratterizzate da un accumulo eccessivo di tessuto adiposo in sede subcutaneo o addominale.
Questo tessuto, tuttavia, non rappresenta una componente corporea inerte deputata unicamente all’accumulo di energia ma rappresenterebbe un tessuto attivamente coinvolto nella regolazione di numerosi processi fisiologici e patologici, tra cui l’immunità e l’infiammazione.
Il tessuto adiposo, infatti, è in grado di produrre e rilasciare una varietà di fattori di segnalazione intercellulare complessivamente noti con il nome di adipochine (leptina, adiponectina, resistina e visfatina), così come altre citochine coinvolte nei processi infiammatori (tumor necrosis factor-α, interleuchina 4 – 6 ed altre).
Per questa ragione, l’obesità può essere considerata come un condizione particolarmente pericolosa, e il tessuto adiposo sembrerebbe essere direttamente implicato nello sviluppo di numerose condizioni patologiche metaboliche come il diabete mellito di tipo 2 ed anche disordini cardiovascolari.
Allo stesso modo in cui la dieta o particolari pattern alimentari rivestono un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’obesità e di altre condizioni patofisiologiche, la cura dell’alimentazione sembra essere una strategia che permette di contrastare in maniera efficace questa pericolosa situazione di debole infiammazione costante.
Fonte
Hansongyi Lee, In Seok Lee, and Ryowon Choue Obesity, Inflammation and Diet Pediatr Gastroenterol Hepatol Nutr. 2013
L’obesità: una malattia infiammatoria a tutti gli effetti. Obesità e sovrappeso sono due condizioni caratterizzate da un accumulo eccessivo di tessuto adiposo in sede subcutaneo o addominale.
Questo tessuto, tuttavia, non rappresenta una componente corporea inerte deputata unicamente all’accumulo di energia ma rappresenterebbe un tessuto attivamente coinvolto nella regolazione di numerosi processi fisiologici e patologici, tra cui l’immunità e l’infiammazione.
Il tessuto adiposo, infatti, è in grado di produrre e rilasciare una varietà di fattori di segnalazione intercellulare complessivamente noti con il nome di adipochine (leptina, adiponectina, resistina e visfatina), così come altre citochine coinvolte nei processi infiammatori (tumor necrosis factor-α, interleuchina 4 – 6 ed altre).
Per questa ragione, l’obesità può essere considerata come un condizione particolarmente pericolosa, e il tessuto adiposo sembrerebbe essere direttamente implicato nello sviluppo di numerose condizioni patologiche metaboliche come il diabete mellito di tipo 2 ed anche disordini cardiovascolari.
Allo stesso modo in cui la dieta o particolari pattern alimentari rivestono un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’obesità e di altre condizioni patofisiologiche, la cura dell’alimentazione sembra essere una strategia che permette di contrastare in maniera efficace questa pericolosa situazione di debole infiammazione costante.
Fonte
Hansongyi Lee, In Seok Lee, and Ryowon Choue Obesity, Inflammation and Diet Pediatr Gastroenterol Hepatol Nutr. 2013
Fibre alimentari: come proteggono?
Quali meccanismi contribuiscono alla protezione associata al consumo di fibre alimentari? Nuove evindenze puntano alla produzione di specifici acidi grassi e al loro impatto su numerosi aspetti del metabolismo.
Il consumo di fibre alimentari contribuisce positivamente al controllo metabolico, ad esempio favorendo la sazietà, riducendo la glicemia e i livelli di trigliceridi nel sangue. Ma quali meccanismi sono responsabili per questi effetti?
Nuove evidenze sperimentali suggeriscono che l’impatto di questi alimenti sul metabolismo sarebbe riconducibile alla loro capacità di modulare la formazione di alcuni acidi grassi a corta catena (short-chain fatty acids, SCFA), in particolare acido propionico e butirrico, generati proprio a livello intestinale come risultato della degradazione delle fibre da parte delle specie microbiche presenti.
Quest'effetto permeterebbe di limitare lo stato di debole infiammazione cronica tipica del sovrappeso, contribuendo così a prevenire il rischio di disordini metabolici associati proprio all’eccesso di peso corporeo.
Il presente meccanismo protettivo è stato recentemente dimostrato nell’animale in uno studio svedese condotto presso l’Università di Lund nel quale i ricercatori hanno analizzato l’impatto del consumo di fibre e la formazione di differenti categorie di SCFA e su diversi indicatori metabolici.
Per fare questo gli autori somministravano agli animali una dieta grassa oppure non-grassa supplementata con fibre alimentari, così da favorire la produzione di distinti pattern di acidi grassi: pectina – acido acetico, gomma guar – acido propionico oppure una mistura – acido butirrico. In seguito al trattamento le concentrazioni di numerosi indicatori metabolici e infiammatori venivano misurate, così come la composizione del microbiota intestinale.
Complessivamente, gli autori hanno potuto osservare che il consumo di fibre alimentari preveniva l’aumento di peso negli animali, così come l’accumulo di grasso a livello del fegato e i livelli di colesterolo e trigliceridi, ma soprattutto modificava la produzione di acidi grassi a corta catena a favore di acido proprionico e butirrico.
Di nota, la dieta grassa riduceva inizialmente la formazione di questi due tipi di composti, ma dopo un determinato tempo questa riprendeva. Gli autori hanno anche osservato che la dieta grassa favoriva la produzione del composto tossico acido succinico ma il consumo di fibre associato a questa dieta preveniva questo effetto e riduceva l’infiammazione.
Infine, i ricercatori hanno potuto riconstrare un effetto indiretto del consumo di fibre sulla composizione delle specie batteriche intestinali. Il consumo di fibre favoriva infatti la produzione di gomma guar e così presenza di specifiche familie batteriche capaci di limitare la proliferazione di altre specie indesiderabili e potenzialmente dannose per il controllo metabolico.
Fonte:
Greta Jakobsdottir, Jie Xu, Göran Molin et al. High-Fat Diet Reduces the Formation of Butyrate, but Increases Succinate, Inflammation, Liver Fat and Cholesterol in Rats, while Dietary Fibre Counteracts These Effects PLoS One. 2013
Il consumo di fibre alimentari contribuisce positivamente al controllo metabolico, ad esempio favorendo la sazietà, riducendo la glicemia e i livelli di trigliceridi nel sangue. Ma quali meccanismi sono responsabili per questi effetti?
Nuove evidenze sperimentali suggeriscono che l’impatto di questi alimenti sul metabolismo sarebbe riconducibile alla loro capacità di modulare la formazione di alcuni acidi grassi a corta catena (short-chain fatty acids, SCFA), in particolare acido propionico e butirrico, generati proprio a livello intestinale come risultato della degradazione delle fibre da parte delle specie microbiche presenti.
Quest'effetto permeterebbe di limitare lo stato di debole infiammazione cronica tipica del sovrappeso, contribuendo così a prevenire il rischio di disordini metabolici associati proprio all’eccesso di peso corporeo.
Il presente meccanismo protettivo è stato recentemente dimostrato nell’animale in uno studio svedese condotto presso l’Università di Lund nel quale i ricercatori hanno analizzato l’impatto del consumo di fibre e la formazione di differenti categorie di SCFA e su diversi indicatori metabolici.
Per fare questo gli autori somministravano agli animali una dieta grassa oppure non-grassa supplementata con fibre alimentari, così da favorire la produzione di distinti pattern di acidi grassi: pectina – acido acetico, gomma guar – acido propionico oppure una mistura – acido butirrico. In seguito al trattamento le concentrazioni di numerosi indicatori metabolici e infiammatori venivano misurate, così come la composizione del microbiota intestinale.
Complessivamente, gli autori hanno potuto osservare che il consumo di fibre alimentari preveniva l’aumento di peso negli animali, così come l’accumulo di grasso a livello del fegato e i livelli di colesterolo e trigliceridi, ma soprattutto modificava la produzione di acidi grassi a corta catena a favore di acido proprionico e butirrico.
Di nota, la dieta grassa riduceva inizialmente la formazione di questi due tipi di composti, ma dopo un determinato tempo questa riprendeva. Gli autori hanno anche osservato che la dieta grassa favoriva la produzione del composto tossico acido succinico ma il consumo di fibre associato a questa dieta preveniva questo effetto e riduceva l’infiammazione.
Infine, i ricercatori hanno potuto riconstrare un effetto indiretto del consumo di fibre sulla composizione delle specie batteriche intestinali. Il consumo di fibre favoriva infatti la produzione di gomma guar e così presenza di specifiche familie batteriche capaci di limitare la proliferazione di altre specie indesiderabili e potenzialmente dannose per il controllo metabolico.
Fonte:
Greta Jakobsdottir, Jie Xu, Göran Molin et al. High-Fat Diet Reduces the Formation of Butyrate, but Increases Succinate, Inflammation, Liver Fat and Cholesterol in Rats, while Dietary Fibre Counteracts These Effects PLoS One. 2013
Bambini con appetito difficile
I comportamenti alimentari dei bambini sembrano strettamente legati a fattori genetici e ambientali.
In Canada, alcuni ricercatori hanno elaborato i dati relativi ai comportamenti alimentari tratti da questionari somministrati ai genitori di gemelli che già avevano partecipato al Quebec Newborn Twin Study, quando i loro figli avevano 2,5 e 9 anni (n = 692 bambini). Si è così dapprima evidenziata una moderata (nei gemelli di 2,5 anni) e forte (nei gemelli di 9 anni) ereditabilità per i tratti relativi all’appetito come: mangiare troppo, non mangiare abbastanza e mangiare troppo velocemente.
Tali correlazioni genetiche, tuttavia, con l’aumento dell’età prendevano un andamento da modesto a moderato. Inoltre, nei bambini di 9 anni, i tratti che riguardavano l’accettazione del cibo, come ad esempio il rifiuto di mangiare e la caratteristica di essere esigenti sul cibo, avevano stime di ereditabilità elevate, mentre nei bambini più piccoli, l’ambiente in comune (cioè comune ad entrambi i gemelli) ha contribuito maggiormente alla varianza fenotipica (all’aspetto e al peso). E ancora, gli scostamenti dei comportamenti da un “modello di pasto” previsto sono stati in gran parte spiegati da influenze ambientali condivise.
Gli autori concludono affermando che le predisposizioni genetiche spiegano gran parte delle variazioni dei tratti comportamentali relativi all’appetito durante l'infanzia, anche se è molto probabile che crescendo i bambini possano diventare più sensibili alle influenze ambientali al di fuori della loro casa. In ogni caso, il contesto familiare è apparso come l’ambiente più efficace per gli interventi educativi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24313977
Int J Behav Nutr Phys Act. 2013 Dec 7;10(1):134. [Epub ahead of print]
Genetic and environmental influences on eating behaviors in 2.5- and 9-year-old children: a longitudinal twin study.
In Canada, alcuni ricercatori hanno elaborato i dati relativi ai comportamenti alimentari tratti da questionari somministrati ai genitori di gemelli che già avevano partecipato al Quebec Newborn Twin Study, quando i loro figli avevano 2,5 e 9 anni (n = 692 bambini). Si è così dapprima evidenziata una moderata (nei gemelli di 2,5 anni) e forte (nei gemelli di 9 anni) ereditabilità per i tratti relativi all’appetito come: mangiare troppo, non mangiare abbastanza e mangiare troppo velocemente.
Tali correlazioni genetiche, tuttavia, con l’aumento dell’età prendevano un andamento da modesto a moderato. Inoltre, nei bambini di 9 anni, i tratti che riguardavano l’accettazione del cibo, come ad esempio il rifiuto di mangiare e la caratteristica di essere esigenti sul cibo, avevano stime di ereditabilità elevate, mentre nei bambini più piccoli, l’ambiente in comune (cioè comune ad entrambi i gemelli) ha contribuito maggiormente alla varianza fenotipica (all’aspetto e al peso). E ancora, gli scostamenti dei comportamenti da un “modello di pasto” previsto sono stati in gran parte spiegati da influenze ambientali condivise.
Gli autori concludono affermando che le predisposizioni genetiche spiegano gran parte delle variazioni dei tratti comportamentali relativi all’appetito durante l'infanzia, anche se è molto probabile che crescendo i bambini possano diventare più sensibili alle influenze ambientali al di fuori della loro casa. In ogni caso, il contesto familiare è apparso come l’ambiente più efficace per gli interventi educativi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24313977
Int J Behav Nutr Phys Act. 2013 Dec 7;10(1):134. [Epub ahead of print]
Genetic and environmental influences on eating behaviors in 2.5- and 9-year-old children: a longitudinal twin study.
Mandorle come prebiotici
Pare che le mandorle, polpa e pelli comprese, siano molto sono ricche di fibre e di altri componenti che hanno potenziali proprietà prebiotiche.
Un totale di 48 volontari sani adulti ha consumato una dose giornaliera di mandorle tostate (56g), bucce di mandorle (10 g), o di integratori di fibre contenute nelle pelli di mandorla (fructo-oligosaccaridi - 8 g) per 6 settimane. I campioni fecali sono stati raccolti in momenti definiti e analizzati per la composizione del microbiota e gli indicatori selezionati di attività microbica.
Diversi ceppi di batteri intestinali sono stati individuati la cui crescita era legata a diversi gradi di sensibilità alle mandorle o alle pelli. Per esempio aumenti significativi delle popolazioni di Bifidobacterium spp. e Lactobacillus spp. sono stati osservati nei campioni fecali in relazione al consumo di mandorle o di supplementi delle pelli di mandorla. Tuttavia, le popolazioni di Escherichia coli non sono cambiate significativamente, mentre la crescita dei patogeni (Clostridium perfringens) era significativamente diminuita. In totale si osservava una complessiva modificazione del microbiota intestinale che ha prodotto cambiamenti dell'attività degli enzimi batterici.
Queste osservazioni, secondo gli autori, suggeriscono che l'ingestione di mandorle e delle loro pelli, possa portare a un miglioramento del profilo del microbiota intestinale e a una modifica delle attività batteriche intestinali, con potenziale incremento di fattori prebiotici e probiotici salutari a scapito di fattori nocivi. Al contrario, dunque, di quanto si pensa, le mandorle potrebbero essere utili in caso di stipsi ostinata abbinata a intestino irritabile.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24315808
Anaerobe. 2013 Dec 3. pii: S1075-9964(13)00193-5. doi: 10.1016/j.anaerobe.2013.11.007. [Epub ahead of print]
Prebiotic effects of almonds and almond skins on intestinal microbiota in healthy adult humans.
Un totale di 48 volontari sani adulti ha consumato una dose giornaliera di mandorle tostate (56g), bucce di mandorle (10 g), o di integratori di fibre contenute nelle pelli di mandorla (fructo-oligosaccaridi - 8 g) per 6 settimane. I campioni fecali sono stati raccolti in momenti definiti e analizzati per la composizione del microbiota e gli indicatori selezionati di attività microbica.
Diversi ceppi di batteri intestinali sono stati individuati la cui crescita era legata a diversi gradi di sensibilità alle mandorle o alle pelli. Per esempio aumenti significativi delle popolazioni di Bifidobacterium spp. e Lactobacillus spp. sono stati osservati nei campioni fecali in relazione al consumo di mandorle o di supplementi delle pelli di mandorla. Tuttavia, le popolazioni di Escherichia coli non sono cambiate significativamente, mentre la crescita dei patogeni (Clostridium perfringens) era significativamente diminuita. In totale si osservava una complessiva modificazione del microbiota intestinale che ha prodotto cambiamenti dell'attività degli enzimi batterici.
Queste osservazioni, secondo gli autori, suggeriscono che l'ingestione di mandorle e delle loro pelli, possa portare a un miglioramento del profilo del microbiota intestinale e a una modifica delle attività batteriche intestinali, con potenziale incremento di fattori prebiotici e probiotici salutari a scapito di fattori nocivi. Al contrario, dunque, di quanto si pensa, le mandorle potrebbero essere utili in caso di stipsi ostinata abbinata a intestino irritabile.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24315808
Anaerobe. 2013 Dec 3. pii: S1075-9964(13)00193-5. doi: 10.1016/j.anaerobe.2013.11.007. [Epub ahead of print]
Prebiotic effects of almonds and almond skins on intestinal microbiota in healthy adult humans.
Pnei e il sistema riproduttivo
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), definisce gli endocrine disruptor compounds (EDC) come un gruppo eterogeneo di sostanze in grado di interagire con il sistema endocrino provocando gravi effetti avversi alla salute dell’individuo e ai suoi discendenti.
Questi prodotti appartengono alle più svariate categorie: dai pesticidi ai fungicidi, ai prodotti industriali, alle plastiche.
Il complesso sistema neuroendocrino deputato al controllo della funzione riproduttiva, può essere gravemente lesionato da queste sostanze. Tra le ripercussioni sul sistema riproduttivo maschile, possiamo citare il criptorchidismo, l’ipospadia, la riduzione della qualità dello sperma, l’incremento delle neoplasie testicolari, e la riduzione complessiva del testosterone circolante.
Attualmente si ritiene che il 20% della popolazione giovanile europea, abbia una qualità seminale insufficiente per i criteri di normalità proposti dall’OMS. Nella donna, l’esposizione volontaria al dietilstilbestrolo (DES) ad opera della classe medica, può essere considerata un esempio paradigmatico.
La molecola scoperta nel 1937, sembrava poter prevenire gli aborti nelle giovani donne. Il farmaco è stato ampiamente prescritto fino al 1971, data nella quale è stata confermata l’associazione tra DES e adenocarcinoma vaginale in giovani donne di età compresa tra 15 e 22 anni, esposte a tale sostanza durante la gestazione.
L’effetto biologico più riconosciuto tramite il quale gli interferenti endocrini interagiscono con il nostro organismo è la capacità di legarsi ai recettori degli estrogeni e del testosterone mimandone l’effetto sia in senso inibitorio che stimolatorio.
Negli ultimi decenni, proprio a causa di questa sovraesposizione alle diossine e ai composti diossino-simili, si è potuta constatare una flessione nelle nascite dei maschietti nei paesi industrializzati, validata, anche da uno studio su Edpidemiology fatto da alcuni studiosi giapponesi.
La conclusione? I genitori che sono stati esposti alla diossina prima dei 20 anni di età, faranno meno maschi. Ma il dato più interessante è che anche le figlie, a loro volta, faranno meno maschi. Sembrerebbe infatti esserci una trasmissione epigenetica ancora da appurare.
Questi prodotti appartengono alle più svariate categorie: dai pesticidi ai fungicidi, ai prodotti industriali, alle plastiche.
Il complesso sistema neuroendocrino deputato al controllo della funzione riproduttiva, può essere gravemente lesionato da queste sostanze. Tra le ripercussioni sul sistema riproduttivo maschile, possiamo citare il criptorchidismo, l’ipospadia, la riduzione della qualità dello sperma, l’incremento delle neoplasie testicolari, e la riduzione complessiva del testosterone circolante.
Attualmente si ritiene che il 20% della popolazione giovanile europea, abbia una qualità seminale insufficiente per i criteri di normalità proposti dall’OMS. Nella donna, l’esposizione volontaria al dietilstilbestrolo (DES) ad opera della classe medica, può essere considerata un esempio paradigmatico.
La molecola scoperta nel 1937, sembrava poter prevenire gli aborti nelle giovani donne. Il farmaco è stato ampiamente prescritto fino al 1971, data nella quale è stata confermata l’associazione tra DES e adenocarcinoma vaginale in giovani donne di età compresa tra 15 e 22 anni, esposte a tale sostanza durante la gestazione.
L’effetto biologico più riconosciuto tramite il quale gli interferenti endocrini interagiscono con il nostro organismo è la capacità di legarsi ai recettori degli estrogeni e del testosterone mimandone l’effetto sia in senso inibitorio che stimolatorio.
Negli ultimi decenni, proprio a causa di questa sovraesposizione alle diossine e ai composti diossino-simili, si è potuta constatare una flessione nelle nascite dei maschietti nei paesi industrializzati, validata, anche da uno studio su Edpidemiology fatto da alcuni studiosi giapponesi.
La conclusione? I genitori che sono stati esposti alla diossina prima dei 20 anni di età, faranno meno maschi. Ma il dato più interessante è che anche le figlie, a loro volta, faranno meno maschi. Sembrerebbe infatti esserci una trasmissione epigenetica ancora da appurare.
Lo stress "alimenta" il peso
In presenza di condizioni costantemente stressanti, le scelte alimentari delle donne, sembrano orientarsi verso un aumento dell’intake di carboidrati e grassi, con conseguenti variazioni di peso.
Lo studio
Alcuni ricercatori londinesi hanno osservato 38 donne volontarie sane reclutate tra le appartenenti a un corso universitario post-laurea. I dati sono stati rilevati all’inizio del corso semestrale e 15 settimane dopo, appena prima dell’esame scritto previsto dal corso (il fattore stressante).
Tramite un metodo d’analisi soggettiva, sono stati misurati: la composizione in nutrienti degli alimenti consumati, il BMI, il livello della restrizione dietetica e il livello di cortisolo salivare, in tutte le partecipanti. In un più ampio studio, dal quale sono stati tratti i dati qui elaborati, si evidenziava che l’effetto dell’aumento nella secrezione di cortisolo salivare, riduceva le restrizioni dietetiche e aumentava l’assunzione calorica, e questo giustificava per il 73% la variazione del BMI.
Tuttavia, l’analisi di regressione mostrava che i cambiamenti nella dieta modulavano l’effetto del cambiamento dei livelli di cortisolo salivare sulle variazioni del BMI. Un’analisi finale ha rivelato che l’effetto di questi cambiamenti restrittivi della dieta sul peso appaiono parzialmente mediati da un aumento dell’assunzione calorica da carboidrati e grassi, il che sta a significare che in parte il cambiamento nella composizione della dieta è correlato all’aumento della secrezione di cortisolo attraverso un’azione a livello ipotalamico-ipofisario che risulta in un aumento di peso.
Questi nuovi dati suggeriscono una consistente ipotesi sul “cibo da conforto”, ovvero, lo stress cronico potrebbe promuovere alcuni comportamenti associati tramite la diminuita restrizione dietetica e il consumo di cibi (consolatori) a elevato contenuto di carboidrati e grassi.
In pratica
La valenza del cibo, come “consolatore”, è stata evidenziata in numerosi studi che sostanzialmente suggeriscono un’implicazione emotiva nelle scelte alimentari soggettive quotidiane. E tale implicazione emotiva si traduce, specie nelle donne che sono sottoposte a una dieta restrittiva, in una scarsa adesione alla dieta, e in una ricerca, a volte frenetica, del cibo di conforto.
In questo studio, il primo dato importante è lo stress come movente delle scelte alimentari, che influenza la variazione del peso corporeo. Molte pazienti mostrano, di fatto, questo effetto negativo dello stress e quindi è necessario tenerne conto nella pianificazione del loro programma alimentare senza trascurare l’indagine alimentare accurata prima e durante il trattamento dietetico.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24123563
Eur Eat Disord Rev. 2013 Oct 4. doi: 10.1002/erv.2264. [Epub ahead of print]
Increases in Weight during Chronic Stress are Partially Associated with a Switch in Food Choice towards Increased Carbohydrate and Saturated Fat Intake.
Lo studio
Alcuni ricercatori londinesi hanno osservato 38 donne volontarie sane reclutate tra le appartenenti a un corso universitario post-laurea. I dati sono stati rilevati all’inizio del corso semestrale e 15 settimane dopo, appena prima dell’esame scritto previsto dal corso (il fattore stressante).
Tramite un metodo d’analisi soggettiva, sono stati misurati: la composizione in nutrienti degli alimenti consumati, il BMI, il livello della restrizione dietetica e il livello di cortisolo salivare, in tutte le partecipanti. In un più ampio studio, dal quale sono stati tratti i dati qui elaborati, si evidenziava che l’effetto dell’aumento nella secrezione di cortisolo salivare, riduceva le restrizioni dietetiche e aumentava l’assunzione calorica, e questo giustificava per il 73% la variazione del BMI.
Tuttavia, l’analisi di regressione mostrava che i cambiamenti nella dieta modulavano l’effetto del cambiamento dei livelli di cortisolo salivare sulle variazioni del BMI. Un’analisi finale ha rivelato che l’effetto di questi cambiamenti restrittivi della dieta sul peso appaiono parzialmente mediati da un aumento dell’assunzione calorica da carboidrati e grassi, il che sta a significare che in parte il cambiamento nella composizione della dieta è correlato all’aumento della secrezione di cortisolo attraverso un’azione a livello ipotalamico-ipofisario che risulta in un aumento di peso.
Questi nuovi dati suggeriscono una consistente ipotesi sul “cibo da conforto”, ovvero, lo stress cronico potrebbe promuovere alcuni comportamenti associati tramite la diminuita restrizione dietetica e il consumo di cibi (consolatori) a elevato contenuto di carboidrati e grassi.
In pratica
La valenza del cibo, come “consolatore”, è stata evidenziata in numerosi studi che sostanzialmente suggeriscono un’implicazione emotiva nelle scelte alimentari soggettive quotidiane. E tale implicazione emotiva si traduce, specie nelle donne che sono sottoposte a una dieta restrittiva, in una scarsa adesione alla dieta, e in una ricerca, a volte frenetica, del cibo di conforto.
In questo studio, il primo dato importante è lo stress come movente delle scelte alimentari, che influenza la variazione del peso corporeo. Molte pazienti mostrano, di fatto, questo effetto negativo dello stress e quindi è necessario tenerne conto nella pianificazione del loro programma alimentare senza trascurare l’indagine alimentare accurata prima e durante il trattamento dietetico.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24123563
Eur Eat Disord Rev. 2013 Oct 4. doi: 10.1002/erv.2264. [Epub ahead of print]
Increases in Weight during Chronic Stress are Partially Associated with a Switch in Food Choice towards Increased Carbohydrate and Saturated Fat Intake.
Bambini obesi per troppa pubblicità ingannevole
Dato l’alto tasso di obesità infantile, potrebbe essere importante valutare l’influenza dei prodotti alimentari e delle bevande che vengono continuamente proposti ai bambini in TV.
Un gruppo di ricercatori americani ha paragonato i giudizi dati da bambini dai 2-5 anni e dai 6-11 anni per verificare un eventuale nesso con il contenuto nutrizionale dei prodotti alimentari e delle bevande in pubblicità visti dai bambini in TV, sia in tutta la programmazione quotidiana, sia nella programmazione loro dedicata.
I valori nutrizionali sono stati attribuiti in base a quelli suggeriti come nutrienti da limitare (NTL) dall’interagenzia federale (GLI), compresi i grassi saturi, grassi trans, zuccheri e sodio. Sono stati così analizzati i dati di esposizione alla programmazione televisiva totale, sia dell’esposizione alla pubblicità nella programmazione dedicata ai bambini relativi al 46,2 % dei bambini dai 2 ai 5 anni di età e al 43,5 % relativi ai bambini da 6 a 11 anni, che hanno partecipato all’indagine.
Si è dimostrato, in sintesi, che tra i bambini 2-5 e 6-11 anni, rispettivamente, l’84,1% e il 84,4 % degli annunci visti su tutta la programmazione e il 95,8 e il 97,3% visti su programmi per bambini erano per i prodotti ad alto contenuto di NTL. Inoltre il 97,8% e il 98,1% dei prodotti visti dai bambini in TV provenivano da annunci pubblicitari di aziende aderenti a un’iniziativa di autoregolamentazione della pubblicità (Food and Beverage Advertising Initiative (CFBAI) in programmi per bambini ed erano per i prodotti ad alto contenuto di NTL, rispetto al 80,5 e il 89,9 % degli annunci di prodotti da aziende che non avevano aderito all’iniziativa (non CFBAI).
Questa indagine ha quindi, nella sostanza, evidenziato che la maggior parte dei prodotti alimentari e delle bevande visti dai bambini negli spot televisivi, non rispettano le raccomandazioni nutrizionali IWG e meno della metà di tali annunci, sono coperti da autoregolamentazione. Tutto ciò conferma che sono necessari attenti monitoraggi della pubblicità proposta in TV per intervenire efficacemente nella prevenzione dell’obesità infantile.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24206260
Child Obes. 2013 Nov 8. [Epub ahead of print]
Nutritional Content of Food and Beverage Products in Television Advertisements Seen on Children's Programming.
Un gruppo di ricercatori americani ha paragonato i giudizi dati da bambini dai 2-5 anni e dai 6-11 anni per verificare un eventuale nesso con il contenuto nutrizionale dei prodotti alimentari e delle bevande in pubblicità visti dai bambini in TV, sia in tutta la programmazione quotidiana, sia nella programmazione loro dedicata.
I valori nutrizionali sono stati attribuiti in base a quelli suggeriti come nutrienti da limitare (NTL) dall’interagenzia federale (GLI), compresi i grassi saturi, grassi trans, zuccheri e sodio. Sono stati così analizzati i dati di esposizione alla programmazione televisiva totale, sia dell’esposizione alla pubblicità nella programmazione dedicata ai bambini relativi al 46,2 % dei bambini dai 2 ai 5 anni di età e al 43,5 % relativi ai bambini da 6 a 11 anni, che hanno partecipato all’indagine.
Si è dimostrato, in sintesi, che tra i bambini 2-5 e 6-11 anni, rispettivamente, l’84,1% e il 84,4 % degli annunci visti su tutta la programmazione e il 95,8 e il 97,3% visti su programmi per bambini erano per i prodotti ad alto contenuto di NTL. Inoltre il 97,8% e il 98,1% dei prodotti visti dai bambini in TV provenivano da annunci pubblicitari di aziende aderenti a un’iniziativa di autoregolamentazione della pubblicità (Food and Beverage Advertising Initiative (CFBAI) in programmi per bambini ed erano per i prodotti ad alto contenuto di NTL, rispetto al 80,5 e il 89,9 % degli annunci di prodotti da aziende che non avevano aderito all’iniziativa (non CFBAI).
Questa indagine ha quindi, nella sostanza, evidenziato che la maggior parte dei prodotti alimentari e delle bevande visti dai bambini negli spot televisivi, non rispettano le raccomandazioni nutrizionali IWG e meno della metà di tali annunci, sono coperti da autoregolamentazione. Tutto ciò conferma che sono necessari attenti monitoraggi della pubblicità proposta in TV per intervenire efficacemente nella prevenzione dell’obesità infantile.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24206260
Child Obes. 2013 Nov 8. [Epub ahead of print]
Nutritional Content of Food and Beverage Products in Television Advertisements Seen on Children's Programming.
Dopamina e dipendenza da cibo
Molti e differenti segnali neurotrasmessi regolano i comportamenti alimentari, supportati da altrettante relazioni emotive che sono alla base della dipendenza da cibo.
In proposito è stata pubblicata una revisione della letteratura focalizzata sul sistema della dopamina (DA) poiché i segnali della rete dopaminergica sembrano strettamente legati alle motivazioni e alle emozioni che condizionano i diversi comportamenti alimentari.
Questo avverrebbe soprattutto nei disordini alimentari caratterizzati da alimentazione compulsiva e anche nell’obesità. In particolare il recettore DA D2 potrebbe essere quello deputato alla food addiction (dipendenza da cibo), dato che è stato dimostrato che l’espressione di tale recettore, in specifiche aree del cervello, risulta alterata, sia nell’obesità, sia nella dipendenza da droghe.
Tutto ciò è stato dimostrato, sia sui ratti, sia sugli umani, utilizzando lo studio per immagini insieme all’analisi genica. Tuttavia questi esperimenti necessitano di ulteriori conferme con la prospettiva di poter essere utilizzati nella diagnosi e nella terapia dei disordini alimentari compulsivi e dell’obesità da iperalimentazione.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24238362
BMB Rep. 2013 Nov 18. pii: 2509. [Epub ahead of print]
Dopamine signaling in Food Addiction: Role of Dopamine D2 receptors.
In proposito è stata pubblicata una revisione della letteratura focalizzata sul sistema della dopamina (DA) poiché i segnali della rete dopaminergica sembrano strettamente legati alle motivazioni e alle emozioni che condizionano i diversi comportamenti alimentari.
Questo avverrebbe soprattutto nei disordini alimentari caratterizzati da alimentazione compulsiva e anche nell’obesità. In particolare il recettore DA D2 potrebbe essere quello deputato alla food addiction (dipendenza da cibo), dato che è stato dimostrato che l’espressione di tale recettore, in specifiche aree del cervello, risulta alterata, sia nell’obesità, sia nella dipendenza da droghe.
Tutto ciò è stato dimostrato, sia sui ratti, sia sugli umani, utilizzando lo studio per immagini insieme all’analisi genica. Tuttavia questi esperimenti necessitano di ulteriori conferme con la prospettiva di poter essere utilizzati nella diagnosi e nella terapia dei disordini alimentari compulsivi e dell’obesità da iperalimentazione.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24238362
BMB Rep. 2013 Nov 18. pii: 2509. [Epub ahead of print]
Dopamine signaling in Food Addiction: Role of Dopamine D2 receptors.
Obesità infantile: le misure accurate
Un aumento della spesa energetica settimanale, attraverso l'attività fisica, oltre a quella scolastica, sembra essenziale per prevenire il sovrappeso e il rischio di obesità infantile.
La prevalenza di sovrappeso e obesità infantile sta aumentando notevolmente in Italia e non solo. In proposito, un gruppo di ricercatori spagnoli ha studiato una coorte di scolari dagli 11 ai 13 anni (n= 137) allo scopo di valutare la relazione tra l'attività, il consumo di energia fisica e lo stato del peso corporeo. Tutti i bambini hanno partecipato allo studio volontariamente (con il consenso paterno) e sono stati classificati in 3 gruppi in base alla loro attività fisica: gruppo dei sedentari, gruppo degli attivi, gruppo degli sportivi. A tutti i partecipanti sono stati misurati: composizione corporea, forma fisica e l'assunzione calorica totale settimanale (assunzione di macronutrienti). Si è così dimostrato che il BMI, la circonferenza della vita, la plicometria e la percentuale di massa grassa, erano inferiori nei bambini attivi, mentre il contenuto di acqua corporea aumentava con l'attività. Le abitudini alimentari erano tuttavia simili nei tre gruppi studiati. Inoltre, sono state trovate differenze significative nel consumo totale quotidiano di energia o nelle percentuali di carboidrati, grassi e proteine consumati. Tutti i parametri relativi alla spesa energetica erano più elevati nei bambini che svolgevano più attività fisica.
Ovvero i bambini con alti livelli di attività fisica, hanno presentato profili antropometrici più favorevoli per la prevenzione del rischio di sovrappeso e obesità. Una prova in più che le misure di composizione corporea sono più accurate e specifiche del solo BMI, nella definizione dello stato nutrizionale, anche nel caso dei bambini.
Fonte:
Ann Nutr Metab. 2013 Oct 26;63(3):223-228. [Epub ahead of print]
Energy Consumption, Body Composition and Physical Activity Levels in 11- to 13-Year-Old Spanish Children.
La prevalenza di sovrappeso e obesità infantile sta aumentando notevolmente in Italia e non solo. In proposito, un gruppo di ricercatori spagnoli ha studiato una coorte di scolari dagli 11 ai 13 anni (n= 137) allo scopo di valutare la relazione tra l'attività, il consumo di energia fisica e lo stato del peso corporeo. Tutti i bambini hanno partecipato allo studio volontariamente (con il consenso paterno) e sono stati classificati in 3 gruppi in base alla loro attività fisica: gruppo dei sedentari, gruppo degli attivi, gruppo degli sportivi. A tutti i partecipanti sono stati misurati: composizione corporea, forma fisica e l'assunzione calorica totale settimanale (assunzione di macronutrienti). Si è così dimostrato che il BMI, la circonferenza della vita, la plicometria e la percentuale di massa grassa, erano inferiori nei bambini attivi, mentre il contenuto di acqua corporea aumentava con l'attività. Le abitudini alimentari erano tuttavia simili nei tre gruppi studiati. Inoltre, sono state trovate differenze significative nel consumo totale quotidiano di energia o nelle percentuali di carboidrati, grassi e proteine consumati. Tutti i parametri relativi alla spesa energetica erano più elevati nei bambini che svolgevano più attività fisica.
Ovvero i bambini con alti livelli di attività fisica, hanno presentato profili antropometrici più favorevoli per la prevenzione del rischio di sovrappeso e obesità. Una prova in più che le misure di composizione corporea sono più accurate e specifiche del solo BMI, nella definizione dello stato nutrizionale, anche nel caso dei bambini.
Fonte:
Ann Nutr Metab. 2013 Oct 26;63(3):223-228. [Epub ahead of print]
Energy Consumption, Body Composition and Physical Activity Levels in 11- to 13-Year-Old Spanish Children.
Colesterolo e rischio cardiovascolare: ultime linee guida
Le novità, in sintesi
Le ultime linee guida ufficiali per l’adulto (Adult Treatment Panel - ATP 3) sono state pubblicate nel 2003 e aggiornate nel 2004, e date le numerose nuove acquisizioni pubblicate, da allora. Così, queste ultime linee guida, costituiscono un cambiamento abbastanza sorprendente, rispetto al passato.
La prima differenza importante, tra queste nuove linee guida e quelle del 2003_2004, è il cambiamento dei target terapeutici raccomandati nel 2004. In altri termini, sono tramontati i target colesterolo LDL e non-HDL. Di fatto, secondo il gruppo di esperti, non vi sono evidenze certe, da studi clinici randomizzati e controllati, che possano sostenere il trattamento per un target specifico. Come risultato, le nuove linee guida non fanno raccomandazioni per specifici obiettivi per colesterolo LDL o non-HDL, sia per la prevenzione primaria, sia per la secondaria, dell’aterosclerosi cardiovascolare.
Invece, le nuove linee guida, focalizzano l’attenzione su quattro gruppi di pazienti adatti alla prevenzione primaria e secondaria, sui quali i medici dovrebbero concentrare i loro sforzi per ridurre gli eventi cardiovascolari. E in questi quattro gruppi di pazienti, le nuove linee guida fanno raccomandazioni riguardanti l’aggressività della terapia con statine al fine di ottenere riduzioni del colesterolo LDL.
I 4 gruppi eligibili al trattamento con statine sono:
- i pazienti con malattia cardiovascolare aterosclerotica clinicamente in atto.
- i soggetti con livelli plasmatici di colesterolo LDL> 190 mg / dL, come quelli con ipercolesterolemia familiare.
- i soggetti con diabete mellito di età compresa tra 40 e 75 anni, con livelli di colesterolo LDL tra i 70 e 189 mg / dL e senza evidenza di malattia cardiovascolare aterosclerotica.
- i soggetti senza evidenze di malattia cardiovascolare o diabete, ma che hanno livelli di colesterolo LDL tra i 70 e 189 mg / dL e un indice di rischio (a 10 anni) per l’insorgenza della malattia cardiovascolare aterosclerotica superiore al 7,5%.
Le ultime linee guida ufficiali per l’adulto (Adult Treatment Panel - ATP 3) sono state pubblicate nel 2003 e aggiornate nel 2004, e date le numerose nuove acquisizioni pubblicate, da allora. Così, queste ultime linee guida, costituiscono un cambiamento abbastanza sorprendente, rispetto al passato.
La prima differenza importante, tra queste nuove linee guida e quelle del 2003_2004, è il cambiamento dei target terapeutici raccomandati nel 2004. In altri termini, sono tramontati i target colesterolo LDL e non-HDL. Di fatto, secondo il gruppo di esperti, non vi sono evidenze certe, da studi clinici randomizzati e controllati, che possano sostenere il trattamento per un target specifico. Come risultato, le nuove linee guida non fanno raccomandazioni per specifici obiettivi per colesterolo LDL o non-HDL, sia per la prevenzione primaria, sia per la secondaria, dell’aterosclerosi cardiovascolare.
Invece, le nuove linee guida, focalizzano l’attenzione su quattro gruppi di pazienti adatti alla prevenzione primaria e secondaria, sui quali i medici dovrebbero concentrare i loro sforzi per ridurre gli eventi cardiovascolari. E in questi quattro gruppi di pazienti, le nuove linee guida fanno raccomandazioni riguardanti l’aggressività della terapia con statine al fine di ottenere riduzioni del colesterolo LDL.
I 4 gruppi eligibili al trattamento con statine sono:
- i pazienti con malattia cardiovascolare aterosclerotica clinicamente in atto.
- i soggetti con livelli plasmatici di colesterolo LDL> 190 mg / dL, come quelli con ipercolesterolemia familiare.
- i soggetti con diabete mellito di età compresa tra 40 e 75 anni, con livelli di colesterolo LDL tra i 70 e 189 mg / dL e senza evidenza di malattia cardiovascolare aterosclerotica.
- i soggetti senza evidenze di malattia cardiovascolare o diabete, ma che hanno livelli di colesterolo LDL tra i 70 e 189 mg / dL e un indice di rischio (a 10 anni) per l’insorgenza della malattia cardiovascolare aterosclerotica superiore al 7,5%.
Prevenzione cardiovascolare: lo stile e la dieta
Le novità in sintesi
Le nuove raccomandazioni riguardano le abitudini alimentari, l’assunzione di nutrienti, i livelli e i tipi di attività fisica che possono svolgere un ruolo importante nella prevenzione delle malattie cardiovascolari, e nel trattamento dei fattori di rischio modificabili: colesterolo LDL e ipertensione.
In proposito 3 sono le raccomandazioni principali:
- adottare un modello alimentare ricco di frutta, verdura, cereali integrali, pesce, latticini a basso contenuto di grassi, pollame magro, noci , legumi e oli vegetali, in accordo con un modello mediterraneo o DASH.
- imitare il consumo di grassi saturi, grassi trans, dolciumi, bevande zuccherate, e di sodio.
- impegnarsi con costanza in attività fisica aerobica d’intensità da moderata a vigorosa, della durata di 40 minuti per sessione, per 3-4 volte la settimana.
In termini pratici, le nuove linee guida, rilevano l’efficacia dei modelli alimentari in stile mediterraneo, che superano le diete a basso contenuto di grassi, anche se i prodotti lattiero-caseari a basso contenuto di grassi fanno parte delle raccomandazioni. Nello specifico, non ci sono raccomandazioni per ridurre il consumo complessivo di grassi, ma per ridurre la percentuale di calorie consumate dai grassi saturi e trans.
Notevoli sono le raccomandazioni per ridurre il consumo di sodio, tenendo conto che queste nuove raccomandazioni dietetiche riguardano in particolare le persone già identificate come a rischio, per esempio i soggetti con pre-ipertensione o con ipertensione manifesta. E in proposito è necessario sensibilizzare anche le industrie alimentari, visto che una buona percentuale del consumo di sodio in eccesso deriva dai prodotti trasformati.
Le nuove raccomandazioni riguardano le abitudini alimentari, l’assunzione di nutrienti, i livelli e i tipi di attività fisica che possono svolgere un ruolo importante nella prevenzione delle malattie cardiovascolari, e nel trattamento dei fattori di rischio modificabili: colesterolo LDL e ipertensione.
In proposito 3 sono le raccomandazioni principali:
- adottare un modello alimentare ricco di frutta, verdura, cereali integrali, pesce, latticini a basso contenuto di grassi, pollame magro, noci , legumi e oli vegetali, in accordo con un modello mediterraneo o DASH.
- imitare il consumo di grassi saturi, grassi trans, dolciumi, bevande zuccherate, e di sodio.
- impegnarsi con costanza in attività fisica aerobica d’intensità da moderata a vigorosa, della durata di 40 minuti per sessione, per 3-4 volte la settimana.
In termini pratici, le nuove linee guida, rilevano l’efficacia dei modelli alimentari in stile mediterraneo, che superano le diete a basso contenuto di grassi, anche se i prodotti lattiero-caseari a basso contenuto di grassi fanno parte delle raccomandazioni. Nello specifico, non ci sono raccomandazioni per ridurre il consumo complessivo di grassi, ma per ridurre la percentuale di calorie consumate dai grassi saturi e trans.
Notevoli sono le raccomandazioni per ridurre il consumo di sodio, tenendo conto che queste nuove raccomandazioni dietetiche riguardano in particolare le persone già identificate come a rischio, per esempio i soggetti con pre-ipertensione o con ipertensione manifesta. E in proposito è necessario sensibilizzare anche le industrie alimentari, visto che una buona percentuale del consumo di sodio in eccesso deriva dai prodotti trasformati.
Bambini obesi: il pasto dopo l'attività fisica
Per i bambini obesi, dopo l’attività fisica, un pasto ricco di carboidrati e povero di grassi sembra favorire l’equilibrio metabolico.
Dopo un esercizio fisico d’intensità moderata gli effetti di due pasti con uguale ammontare calorico sono stati valutati in 10 bambini obesi in età prepubere, però, un pasto era a basso contenuto di grassi/ricco di carboidrati (pasto A) e l’altro a elevato contenuto di grassi/basso contenuto di carboidrati (pasto B).
Al termine dell’osservazione, dopo le analisi ematochimiche, si è così, in sostanza, dimostrato un maggiore equilibrio di grassi e minore equilibrio di carboidrati dopo pasto B rispetto A e, di contro, un maggiore equilibrio energetico dopo pasto B rispetto a dopo il pasto A.
Inoltre, le concentrazioni plasmatiche dei trigliceridi erano più elevate dopo il pasto B rispetto al pasto A. Secondo gli autori, dunque, dopo un periodo di esercizio d’intensità moderata, un pasto con un alto contenuto di grassi / basso contenuto di carboidrati ha avuto un impatto metabolico meno favorevole rispetto a un pasto con meno grassi e ricco di carboidrati.
Fonte:
http://www.nature.com/ejcn/journal/v67/n7/abs/ejcn201386a.html?WT.ec_id=EJCN-201307
Original Article
European Journal of Clinical Nutrition (2013) 67, 725–731; doi:10.1038/ejcn.2013.86;
Food and health
Metabolic and hormonal consequences of two different meals after a moderate intensity exercise bout in obese prepubertal children
Dopo un esercizio fisico d’intensità moderata gli effetti di due pasti con uguale ammontare calorico sono stati valutati in 10 bambini obesi in età prepubere, però, un pasto era a basso contenuto di grassi/ricco di carboidrati (pasto A) e l’altro a elevato contenuto di grassi/basso contenuto di carboidrati (pasto B).
Al termine dell’osservazione, dopo le analisi ematochimiche, si è così, in sostanza, dimostrato un maggiore equilibrio di grassi e minore equilibrio di carboidrati dopo pasto B rispetto A e, di contro, un maggiore equilibrio energetico dopo pasto B rispetto a dopo il pasto A.
Inoltre, le concentrazioni plasmatiche dei trigliceridi erano più elevate dopo il pasto B rispetto al pasto A. Secondo gli autori, dunque, dopo un periodo di esercizio d’intensità moderata, un pasto con un alto contenuto di grassi / basso contenuto di carboidrati ha avuto un impatto metabolico meno favorevole rispetto a un pasto con meno grassi e ricco di carboidrati.
Fonte:
http://www.nature.com/ejcn/journal/v67/n7/abs/ejcn201386a.html?WT.ec_id=EJCN-201307
Original Article
European Journal of Clinical Nutrition (2013) 67, 725–731; doi:10.1038/ejcn.2013.86;
Food and health
Metabolic and hormonal consequences of two different meals after a moderate intensity exercise bout in obese prepubertal children
Il ferro e il Parkinson
Anche se i livelli di ferro appaiono aumentati nel cervello dei pazienti con malattia di Parkinson (PD), le evidenze sugli effetti del ferro e il rischio PD sono scarse e con risultati contrastanti.
Per fare chiarezza in proposito è stata condotta una meta-analisi sugli effetti del ferro sierico nel genoma di 21.567 persone, mentre le stime sul rischio di PD sono state ottenute attraverso la meta-analisi di studi gene-genoma e candidato PD di 20.809 casi di PD e 88.892 controlli. Sorprendentemente la stima combinata ha mostrato un effetto protettivo statisticamente significativo del ferro, con una riduzione del rischio relativo per PD del 3% (IC 95% 1% -6%, p = 0,001) per ogni 10 mg / dl aumento di ferro sierico.
Secondo gli autori, seppure con cautela, questi risultati suggeriscono che un aumento dei livelli di ferro è solo causalmente associato a un ridotto rischio di sviluppare la malattia di Parkinson. Tuttavia, ulteriori studi sono necessari per comprendere il meccanismo fisiopatologico di azione del ferro sierico sul rischio PD prima di poter fare raccomandazioni di qualsiasi genere riguardo gli apporti di ferro.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23750121
PLoS Med. 2013 Jun;10(6):e1001462. doi: 10.1371/journal.pmed.1001462. Epub 2013 Jun 4.
Serum iron levels and the risk of Parkinson disease: a mendelian randomization study.
Per fare chiarezza in proposito è stata condotta una meta-analisi sugli effetti del ferro sierico nel genoma di 21.567 persone, mentre le stime sul rischio di PD sono state ottenute attraverso la meta-analisi di studi gene-genoma e candidato PD di 20.809 casi di PD e 88.892 controlli. Sorprendentemente la stima combinata ha mostrato un effetto protettivo statisticamente significativo del ferro, con una riduzione del rischio relativo per PD del 3% (IC 95% 1% -6%, p = 0,001) per ogni 10 mg / dl aumento di ferro sierico.
Secondo gli autori, seppure con cautela, questi risultati suggeriscono che un aumento dei livelli di ferro è solo causalmente associato a un ridotto rischio di sviluppare la malattia di Parkinson. Tuttavia, ulteriori studi sono necessari per comprendere il meccanismo fisiopatologico di azione del ferro sierico sul rischio PD prima di poter fare raccomandazioni di qualsiasi genere riguardo gli apporti di ferro.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23750121
PLoS Med. 2013 Jun;10(6):e1001462. doi: 10.1371/journal.pmed.1001462. Epub 2013 Jun 4.
Serum iron levels and the risk of Parkinson disease: a mendelian randomization study.
Stop alle false promesse
L’Antitrust ha accolto la segnalazione del Codici (Centro per i diritti del cittadino) riconoscendo come ingannevoli le pubblicità di molti prodotti dimagranti.
Le frasi pubblicitarie del tipo “Più mangi più dimagrisci”, “Perdi un chilo al giorno”, “Elisir unico al mondo” sono ingannevoli, secondo l’Antitrust, in quanto forniscono false informazioni ai consumatori, a partire dalle promesse sul dimagramento rapido. Tali promesse sono prive di fondamento scientifico e assolutamente impossibili da adattare a qualsiasi soggetto in sovrappeso.
Il Codici ha raccolto numerosi esempi di pubblicità palesemente non veritiere e ha inviato una segnalazione all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che ha accolto in pieno le contestazioni dichiarando le pubblicità ingannevoli. I prodotti nel mirino sono: Accuslim, Af6 Super Slim, Aha Force 7, Braziol 5, Caloslim XS, Easy to Slim 5, Equibioslim, Kill Kilo, Kilo-Hunter, L.A. Looks Body Wrap, Slim Bool, Slim Effect 24 H, Slim Patch, Slimadvance, Xtra Light, Zactiva, Slim Plus, Soludrena, XantoSlim, Asparagus Lipo, Wakame, Gastrobioring, Extra Goemon, Acero di Sidro, LunaSlim, Bromelina, Ciblaction, CherrySlim, Mincimax.
Ivano Giacomelli, segretario nazionale del Codici, assicura che il Garante ha disposto la sospensione di tutte le attività di promozione dei prodotti dimagranti segnalati (commercializzazione tramite siti internet, lettere di accompagnamento dei prodotti, invio di mail con newsletter). Purtroppo, nonostante l’attenzione dell’Autorità e le segnalazioni del Codici, il tormentone mediatico sui prodotti dimagranti sembra non avere fine.
Fonte:
http://www.helpconsumatori.it/alimentazione/dimagranti-antitrust-accoglie-denuncia-del-codici-stop-a-promesse-miracolose/69286
Dimagranti24/06/2013 - 17:29 - Redattore: GA, Antitrust accoglie denuncia Codici: stop a promesse miracolose
Le frasi pubblicitarie del tipo “Più mangi più dimagrisci”, “Perdi un chilo al giorno”, “Elisir unico al mondo” sono ingannevoli, secondo l’Antitrust, in quanto forniscono false informazioni ai consumatori, a partire dalle promesse sul dimagramento rapido. Tali promesse sono prive di fondamento scientifico e assolutamente impossibili da adattare a qualsiasi soggetto in sovrappeso.
Il Codici ha raccolto numerosi esempi di pubblicità palesemente non veritiere e ha inviato una segnalazione all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che ha accolto in pieno le contestazioni dichiarando le pubblicità ingannevoli. I prodotti nel mirino sono: Accuslim, Af6 Super Slim, Aha Force 7, Braziol 5, Caloslim XS, Easy to Slim 5, Equibioslim, Kill Kilo, Kilo-Hunter, L.A. Looks Body Wrap, Slim Bool, Slim Effect 24 H, Slim Patch, Slimadvance, Xtra Light, Zactiva, Slim Plus, Soludrena, XantoSlim, Asparagus Lipo, Wakame, Gastrobioring, Extra Goemon, Acero di Sidro, LunaSlim, Bromelina, Ciblaction, CherrySlim, Mincimax.
Ivano Giacomelli, segretario nazionale del Codici, assicura che il Garante ha disposto la sospensione di tutte le attività di promozione dei prodotti dimagranti segnalati (commercializzazione tramite siti internet, lettere di accompagnamento dei prodotti, invio di mail con newsletter). Purtroppo, nonostante l’attenzione dell’Autorità e le segnalazioni del Codici, il tormentone mediatico sui prodotti dimagranti sembra non avere fine.
Fonte:
http://www.helpconsumatori.it/alimentazione/dimagranti-antitrust-accoglie-denuncia-del-codici-stop-a-promesse-miracolose/69286
Dimagranti24/06/2013 - 17:29 - Redattore: GA, Antitrust accoglie denuncia Codici: stop a promesse miracolose
Consumi di tè e caffè negli anziani
In numerosi studi i consumi di tè e caffè sono stati inversamente associati alla mortalità. Ma il meccanismo protettivo sotteso non è ancora ben chiaro.
Un gruppo di ricercatori americani ha tentato di approfondire la questione utilizzando i dati relativi ai consumi dei già partecipanti allo studio Northern Manhattan. Sono stati, quindi, selezionati 2.461 soggetti anziani che al tempo 0 erano liberi da ictus, infarto miocardico e cancro (età media 68,30 ± 10,23 anni, 36% uomini, 19% bianchi, 23% neri, 56% ispanici).
Nel corso di un follow-up medio di 11 anni, sono state valutate le eventuali associazioni tra le frequenze dei consumi di tè e caffè (con e senza caffeina) rispetto a 863 decessi (342 correlati a malattie vascolari e 444 non correlati, compresi 160 decessi per cancro), Si è così evidenziato, in sintesi, che il consumo di caffè era inversamente associato con la mortalità per qualsiasi causa.
In particolare il consumo di caffè con caffeina è risultato inversamente associato con la mortalità per qualsiasi causa, con tendenza a una forte protezione tra coloro che hanno bevuto ≥ 4 tazze/d. Inoltre, si evidenziava un’associazione inversa dose-risposta tra il consumo di tè la e mortalità per qualsiasi causa. Infine, solo negli ispanici, si evidenziava una forte associazione inversa tra il consumo di caffè e la mortalità per cause vascolari.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23784068
J Nutr. 2013 Jun 19. [Epub ahead of print]
Coffee and Tea Consumption Are Inversely Associated with Mortality in a Multiethnic Urban Population.
Un gruppo di ricercatori americani ha tentato di approfondire la questione utilizzando i dati relativi ai consumi dei già partecipanti allo studio Northern Manhattan. Sono stati, quindi, selezionati 2.461 soggetti anziani che al tempo 0 erano liberi da ictus, infarto miocardico e cancro (età media 68,30 ± 10,23 anni, 36% uomini, 19% bianchi, 23% neri, 56% ispanici).
Nel corso di un follow-up medio di 11 anni, sono state valutate le eventuali associazioni tra le frequenze dei consumi di tè e caffè (con e senza caffeina) rispetto a 863 decessi (342 correlati a malattie vascolari e 444 non correlati, compresi 160 decessi per cancro), Si è così evidenziato, in sintesi, che il consumo di caffè era inversamente associato con la mortalità per qualsiasi causa.
In particolare il consumo di caffè con caffeina è risultato inversamente associato con la mortalità per qualsiasi causa, con tendenza a una forte protezione tra coloro che hanno bevuto ≥ 4 tazze/d. Inoltre, si evidenziava un’associazione inversa dose-risposta tra il consumo di tè la e mortalità per qualsiasi causa. Infine, solo negli ispanici, si evidenziava una forte associazione inversa tra il consumo di caffè e la mortalità per cause vascolari.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23784068
J Nutr. 2013 Jun 19. [Epub ahead of print]
Coffee and Tea Consumption Are Inversely Associated with Mortality in a Multiethnic Urban Population.
Diete di moda: attenti alla salute!
Il desiderio di avere una figura più snella è una tentazione cui pochi sanno resistere, e mettersi a dieta è ormai di moda. Ce n’è per tutti i gusti, dalla dieta mono-alimento a quella del digiuno intermittente, per non parlare di quelle griffate. Ma quale scegliere senza rischiare la salute?
In vetrina
La dieta mono-alimento: è molto semplice, basta mangiare a volontà un unico alimento, però escludendo tutti gli altri. Per esempio, solo minestrone, solo banane, solo pompelmi e così via. Certo gli zuccheri, qualche minerale, le vitamine e le fibre non mancheranno, ma gli altri nutrienti? In pratica si tratta di una dieta fortemente sbilanciata e quindi dannosa perché espone l’organismo a carenze nutritive importanti, sia nel breve, sia nel lungo termine.
La dieta dei 6 pasti al giorno: cioè pasti piccoli e frequenti, e ogni pasto deve essere variato e contenere pane, pasta o riso, carne, pesce o latticini, frutta e verdura. Niente di sbagliato, dunque, all’apparenza! Però se si valuta con più attenzione il menù di una giornata tipo qualche problema c’è, specie per chi deve perdere peso. La prima colazione è a base di cereali, marmellata o miele e un caffellatte; in tarda mattinata si mangia un frutto; alle 14 il pranzo, alle 17 di nuovo un frutto e alle 20 una cena leggera con un secondo e un contorno. L’ultimo pasto della giornata si fa prima di andare a letto: un tè, uno yogurt e un frutto. Per bilanciare bene il tutto si arriva così, tranquillamente, a circa 2.400 Kcalorie al giorno. Un po’ troppe! Se si prova a tagliare le porzioni, a scopo dimagrante, si ridurranno di molto anche le calorie, sbilanciando per primi i fabbisogni energetici quotidiani. Così dopo 3 giorni la dieta diventa insostenibile.
La dieta macrobiotica: mangiare in abbondanza cereali integrali e ortaggi purchè non sottoposti a manipolazioni industriali e solo se privi di additivi chimici (riso, avena, segale, grano saraceno, zuppe di verdure, verdure di stagione fresche, cotte o crude, legumi). Sono consentiti, ma in quantità molto limitate, il latte, i latticini e le uova. Il pesce sì, la carne no. I cibi possono essere insaporiti solo con sale marino integrale, olio di semi vari, olio di oliva spremuto a freddo. È utile per tenere sotto controllo il colesterolo e ridurre il rischio cardiovascolare, ma niente pane e pasta sbilanciano la dieta.
La dieta Zona: si basa su uno schema di frazionamento giornaliero dei macronutrienti molto preciso. A ogni pasto il 40% delle calorie deve derivare dai carboidrati; il 30% dai grassi; il 30% dalle proteine, decisamente troppe rispetto alle raccomandazioni per una dieta sana. Da limitare al massimo, tutti gli alimenti con un indice glicemico (capacità di un alimento d’innalzare la glicemia - cioè la misura del livello del glucosio nel sangue) alto: farine raffinate, riso, pane, pasta, dolciumi, mais, patate. Si possono mangiare carne, pesce, latticini magri, uova e frutta con guscio. Oltre alle troppe proteine, è bene sapere che senza i carboidrati complessi del pane e della pasta si rischia di bruciare i grassi troppo in fretta e poi ne soffre anche la muscolatura, cioè la massa magra.
La tisanoreica: più che una dieta una “filosofia di vita al naturale”, come imbonisce nella pubblicità l’inventore del metodo. Comunque la dieta Tisanoreica, filosofia a parte, è fortemente sbilanciata per quanto riguarda le proteine che, tra l’altro, provengono quasi esclusivamente dai vegetali, meglio se si tratta di prodotti a marchio Tisanoreica, come si raccomanda negli spot televisivi. Certo la perdita di peso in breve tempo è assicurata, ma questo effetto dura relativamente poco, qualche settimana o qualche mese al massimo. Poi i risultati della Tisanoreica sono gli stessi delle altre diete ipocaloriche sbilanciate, ma con un problema in più. Tornare a una dieta normale è più difficile perché un conto è mangiare un alimento della linea Tisanoreica, per esempio una pasta che non è vera pasta, e un altro conto è la pasta tradizionale. Come dice bene il professor Lucio Lucchin (Direttore del Servizio di Dietetica e Nutrizione Clinica dell'Azienda Sanitaria di Bolzano) “è proprio nel ritorno alla routinealimentare che il seguace della tisanoreica rischia di riprendere peso”.
La dieta Dukan: tanto famosa tra i VIP per la rapida perdita di peso, quanto ormai famigerata, per l’inventore, radiato dall’albo dei medici francese per abuso della professione utilizzata a scopo commerciale e poco deontologico. Si divide in quattro fasi: attacco, regime di “crociera”, consolidamento e stabilizzazione. Porta a perdere subito molti chili, ma è troppo ricca di proteine (circa il triplo della percentuale raccomandata per una persona sana e soprattutto provenienti dalla carne) e povera di fibre, carboidrati, vitamine e minerali. La perdita di peso è molto rapida, il che può condurre anche a grave perdita di forza muscolare. È assolutamente inadatta a chi ha problemi di colesterolo e provoca stipsi ostinata (stitichezza).
La dieta Scarsdale: fu ideata da un medico americano che osservò il regime alimentare dei soldati in Vietnam. Si basa su un regime di iponutrizione, che elimina completamente zuccheri e grassi, favorendo l’assunzione di proteine. In questo modo il corpo attinge alle riserve e si può dimagrire fino a dieci chili in due settimane. I difetti sono almeno due: troppo scarso l’apporto di carboidrati è troppo poche le calorie quotidiane (800-1200 Kcal al giorno). Quindi pericolosa per tutti, a meno che non si tratti di persone ospedalizzate, immobili e sotto stretto controllo medico, assolutamente inadatta ai diabetici.
La dieta del gruppo sanguigno si basa sulla convinzione che in ogni gruppo sanguigno (0, A, B e AB) si riflettano particolari tendenze alimentari. Ad esempio, chi appartiene al gruppo 0 dovrebbe consumare più carne e ridurre latticini e cereali. Chi appartiene al gruppo A dovrebbe privilegiare proteine vegetali. Chi appartiene al gruppo B deve variare molto l’alimentazione tra carne, pesce, verdure e cereali. Il gruppo AB, invece, è a metà tra il gruppo A e quello B e deve seguire una dieta equilibrata. In altri termini non si considerano i fabbisogni soggettivi, ma si fanno delle previsioni basate su pregiudizi non documentati.
La dieta crono-nutrizione: promette faville a chi vuole modellare il proprio corpo in modo mirato. L’alimentazione viene bilanciata in base all’orologio biologico e si assumono i nutrienti nei momenti giusti della giornata. Per esempio, i grassi soltanto la mattina, a pranzo un pasto particolarmente energetico, la merenda è dolce e la cena leggera. Nonostante le apparenze, anche questa è una dieta fortemente ipocalorica, inadatta, per esempio, agli sportivi.
Le diete delle star di Hollywood: sono tra le più controindicate dato che, come tutti sanno, le star seguono regimi alimentari improponibili per apparire perfette in pochissimo tempo. Tra queste una dieta molto amata a Hollywood è quella delle fibre: le fibre saziano, rallentano il passaggio degli zuccheri nel sangue, facilitano l’eliminazione dei grassi. Tuttavia, chi soffre di disturbi intestinali (intestino irritabile) non può certo seguire una dieta del genere.
Ultima nata, la dieta del digiuno intermittente o fast diet: arriva dalla Gran Bretagna, proposta dal giornalista della BBC Michael Mosley, e consite, in pratica, nelmangiare regolarmente per 5 giorni consecutivi intervallandoli con 2 giorni la settimana di quasi digiuno. La perdita di peso è incoraggiante e rapida, dunque il successo è assicurato. Michael Mosley in una video-intervista pubblicata sul sito della BBC in gennaio 2013, si mostra entusiasta e afferma che la sua dieta fast (detta anche 5:2) è veramente efficace e assolutamente sostenibile. Ma in soldoni, nelle giornate del digiuno l’intake calorico totale quotidiano (rigorosamente non più di 500Kcal per le donne e 600Kcal per gli uomini) va ripartito in due pasti; prima colazione e cena. Si mangiano, per esempio, uova sode e prosciutto al mattino, pesce bollito e verdure scondite alla sera, bevendo sempre molta acqua e tisane.
E poi vengono i 5 giorni della rivincita, durante i quali ci si può permettere di tutto, sia pur con moderazione. Al di là della proposta del digiuno per due giorni la settimana, che di per sé, appare già insostenibile ai più, o almeno per chi non può starsene a riposo tutto il giorno, questa fast diet non si discosta molto da tutte le altre diete alla moda: nel lungo termine deludenti per il riguadagno del peso perso, fortemente sbilanciate (troppe proteine animali e pochi carboidrati) nei nutrienti base e nell’insieme, comunque insane.
E allora?
Ricordando che una dieta sana ed equilibrata prevede che ogni giorno si mangino tutti i nutrienti, e nelle giuste proporzioni, è necessario ribadire che nel mare delle diete alla moda la sola che si salva è la dieta mediterranea. Ma attenti alle porzioni!
Senza dubbio, la dieta mediterranea è un regime ideale che molti c’invidiano. La percentuale dei nutrienti raccomandata ogni giorno è la seguente: il 55-60% di carboidrati, il 25-30% di grassi e il 15%-18 di proteine. Il tutto va distribuito secondo lo schema della piramide alimentare: alla base frutta e verdura di stagione da consumare in abbondanza (5 porzioni al giorno) - seguono dal basso verso l’alto, pasta, riso, cereali e derivati ogni giorno – poi carne bianca, pesce, legumi, latte o latticini, uova da alternare un pasto al giorno per un paio di volte a settimana – in cima grassi e zuccheri in quantità moderate ogni giorno (olio di oliva).
Insomma, la dieta mediterranea è quella giusta: varia, equilibrata, corretta, gustosa, e completa. È importante per la prevenzione di molte malattie e per mantenersi in forma il più a lungo possibile, ritardando gli effetti dell’invecchiamento. Ma non bisogna esagerare con le quantità, specie per i carboidrati complessi (pasta e pane) e per gli zuccheri semplici (frutta).
Concludendo…
In somma, scartate tutte le diete alla moda, per lo più improvvisate e insane, e salvata la mediterranea, seppure nelle giuste proporzioni, chi desidera dimagrire senza rischi per la salute non può che affidarsi a uno specialista qualificato che dopo le misure del caso potrà programmare una dieta personalizzata, bilanciata e salutare.
Fonti:
http://staibene.libero.it/alimentazione/guide/single_voce/article/le_diete_migliori_per_dimagrire_e_rimanere_in_forma/?f=dtm
http://www.obesita.it/html/approfondimenti/it/naturale_e_salutare.asp
http://www.lanutrizione.it/html/approfondimenti/it/diete_improvvisate_una_minaccia_per_la_salute.asp
http://www.obesita.it/html/approfondimenti/it/diete_rischiose_il_caso_dukan.asp
http://www.obesita.it/html/approfondimenti/it/la_tisanoreica_poche_calorie_pochi_chili_e_poca_salute.asp
In vetrina
La dieta mono-alimento: è molto semplice, basta mangiare a volontà un unico alimento, però escludendo tutti gli altri. Per esempio, solo minestrone, solo banane, solo pompelmi e così via. Certo gli zuccheri, qualche minerale, le vitamine e le fibre non mancheranno, ma gli altri nutrienti? In pratica si tratta di una dieta fortemente sbilanciata e quindi dannosa perché espone l’organismo a carenze nutritive importanti, sia nel breve, sia nel lungo termine.
La dieta dei 6 pasti al giorno: cioè pasti piccoli e frequenti, e ogni pasto deve essere variato e contenere pane, pasta o riso, carne, pesce o latticini, frutta e verdura. Niente di sbagliato, dunque, all’apparenza! Però se si valuta con più attenzione il menù di una giornata tipo qualche problema c’è, specie per chi deve perdere peso. La prima colazione è a base di cereali, marmellata o miele e un caffellatte; in tarda mattinata si mangia un frutto; alle 14 il pranzo, alle 17 di nuovo un frutto e alle 20 una cena leggera con un secondo e un contorno. L’ultimo pasto della giornata si fa prima di andare a letto: un tè, uno yogurt e un frutto. Per bilanciare bene il tutto si arriva così, tranquillamente, a circa 2.400 Kcalorie al giorno. Un po’ troppe! Se si prova a tagliare le porzioni, a scopo dimagrante, si ridurranno di molto anche le calorie, sbilanciando per primi i fabbisogni energetici quotidiani. Così dopo 3 giorni la dieta diventa insostenibile.
La dieta macrobiotica: mangiare in abbondanza cereali integrali e ortaggi purchè non sottoposti a manipolazioni industriali e solo se privi di additivi chimici (riso, avena, segale, grano saraceno, zuppe di verdure, verdure di stagione fresche, cotte o crude, legumi). Sono consentiti, ma in quantità molto limitate, il latte, i latticini e le uova. Il pesce sì, la carne no. I cibi possono essere insaporiti solo con sale marino integrale, olio di semi vari, olio di oliva spremuto a freddo. È utile per tenere sotto controllo il colesterolo e ridurre il rischio cardiovascolare, ma niente pane e pasta sbilanciano la dieta.
La dieta Zona: si basa su uno schema di frazionamento giornaliero dei macronutrienti molto preciso. A ogni pasto il 40% delle calorie deve derivare dai carboidrati; il 30% dai grassi; il 30% dalle proteine, decisamente troppe rispetto alle raccomandazioni per una dieta sana. Da limitare al massimo, tutti gli alimenti con un indice glicemico (capacità di un alimento d’innalzare la glicemia - cioè la misura del livello del glucosio nel sangue) alto: farine raffinate, riso, pane, pasta, dolciumi, mais, patate. Si possono mangiare carne, pesce, latticini magri, uova e frutta con guscio. Oltre alle troppe proteine, è bene sapere che senza i carboidrati complessi del pane e della pasta si rischia di bruciare i grassi troppo in fretta e poi ne soffre anche la muscolatura, cioè la massa magra.
La tisanoreica: più che una dieta una “filosofia di vita al naturale”, come imbonisce nella pubblicità l’inventore del metodo. Comunque la dieta Tisanoreica, filosofia a parte, è fortemente sbilanciata per quanto riguarda le proteine che, tra l’altro, provengono quasi esclusivamente dai vegetali, meglio se si tratta di prodotti a marchio Tisanoreica, come si raccomanda negli spot televisivi. Certo la perdita di peso in breve tempo è assicurata, ma questo effetto dura relativamente poco, qualche settimana o qualche mese al massimo. Poi i risultati della Tisanoreica sono gli stessi delle altre diete ipocaloriche sbilanciate, ma con un problema in più. Tornare a una dieta normale è più difficile perché un conto è mangiare un alimento della linea Tisanoreica, per esempio una pasta che non è vera pasta, e un altro conto è la pasta tradizionale. Come dice bene il professor Lucio Lucchin (Direttore del Servizio di Dietetica e Nutrizione Clinica dell'Azienda Sanitaria di Bolzano) “è proprio nel ritorno alla routinealimentare che il seguace della tisanoreica rischia di riprendere peso”.
La dieta Dukan: tanto famosa tra i VIP per la rapida perdita di peso, quanto ormai famigerata, per l’inventore, radiato dall’albo dei medici francese per abuso della professione utilizzata a scopo commerciale e poco deontologico. Si divide in quattro fasi: attacco, regime di “crociera”, consolidamento e stabilizzazione. Porta a perdere subito molti chili, ma è troppo ricca di proteine (circa il triplo della percentuale raccomandata per una persona sana e soprattutto provenienti dalla carne) e povera di fibre, carboidrati, vitamine e minerali. La perdita di peso è molto rapida, il che può condurre anche a grave perdita di forza muscolare. È assolutamente inadatta a chi ha problemi di colesterolo e provoca stipsi ostinata (stitichezza).
La dieta Scarsdale: fu ideata da un medico americano che osservò il regime alimentare dei soldati in Vietnam. Si basa su un regime di iponutrizione, che elimina completamente zuccheri e grassi, favorendo l’assunzione di proteine. In questo modo il corpo attinge alle riserve e si può dimagrire fino a dieci chili in due settimane. I difetti sono almeno due: troppo scarso l’apporto di carboidrati è troppo poche le calorie quotidiane (800-1200 Kcal al giorno). Quindi pericolosa per tutti, a meno che non si tratti di persone ospedalizzate, immobili e sotto stretto controllo medico, assolutamente inadatta ai diabetici.
La dieta del gruppo sanguigno si basa sulla convinzione che in ogni gruppo sanguigno (0, A, B e AB) si riflettano particolari tendenze alimentari. Ad esempio, chi appartiene al gruppo 0 dovrebbe consumare più carne e ridurre latticini e cereali. Chi appartiene al gruppo A dovrebbe privilegiare proteine vegetali. Chi appartiene al gruppo B deve variare molto l’alimentazione tra carne, pesce, verdure e cereali. Il gruppo AB, invece, è a metà tra il gruppo A e quello B e deve seguire una dieta equilibrata. In altri termini non si considerano i fabbisogni soggettivi, ma si fanno delle previsioni basate su pregiudizi non documentati.
La dieta crono-nutrizione: promette faville a chi vuole modellare il proprio corpo in modo mirato. L’alimentazione viene bilanciata in base all’orologio biologico e si assumono i nutrienti nei momenti giusti della giornata. Per esempio, i grassi soltanto la mattina, a pranzo un pasto particolarmente energetico, la merenda è dolce e la cena leggera. Nonostante le apparenze, anche questa è una dieta fortemente ipocalorica, inadatta, per esempio, agli sportivi.
Le diete delle star di Hollywood: sono tra le più controindicate dato che, come tutti sanno, le star seguono regimi alimentari improponibili per apparire perfette in pochissimo tempo. Tra queste una dieta molto amata a Hollywood è quella delle fibre: le fibre saziano, rallentano il passaggio degli zuccheri nel sangue, facilitano l’eliminazione dei grassi. Tuttavia, chi soffre di disturbi intestinali (intestino irritabile) non può certo seguire una dieta del genere.
Ultima nata, la dieta del digiuno intermittente o fast diet: arriva dalla Gran Bretagna, proposta dal giornalista della BBC Michael Mosley, e consite, in pratica, nelmangiare regolarmente per 5 giorni consecutivi intervallandoli con 2 giorni la settimana di quasi digiuno. La perdita di peso è incoraggiante e rapida, dunque il successo è assicurato. Michael Mosley in una video-intervista pubblicata sul sito della BBC in gennaio 2013, si mostra entusiasta e afferma che la sua dieta fast (detta anche 5:2) è veramente efficace e assolutamente sostenibile. Ma in soldoni, nelle giornate del digiuno l’intake calorico totale quotidiano (rigorosamente non più di 500Kcal per le donne e 600Kcal per gli uomini) va ripartito in due pasti; prima colazione e cena. Si mangiano, per esempio, uova sode e prosciutto al mattino, pesce bollito e verdure scondite alla sera, bevendo sempre molta acqua e tisane.
E poi vengono i 5 giorni della rivincita, durante i quali ci si può permettere di tutto, sia pur con moderazione. Al di là della proposta del digiuno per due giorni la settimana, che di per sé, appare già insostenibile ai più, o almeno per chi non può starsene a riposo tutto il giorno, questa fast diet non si discosta molto da tutte le altre diete alla moda: nel lungo termine deludenti per il riguadagno del peso perso, fortemente sbilanciate (troppe proteine animali e pochi carboidrati) nei nutrienti base e nell’insieme, comunque insane.
E allora?
Ricordando che una dieta sana ed equilibrata prevede che ogni giorno si mangino tutti i nutrienti, e nelle giuste proporzioni, è necessario ribadire che nel mare delle diete alla moda la sola che si salva è la dieta mediterranea. Ma attenti alle porzioni!
Senza dubbio, la dieta mediterranea è un regime ideale che molti c’invidiano. La percentuale dei nutrienti raccomandata ogni giorno è la seguente: il 55-60% di carboidrati, il 25-30% di grassi e il 15%-18 di proteine. Il tutto va distribuito secondo lo schema della piramide alimentare: alla base frutta e verdura di stagione da consumare in abbondanza (5 porzioni al giorno) - seguono dal basso verso l’alto, pasta, riso, cereali e derivati ogni giorno – poi carne bianca, pesce, legumi, latte o latticini, uova da alternare un pasto al giorno per un paio di volte a settimana – in cima grassi e zuccheri in quantità moderate ogni giorno (olio di oliva).
Insomma, la dieta mediterranea è quella giusta: varia, equilibrata, corretta, gustosa, e completa. È importante per la prevenzione di molte malattie e per mantenersi in forma il più a lungo possibile, ritardando gli effetti dell’invecchiamento. Ma non bisogna esagerare con le quantità, specie per i carboidrati complessi (pasta e pane) e per gli zuccheri semplici (frutta).
Concludendo…
In somma, scartate tutte le diete alla moda, per lo più improvvisate e insane, e salvata la mediterranea, seppure nelle giuste proporzioni, chi desidera dimagrire senza rischi per la salute non può che affidarsi a uno specialista qualificato che dopo le misure del caso potrà programmare una dieta personalizzata, bilanciata e salutare.
Fonti:
http://staibene.libero.it/alimentazione/guide/single_voce/article/le_diete_migliori_per_dimagrire_e_rimanere_in_forma/?f=dtm
http://www.obesita.it/html/approfondimenti/it/naturale_e_salutare.asp
http://www.lanutrizione.it/html/approfondimenti/it/diete_improvvisate_una_minaccia_per_la_salute.asp
http://www.obesita.it/html/approfondimenti/it/diete_rischiose_il_caso_dukan.asp
http://www.obesita.it/html/approfondimenti/it/la_tisanoreica_poche_calorie_pochi_chili_e_poca_salute.asp
Latte e latticini: light o non light ?
Per i prodotti lattiero-caseari, non è il contenuto di grassi a fare la differenza sugli effetti legati al rischio cardiovascolare.
In uno studio cross-over randomizzato, 12 soggetti in sovrappeso/obesi hanno consumato, durante due periodi distinti di 3 settimane, due diete sia con latticini a elevato contenuto di grassi con formaggio e yogurt (prodotti fermentati) sia una dieta con latticini a basso contenuto di grassi con burro, panna e gelato (non fermentati).
Al termine dell’osservazione si è dimostrato, in sostanza, che le concentrazioni dei biomarcatori plasmatici misurati (6 biomarker aterogeni e infiammatori e 2 noti per essere elevati nelle CVD, più isoprostani e quadro lipidico) tendevano ad essere più elevate quando la dieta che era a basso contenuto di grassi.
Secondo gli autori non è stato il contenuto in grassi a fare la differenza, probabilmente i risultati evidenziati sono da attribuire ai prodotti: fermentati o non fermentati. E, in termini di rischio cardiovascolare, i fermentati sembrano essere, in questo studio, più favorevoli rispetto a non fermentati.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23756569
Br J Nutr. 2013 Jun 12:1-8. [Epub ahead of print]
Effects of low-fat or full-fat fermented and non-fermented dairy foods on selected cardiovascular biomarkers in overweight adults.
In uno studio cross-over randomizzato, 12 soggetti in sovrappeso/obesi hanno consumato, durante due periodi distinti di 3 settimane, due diete sia con latticini a elevato contenuto di grassi con formaggio e yogurt (prodotti fermentati) sia una dieta con latticini a basso contenuto di grassi con burro, panna e gelato (non fermentati).
Al termine dell’osservazione si è dimostrato, in sostanza, che le concentrazioni dei biomarcatori plasmatici misurati (6 biomarker aterogeni e infiammatori e 2 noti per essere elevati nelle CVD, più isoprostani e quadro lipidico) tendevano ad essere più elevate quando la dieta che era a basso contenuto di grassi.
Secondo gli autori non è stato il contenuto in grassi a fare la differenza, probabilmente i risultati evidenziati sono da attribuire ai prodotti: fermentati o non fermentati. E, in termini di rischio cardiovascolare, i fermentati sembrano essere, in questo studio, più favorevoli rispetto a non fermentati.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23756569
Br J Nutr. 2013 Jun 12:1-8. [Epub ahead of print]
Effects of low-fat or full-fat fermented and non-fermented dairy foods on selected cardiovascular biomarkers in overweight adults.
Mangiare lentamente aiuta ?
Mangiare lentamente aumenta le risposte postprandiali di alcuni ormoni intestinali anoressizzanti in soggetti magri sani. Ma negli obesi cosa succede? Le risposte da uno studio italiano.
Lo studio
Allo scopo di verificare se mangiare lo stesso pasto a velocità diverse possa evocare diverse risposte anoressizzanti postprandiali in soggetti adolescenti e adulti obesi, sono stati arruolati 18 soggetti.
Un pasto di prova è stato consumato in due sessioni differenti per ciascun soggetto, la durata del pasto prevista era 5 min (alimentazione veloce) o 30 minuti (alimentazione lento). Dopo oltre 210 min sono stati misurati i livelli circolanti di: glucagon-like peptide 1 (GLP1), peptide YY (PYY), glucosio, insulina e trigliceridi. Scale visive analogiche sono stati utilizzate per valutare le sensazioni soggettive di fame e sazietà.
Si è così evidenziato che l’alimentazione veloce non ha stimolato il rilascio di GLP1 negli adolescenti e negli adulti obesi, mentre l'alimentazione lenta provocava un aumento dei livelli circolanti di GLP1 solo negli adolescenti obesi. Le concentrazioni plasmatiche di PYY sono aumentate, sia negli adolescenti, sia negli adulti obesi, indipendentemente dal food intake, ma l'alimentazione lenta era più efficace nello stimolare il rilascio di PYY negli adolescenti obesi rispetto agli adulti.
Inoltre, l'alimentazione lenta ha evocato un senso di sazietà più forte solo negli adolescenti obesi, rispetto all’alimentazione veloce, ma lo stesso non è avvenuto negli adulti obesi. E ancora, negli adolescenti obesi, l’alimentazione lenta era associata a un calo della fame (solo a 210 min). Infine, a prescindere dal food intake, le risposte postprandiali di insulina e trigliceridi erano elevate negli adulti obesi che negli adolescenti.
Gli autori ritengono, dunque, che mangiare lentamente possa comportare un aumento della secrezione di peptidi anoressizzanti intestinale e favorire la sazietà negli adolescenti obesi, ma questo controllo fisiologico probabilmente viene a mancare negli adulti.
Clinica Pratica
La perdita dei controlli fisiologici neuroendocrini è uno dei tanti fattori che collaborano all’insorgenza dell’obesità. E non tutti i meccanismi sottesi sono ancora ben chiari. Dai risultati di questo studio si può comunque sottolineare che, forse, raccomandare a un adolescente obeso di mangiare lentamente potrebbe essere utile, ma per un adulto la stessa raccomandazione potrebbe avere minore effetto.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23239758
Eur J Endocrinol. 2013 Feb 20;168(3):429-36. doi: 10.1530/EJE-12-0867. Print 2013 Mar.
Anorexigenic postprandial responses of PYY and GLP1 to slow ice cream consumption: preservation in obese adolescents, but not in obese adults.
Lo studio
Allo scopo di verificare se mangiare lo stesso pasto a velocità diverse possa evocare diverse risposte anoressizzanti postprandiali in soggetti adolescenti e adulti obesi, sono stati arruolati 18 soggetti.
Un pasto di prova è stato consumato in due sessioni differenti per ciascun soggetto, la durata del pasto prevista era 5 min (alimentazione veloce) o 30 minuti (alimentazione lento). Dopo oltre 210 min sono stati misurati i livelli circolanti di: glucagon-like peptide 1 (GLP1), peptide YY (PYY), glucosio, insulina e trigliceridi. Scale visive analogiche sono stati utilizzate per valutare le sensazioni soggettive di fame e sazietà.
Si è così evidenziato che l’alimentazione veloce non ha stimolato il rilascio di GLP1 negli adolescenti e negli adulti obesi, mentre l'alimentazione lenta provocava un aumento dei livelli circolanti di GLP1 solo negli adolescenti obesi. Le concentrazioni plasmatiche di PYY sono aumentate, sia negli adolescenti, sia negli adulti obesi, indipendentemente dal food intake, ma l'alimentazione lenta era più efficace nello stimolare il rilascio di PYY negli adolescenti obesi rispetto agli adulti.
Inoltre, l'alimentazione lenta ha evocato un senso di sazietà più forte solo negli adolescenti obesi, rispetto all’alimentazione veloce, ma lo stesso non è avvenuto negli adulti obesi. E ancora, negli adolescenti obesi, l’alimentazione lenta era associata a un calo della fame (solo a 210 min). Infine, a prescindere dal food intake, le risposte postprandiali di insulina e trigliceridi erano elevate negli adulti obesi che negli adolescenti.
Gli autori ritengono, dunque, che mangiare lentamente possa comportare un aumento della secrezione di peptidi anoressizzanti intestinale e favorire la sazietà negli adolescenti obesi, ma questo controllo fisiologico probabilmente viene a mancare negli adulti.
Clinica Pratica
La perdita dei controlli fisiologici neuroendocrini è uno dei tanti fattori che collaborano all’insorgenza dell’obesità. E non tutti i meccanismi sottesi sono ancora ben chiari. Dai risultati di questo studio si può comunque sottolineare che, forse, raccomandare a un adolescente obeso di mangiare lentamente potrebbe essere utile, ma per un adulto la stessa raccomandazione potrebbe avere minore effetto.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23239758
Eur J Endocrinol. 2013 Feb 20;168(3):429-36. doi: 10.1530/EJE-12-0867. Print 2013 Mar.
Anorexigenic postprandial responses of PYY and GLP1 to slow ice cream consumption: preservation in obese adolescents, but not in obese adults.
Folati e cancro alla prostata
Secondo una revisione inglese, è probabile che vi sia un’associazione positiva tra i livelli plasmatici di folati e vitamina B12 e il rischio di cancro alla prostata.
I meccanismi ipotizzati per collegare il metabolismo della B12 e dei folati con il cancro, sono stati già osservati in cellule tumorali della prostata. Tuttavia, studi epidemiologici sul rischio di cancro alla prostata, sulla base di apporti alimentari, e livelli ematici di folati e vitamina B12, hanno dato risultati contraddittori.
In una meta-analisi, le concentrazioni circolanti di vitamina B12 (7 studi, OR = 1.10, 95% CI 1.01, 1.19, P = 0.002) e negli studi di coorte, i folati (5 studi, OR = 1.18, 95% CI 1.00, 1.40 p = 0.02) sono stati positivamente associati ad un aumento del rischio di cancro alla prostata. L'omocisteina non è stata associata con il rischio di cancro alla prostata (quattro studi, OR = 0.91, 95% CI 0,69, 1,19, p = 0.5).
In una meta-analisi dei polimorfismi del pattern metilati-folato MTR 2756A>G (8 studi, OR = 1.06, 95% CI 1.00, 1.12, P = 0.06) e SHMT1 1420C> T (2 studi, OR = 1.11, 95% CI 1.00, 1.22, P = 0.05) sono risultati positivamente associati a rischio di cancro alla prostata. Non ci sono stati effetti dovuti ad altri polimorfismi, tra MTHFR 677C> T (12 studi, OR = 1.04, 95% CI 0.97, 1.12, p = 0.3).
Con questi dati, gli autori della meta-analisi non ritengono di escludere del tutto l’ipotizzata relazione positiva tra i folati circolanti e il rischio di cancro alla prostata. Viene infine proposta anche la fortificazione obbligatoria di alcuni alimenti di consumo comune con la B12, come già avviene, in alcuni Paesi, per i folati.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23724740
Adv Clin Chem. 2013;60:1-63.
Folate and B12 in prostate cancer.
I meccanismi ipotizzati per collegare il metabolismo della B12 e dei folati con il cancro, sono stati già osservati in cellule tumorali della prostata. Tuttavia, studi epidemiologici sul rischio di cancro alla prostata, sulla base di apporti alimentari, e livelli ematici di folati e vitamina B12, hanno dato risultati contraddittori.
In una meta-analisi, le concentrazioni circolanti di vitamina B12 (7 studi, OR = 1.10, 95% CI 1.01, 1.19, P = 0.002) e negli studi di coorte, i folati (5 studi, OR = 1.18, 95% CI 1.00, 1.40 p = 0.02) sono stati positivamente associati ad un aumento del rischio di cancro alla prostata. L'omocisteina non è stata associata con il rischio di cancro alla prostata (quattro studi, OR = 0.91, 95% CI 0,69, 1,19, p = 0.5).
In una meta-analisi dei polimorfismi del pattern metilati-folato MTR 2756A>G (8 studi, OR = 1.06, 95% CI 1.00, 1.12, P = 0.06) e SHMT1 1420C> T (2 studi, OR = 1.11, 95% CI 1.00, 1.22, P = 0.05) sono risultati positivamente associati a rischio di cancro alla prostata. Non ci sono stati effetti dovuti ad altri polimorfismi, tra MTHFR 677C> T (12 studi, OR = 1.04, 95% CI 0.97, 1.12, p = 0.3).
Con questi dati, gli autori della meta-analisi non ritengono di escludere del tutto l’ipotizzata relazione positiva tra i folati circolanti e il rischio di cancro alla prostata. Viene infine proposta anche la fortificazione obbligatoria di alcuni alimenti di consumo comune con la B12, come già avviene, in alcuni Paesi, per i folati.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23724740
Adv Clin Chem. 2013;60:1-63.
Folate and B12 in prostate cancer.
Folati: le carenze stagionali
I livelli di acido folico (vitamina B9) nel sangue sono oscillanti rispecchiando la stagionalità della dieta abituale.
Questo è quanto è stato confermato da uno studio condotto nella repubblica Slovacca allo scopo di valutare eventuali carenze di acido folico in relazione a diverse abitudini alimentari (adulti apparentemente sani non fumatori, 366 soggetti non obesi, 204 persone della popolazione generale, 162 latto-ovo-vegetariani).
Si è così evidenziato che nella popolazione generale, nel mese di marzo, la concentrazione plasmatica media di folato era sostanzialmente inferiore ai valori considerati normali, con alta incidenza di valori carenti - 31,5%. Nel mese di maggio/giugno rispetto a marzo era significativamente più elevata, con valori carenti nel 13,2% dei soggetti.
I valori sierici più elevati sono stati osservati in settembre con 11,1% di valori carenti. Nel gruppo vegetariano vs non-vegetariani, le concentrazioni di folati erano significativamente più elevate in ogni stagione senza valori carenti. E ancora, il deficit di marzo ha causato iperomocisteinemia lieve nel 12,3%, contro solo il 5,9% e il 4,8% riscontrati nei gruppi studiati a maggio/giugno e settembre.
A dispetto delle elevate concentrazioni di folato in tutte le indagini e nessun valore carente, il 19,6-22,8% dei vegetariani mostravano iperomocisteinemia lieve, come conseguenza della carenza di vitamina B12 riscontrata in un quarto dei soggetti. Ecco perché, secondo gli autori, l’inizio della primavera e l’inverno possono causare sintomi da carenza di folati.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23741898
Cent Eur J Public Health. 2013 Mar;21(1):36-8.
Seasonal folate serum concentrations at different nutrition.
Questo è quanto è stato confermato da uno studio condotto nella repubblica Slovacca allo scopo di valutare eventuali carenze di acido folico in relazione a diverse abitudini alimentari (adulti apparentemente sani non fumatori, 366 soggetti non obesi, 204 persone della popolazione generale, 162 latto-ovo-vegetariani).
Si è così evidenziato che nella popolazione generale, nel mese di marzo, la concentrazione plasmatica media di folato era sostanzialmente inferiore ai valori considerati normali, con alta incidenza di valori carenti - 31,5%. Nel mese di maggio/giugno rispetto a marzo era significativamente più elevata, con valori carenti nel 13,2% dei soggetti.
I valori sierici più elevati sono stati osservati in settembre con 11,1% di valori carenti. Nel gruppo vegetariano vs non-vegetariani, le concentrazioni di folati erano significativamente più elevate in ogni stagione senza valori carenti. E ancora, il deficit di marzo ha causato iperomocisteinemia lieve nel 12,3%, contro solo il 5,9% e il 4,8% riscontrati nei gruppi studiati a maggio/giugno e settembre.
A dispetto delle elevate concentrazioni di folato in tutte le indagini e nessun valore carente, il 19,6-22,8% dei vegetariani mostravano iperomocisteinemia lieve, come conseguenza della carenza di vitamina B12 riscontrata in un quarto dei soggetti. Ecco perché, secondo gli autori, l’inizio della primavera e l’inverno possono causare sintomi da carenza di folati.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23741898
Cent Eur J Public Health. 2013 Mar;21(1):36-8.
Seasonal folate serum concentrations at different nutrition.
La CRP marca l'adiposità centrale.
Un aumento dei livelli sierici della proteina C-reattiva (CRP) nei bambini appare associato a un incremento dell’adiposità centrale e, nel tempo, a un maggior rischio cardiovascolare.
Lo studio
Nell'ambito del studio noto con l’acronimo IDEFICS (Identification and prevention of Dietary- and lifestyle-induced health Effects in Children and InfantS) sono stati reclutati in totale 16.224 bambini (2-9 anni) da 8 paesi europei. Allo scopo di valutare l'associazione CRP con sovrappeso/obesità e relativi fattori di rischio cardiometabolico, sono stati poi selezionati 6616 bambini (maschi = 3347; femmine = 3269; età = 6,3 ± 1,7 anni) dei quali erano disponibili i dati relativi ai livelli sierici di CRP-hs (alta sensibilità) al tempo 0.
E di questi, 4110 sono stati riesaminati due anni dopo (T1). Sono stati anche rianalizzati i dati relativi alle variabili antropometriche, alla pressione arteriosa, ai lipidi nel sangue, alla glicemia e all’insulinemia. Si è così evidenziato, in sostanza, che i livelli sierici di CRP erano significativamente associati alla prevalenza di sovrappeso/obesità, (BMI) z-score e agli indici di adiposità centrale (valori di P tutti <0.0001). La stessa associazione si ripeteva con la più elevata pressione arteriosa e con bassi livelli di colesterolo HDL.
Nel corso di 2 anni di follow-up, i livelli di CRP erano associati ad un aumento significativo del BMI z-score (P <0,001) e a un significativo incremento dell’incidenza di sovrappeso e obesità con relativo aumento del rischio cardiovascolare.Gli autori dunque ritengono che i bambini che durante l’accrescimento hanno una tendenza crescente all’aumento dei livelli sierici di CRP possano anche avere un aumento del rischio di sviluppare obesità e malattie cardiometaboliche correlate.
Clinica Pratica
Questo studio ribadisce l’importanze di tenere sott’occhio le variazioni delle misure antropometriche nel tempo, specie durante l’accrescimento. Lo stesso vale per alcune misure di laboratorio come il quadro lipidico e agli esami di routine ai quali dovrebbe essere aggiunta anche la misura della CRP come indice di aumento del rischio cardiovascolare, specie nei bambini già in sovrappeso che di per sé sono maggiormente esposti a tale rischio.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23744403
J Am Heart Assoc. 2013 Jun 6;2(3):e000101. doi: 10.1161/JAHA.113.000101.
High-sensitivity C-reactive Protein is a Predictive Factor of Adiposity in Children: Results of the Identification and prevention of Dietary- and lifestyle-induced health Effects in Children and InfantS (IDEFICS) Study.
Lo studio
Nell'ambito del studio noto con l’acronimo IDEFICS (Identification and prevention of Dietary- and lifestyle-induced health Effects in Children and InfantS) sono stati reclutati in totale 16.224 bambini (2-9 anni) da 8 paesi europei. Allo scopo di valutare l'associazione CRP con sovrappeso/obesità e relativi fattori di rischio cardiometabolico, sono stati poi selezionati 6616 bambini (maschi = 3347; femmine = 3269; età = 6,3 ± 1,7 anni) dei quali erano disponibili i dati relativi ai livelli sierici di CRP-hs (alta sensibilità) al tempo 0.
E di questi, 4110 sono stati riesaminati due anni dopo (T1). Sono stati anche rianalizzati i dati relativi alle variabili antropometriche, alla pressione arteriosa, ai lipidi nel sangue, alla glicemia e all’insulinemia. Si è così evidenziato, in sostanza, che i livelli sierici di CRP erano significativamente associati alla prevalenza di sovrappeso/obesità, (BMI) z-score e agli indici di adiposità centrale (valori di P tutti <0.0001). La stessa associazione si ripeteva con la più elevata pressione arteriosa e con bassi livelli di colesterolo HDL.
Nel corso di 2 anni di follow-up, i livelli di CRP erano associati ad un aumento significativo del BMI z-score (P <0,001) e a un significativo incremento dell’incidenza di sovrappeso e obesità con relativo aumento del rischio cardiovascolare.Gli autori dunque ritengono che i bambini che durante l’accrescimento hanno una tendenza crescente all’aumento dei livelli sierici di CRP possano anche avere un aumento del rischio di sviluppare obesità e malattie cardiometaboliche correlate.
Clinica Pratica
Questo studio ribadisce l’importanze di tenere sott’occhio le variazioni delle misure antropometriche nel tempo, specie durante l’accrescimento. Lo stesso vale per alcune misure di laboratorio come il quadro lipidico e agli esami di routine ai quali dovrebbe essere aggiunta anche la misura della CRP come indice di aumento del rischio cardiovascolare, specie nei bambini già in sovrappeso che di per sé sono maggiormente esposti a tale rischio.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23744403
J Am Heart Assoc. 2013 Jun 6;2(3):e000101. doi: 10.1161/JAHA.113.000101.
High-sensitivity C-reactive Protein is a Predictive Factor of Adiposity in Children: Results of the Identification and prevention of Dietary- and lifestyle-induced health Effects in Children and InfantS (IDEFICS) Study.
Il peso e il sonno.
Si è molto discusso sul legame tra sovrappeso, durata del sonno e rischio cardiovascolare, specie per i bambini. Ma nei soggetti normopeso?
Alcuni ricercatori americani (New York USA) hanno cercato di determinare l'impatto della restrizione del sonno nel breve termine sui profili lipidici, sulla pressione arteriosa in un gruppo di giovani adulti normopeso (14 uomini, 13 donne). I partecipanti sono stati randomizzati a cinque notti di sonno abituale (9 h) o ristretto (4 h) in due periodi separati da un wash-out di 3 settimane.
Per prima cosa si è evidenziato che non vi era alcuna interazione del sonno quotidiano sul profilo lipidico o la pressione sanguigna. Nel breve termine, quindi, secondo gli autori, la restrizione del sonno non influirebbe sul profilo lipidico e la pressione sanguigna a riposo, in soggetti adulti sani e di peso normale. Un motivo in più per stimolare i giovani verso uno stile di vita più regolare e a tenere il peso sotto controllo, specie se appartenenti a famiglie con elevato rischio cardiovascolare.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23682639
J Sleep Res. 2013 May 20. doi: 10.1111/jsr.12060. [Epub ahead of print]
No effects of short-term sleep restriction, in a controlled feeding setting, on lipid profiles in normal-weight adults.
Alcuni ricercatori americani (New York USA) hanno cercato di determinare l'impatto della restrizione del sonno nel breve termine sui profili lipidici, sulla pressione arteriosa in un gruppo di giovani adulti normopeso (14 uomini, 13 donne). I partecipanti sono stati randomizzati a cinque notti di sonno abituale (9 h) o ristretto (4 h) in due periodi separati da un wash-out di 3 settimane.
Per prima cosa si è evidenziato che non vi era alcuna interazione del sonno quotidiano sul profilo lipidico o la pressione sanguigna. Nel breve termine, quindi, secondo gli autori, la restrizione del sonno non influirebbe sul profilo lipidico e la pressione sanguigna a riposo, in soggetti adulti sani e di peso normale. Un motivo in più per stimolare i giovani verso uno stile di vita più regolare e a tenere il peso sotto controllo, specie se appartenenti a famiglie con elevato rischio cardiovascolare.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23682639
J Sleep Res. 2013 May 20. doi: 10.1111/jsr.12060. [Epub ahead of print]
No effects of short-term sleep restriction, in a controlled feeding setting, on lipid profiles in normal-weight adults.
Calcio e vitamina D: quando e come.
Le supplementazioni di Calcio nelle persone adulte over50, e negli anziani, sono sempre motivo di discussione, specie per quanto riguarda la prevenzione dell’osteoporosi e delle sue complicanze.
Lo studio
È stato condotto uno studio trasversale, in collaborazione tra ricercatori spagnoli e americani, riguardante il periodo 2009-2010 osservando 11.035 adulti della coorte ESOSVAL che frequentavano 272 centri di assistenza sanitaria di base nella regione di Valencia (Spagna).
Criteri per la prescrizione non opportuna di Calcio, sulla base delle linee guida e sulle prove recenti, sono stati: eccessivo o insufficiente apporto giornaliero totale (dieta più integratori), eccessive dosi singole di integratori, eccessiva o insufficiente associazione con la vitamina D, e di inadeguatezza complessiva della prescrizione.
Si è, prima di tutto, evidenziato che Calcio e/o vitamina D sono stati prescritti a circa il 17% della popolazione. L'età avanzata, il trattamento antiosteoporosi, l’uso di glucocorticoidi e una diagnosi di osteoporosi, sono stati collegati alla prescrizione. La presenza di altre cause secondarie di osteoporosi ha determinato la supplementazione solo negli uomini.
Inoltre, è emerso che l’assunzione di Calcio con la dieta non era legata alla prescrizione di integratori. Tra i consumatori di Calcio, l’85,8% ha incontrato almeno un criterio di prescrizione inappropriata; il 29% mostrava un apporto giornaliero totale non adeguato, principalmente a causa di un consumo eccessivo (> 2000 mg / d); al 53,8% dei pazienti sono stati somministrati integratori di Calcio in quantità superiore a 500 mg per dose, e il 38,9% dei soggetti trattati (tutti ad alto rischio) con integratori mostravano anche un’assunzione insufficiente di vitamina D (assente o al di sotto di 800 UI / die).
In conclusione, gli autori sottolineano l’inadeguata supplementazione di calcio, dovuta a overdose di Calcio o mancanza di trattamento e sottodosaggio di vitamina D nei pazienti ad alto rischio. Gli autori suggeriscono ai medici, spesso esagerati prescrittori di Calcio, d’incoraggiare e valutare gli apporti dietetici, prima della supplementazione, nonché di prescrivere basse dosi di calcio e alte dosi di vitamina D, quando somministrato in combinazione a dose fissa, o la vitamina D da sola, quando il calcio non è necessario.
Clinica pratica
In effetti, la prescrizione di supplementi di Calcio e/o di vitamina D, possono destare alcune preoccupazioni da parte del medico prescrittore. Se da un lato è vero che gli apporti dietetici negli adulti e negli anziani ad alto rischio, sono mediamente insufficienti, è pur vero che il Calcio della dieta proviene essenzialmente da latte e derivati, e questi sono alimenti spesso trascurati o ingiustamente scartati in pazienti che oltre al rischio di osteoporosi presentano altre comorbidità, per esempio le dislipidemie.
In proposito il paziente va orientato in modo che scelga le forme di latte e derivati più “magre” che oggi non mancano sul mercato. Inoltre, la calcemia va tenuta sotto controllo regolare e lo stesso vale per la funzione renale nei soggetti che tendono alla formazione di calcoli. Non va dimenticato anche l’apporto di Calcio ottenibile con le acque oligominerali, una forma di Calcio biodisponibile e generalmente innocua. In ogni caso, prima di supplementare, è sempre bene verificare se ve ne sia effettivamente bisogno e se la dieta può correggere un’eventuale carenza.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23661631
J Bone Miner Res. 2013 May 9. doi: 10.1002/jbmr.1977. [Epub ahead of print]
Prevalence, determinants and inappropriateness of calcium supplementation among men and women in a Spanish Mediterranean area. Cross-sectional data from the ESOSVAL cohort.
Lo studio
È stato condotto uno studio trasversale, in collaborazione tra ricercatori spagnoli e americani, riguardante il periodo 2009-2010 osservando 11.035 adulti della coorte ESOSVAL che frequentavano 272 centri di assistenza sanitaria di base nella regione di Valencia (Spagna).
Criteri per la prescrizione non opportuna di Calcio, sulla base delle linee guida e sulle prove recenti, sono stati: eccessivo o insufficiente apporto giornaliero totale (dieta più integratori), eccessive dosi singole di integratori, eccessiva o insufficiente associazione con la vitamina D, e di inadeguatezza complessiva della prescrizione.
Si è, prima di tutto, evidenziato che Calcio e/o vitamina D sono stati prescritti a circa il 17% della popolazione. L'età avanzata, il trattamento antiosteoporosi, l’uso di glucocorticoidi e una diagnosi di osteoporosi, sono stati collegati alla prescrizione. La presenza di altre cause secondarie di osteoporosi ha determinato la supplementazione solo negli uomini.
Inoltre, è emerso che l’assunzione di Calcio con la dieta non era legata alla prescrizione di integratori. Tra i consumatori di Calcio, l’85,8% ha incontrato almeno un criterio di prescrizione inappropriata; il 29% mostrava un apporto giornaliero totale non adeguato, principalmente a causa di un consumo eccessivo (> 2000 mg / d); al 53,8% dei pazienti sono stati somministrati integratori di Calcio in quantità superiore a 500 mg per dose, e il 38,9% dei soggetti trattati (tutti ad alto rischio) con integratori mostravano anche un’assunzione insufficiente di vitamina D (assente o al di sotto di 800 UI / die).
In conclusione, gli autori sottolineano l’inadeguata supplementazione di calcio, dovuta a overdose di Calcio o mancanza di trattamento e sottodosaggio di vitamina D nei pazienti ad alto rischio. Gli autori suggeriscono ai medici, spesso esagerati prescrittori di Calcio, d’incoraggiare e valutare gli apporti dietetici, prima della supplementazione, nonché di prescrivere basse dosi di calcio e alte dosi di vitamina D, quando somministrato in combinazione a dose fissa, o la vitamina D da sola, quando il calcio non è necessario.
Clinica pratica
In effetti, la prescrizione di supplementi di Calcio e/o di vitamina D, possono destare alcune preoccupazioni da parte del medico prescrittore. Se da un lato è vero che gli apporti dietetici negli adulti e negli anziani ad alto rischio, sono mediamente insufficienti, è pur vero che il Calcio della dieta proviene essenzialmente da latte e derivati, e questi sono alimenti spesso trascurati o ingiustamente scartati in pazienti che oltre al rischio di osteoporosi presentano altre comorbidità, per esempio le dislipidemie.
In proposito il paziente va orientato in modo che scelga le forme di latte e derivati più “magre” che oggi non mancano sul mercato. Inoltre, la calcemia va tenuta sotto controllo regolare e lo stesso vale per la funzione renale nei soggetti che tendono alla formazione di calcoli. Non va dimenticato anche l’apporto di Calcio ottenibile con le acque oligominerali, una forma di Calcio biodisponibile e generalmente innocua. In ogni caso, prima di supplementare, è sempre bene verificare se ve ne sia effettivamente bisogno e se la dieta può correggere un’eventuale carenza.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23661631
J Bone Miner Res. 2013 May 9. doi: 10.1002/jbmr.1977. [Epub ahead of print]
Prevalence, determinants and inappropriateness of calcium supplementation among men and women in a Spanish Mediterranean area. Cross-sectional data from the ESOSVAL cohort.
Donne obese: attente all'incontinenza!
Dato l’attuale incremento demografico, l’incontinenza urinaria da sforzo, è oggi una delle più grosse sfide terapeutiche in geriatria, specie per le donne obese.
Per primo si presenta il problema di una diagnosi accurata, finalizzata a un corretto trattamento dell’incontinenza. È quindi necessario includere la valutazione dei molteplici fattori di rischio dell’incontinenza: obesità, numero di parti, pregressi interventi di chirurgia pelvica e cambiamenti nei livelli ormonali, tutti fattori di rischio aggiuntivo che di solito si trovano nelle donne anziane.
Queste sono le ragioni principali per cui questo gruppo di pazienti è il più frequentemente colpito. Le opzioni di trattamento, comunque, non differiscono in modo significativo da quelle delle donne più giovani. Si tratta di modificare lo stile di vita, favorire la perdita di peso e sorvegliare la struttura del pavimento pelvico.
Un eventuale trattamento chirurgico deve essere considerato solo dopo che queste alternative sono state esaurite. In questi casi, le tecniche chirurgiche minimamente invasive offrono evidenti vantaggi soprattutto per le donne anziane con molteplici comorbidità.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23680859
Urologe A. 2013 May 18. [Epub ahead of print]
Stress incontinence in elderly women.
Per primo si presenta il problema di una diagnosi accurata, finalizzata a un corretto trattamento dell’incontinenza. È quindi necessario includere la valutazione dei molteplici fattori di rischio dell’incontinenza: obesità, numero di parti, pregressi interventi di chirurgia pelvica e cambiamenti nei livelli ormonali, tutti fattori di rischio aggiuntivo che di solito si trovano nelle donne anziane.
Queste sono le ragioni principali per cui questo gruppo di pazienti è il più frequentemente colpito. Le opzioni di trattamento, comunque, non differiscono in modo significativo da quelle delle donne più giovani. Si tratta di modificare lo stile di vita, favorire la perdita di peso e sorvegliare la struttura del pavimento pelvico.
Un eventuale trattamento chirurgico deve essere considerato solo dopo che queste alternative sono state esaurite. In questi casi, le tecniche chirurgiche minimamente invasive offrono evidenti vantaggi soprattutto per le donne anziane con molteplici comorbidità.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23680859
Urologe A. 2013 May 18. [Epub ahead of print]
Stress incontinence in elderly women.
Steatosi epatica nei bambini: dieta previene danno all'organo.
La terapia alimentare basata sulla riduzione del carico glicemico e dei grassi migliora le complicazioni della steatosi epatica nei bambini sovrappeso e obesi.
La steatosi epatica nel bambino obeso può essere trattata efficacemente con la dieta. Due diverse strategie si dimostrano equalmente risolutive nel medio termine. Questa la conclusione di un recente studio condotto dai ricercatori del Boston Children's Hospital.
Sia la dieta a ridotto carico glicemico che la restrizione dei grassi alimentari permettono di recuperare un profilo più salutare nei pazienti giovanissimi che presentano fegato grasso e sono quindi esposto ad un elevato rischio di sviluppare patologie croniche dell’organo e gravi complicazioni metaboliche.
Lo studio ha seguito, per una durata di sei mesi, un gruppo di 16 pazienti obesi di età compresa tra 8 e 17 anni, i quali sono stati assegnati casualmente ad una terapia alimentare basata su una dieta a ridotto carico glicemico oppure a ridotto contenuto di grassi. Al momento dell’arruolamento, il contenuto medio di grasso nel fegato dei due gruppi era, rispettivamente, pari a 23% e 29%, due valori decisamente elevate.
Gli autori hanno potuto osservare che il contenuto adiposo epatico, valutato mediante spettroscopia a risonanza magnetica, si riduceva in modo significativo nei partecipanti indipendentemente dal tipo di strategia impiegata. Non solo, anche altri parametri investigati, quali il contenuto di grasso addominale, l’indice di massa corporea (BMI), i livelli sierici dell’enzima alanine aminotransferase e la resistenza all’insulina, si modificavano in modo positive senza presentare differenza significative tra i due gruppi.
Tuttavia, gli autori hanno sottolineato la necessità di condurre una simile analisi per valutare nel lungo termine possibili differenze negli esiti associati alle due strategie aliementari.
Fonte: Ramon-Krauel M, Salsberg SL, Ebbeling CB et al. A Low-Glycemic-Load versus Low-Fat Diet in the Treatment of Fatty Liver in Obese Children. Child Obes. 2013 May 24
La steatosi epatica nel bambino obeso può essere trattata efficacemente con la dieta. Due diverse strategie si dimostrano equalmente risolutive nel medio termine. Questa la conclusione di un recente studio condotto dai ricercatori del Boston Children's Hospital.
Sia la dieta a ridotto carico glicemico che la restrizione dei grassi alimentari permettono di recuperare un profilo più salutare nei pazienti giovanissimi che presentano fegato grasso e sono quindi esposto ad un elevato rischio di sviluppare patologie croniche dell’organo e gravi complicazioni metaboliche.
Lo studio ha seguito, per una durata di sei mesi, un gruppo di 16 pazienti obesi di età compresa tra 8 e 17 anni, i quali sono stati assegnati casualmente ad una terapia alimentare basata su una dieta a ridotto carico glicemico oppure a ridotto contenuto di grassi. Al momento dell’arruolamento, il contenuto medio di grasso nel fegato dei due gruppi era, rispettivamente, pari a 23% e 29%, due valori decisamente elevate.
Gli autori hanno potuto osservare che il contenuto adiposo epatico, valutato mediante spettroscopia a risonanza magnetica, si riduceva in modo significativo nei partecipanti indipendentemente dal tipo di strategia impiegata. Non solo, anche altri parametri investigati, quali il contenuto di grasso addominale, l’indice di massa corporea (BMI), i livelli sierici dell’enzima alanine aminotransferase e la resistenza all’insulina, si modificavano in modo positive senza presentare differenza significative tra i due gruppi.
Tuttavia, gli autori hanno sottolineato la necessità di condurre una simile analisi per valutare nel lungo termine possibili differenze negli esiti associati alle due strategie aliementari.
Fonte: Ramon-Krauel M, Salsberg SL, Ebbeling CB et al. A Low-Glycemic-Load versus Low-Fat Diet in the Treatment of Fatty Liver in Obese Children. Child Obes. 2013 May 24
Dieta per i gruppi sanguigni: nessun beneficio clinico.
L’adozione di una dieta basata sul gruppo sanguigno non avrebbe alcun beneficio reale. Così riporta una recente revisione di studi nutrizionali.
Nessun beneficio per le diete basate sull’appartenenza al gruppo sanguigno. Questa la conclusione di una recente revisione sistematica della letteratura scientifica condotta dalla Croce Rossa delle Fiandre, Belgio. Nonostante questa dottrina abbia goduto di un particolare interesse negli ultimi dieci anni, la maggior parte degli studi condotti non hanno fornito evidenze di un significativo impatto benefico sulla salute nè contro il rischio di sviluppare patologie croniche.
In totale, gli autori hanno selezionato 16 articoli tra oltre 1400 referenze incontrate sui database Cochrane Library, MEDLINE ed Embase. Nell’esaminare i risultati degli studi i ricercatori non hanno potuto rispondere alla seguente domanda: può un tipo particolare di dieta studiato per le persone appartenenti ad uno specifico gruppo sanguigno favorire la condizione di salute tra coloro che adottano questo tipo di alimentazione rispetto a coloro che non aderiscono? Le pubblicazioni analizzate, infatti, investigavano unicamente le differenze nell’impatto di una dieta a basso contenuto di grassi sui livelli di lipoproteine a bassa densità tra gli individui appartenenti a diversi gruppi sanguigni.
Nessun supporto scientifico, dunque, fino ad ora per questo tipo di diete. Tuttavia, gli investigatori non hanno escluso che studi più accurati potrebbero rivelare un’efficacia ristretta ad alcuni parametri metabolici, ma questo richiederebbe il confronto di gruppi appartenenti allo stesso gruppo sanguigno e, possibilmente campioni di studio decisamente più vasti.
Fonte: Cusack L, De Buck E, Compernolle V et al. Blood type diets lack supporting evidence: a systematic review. Am J Clin Nutr. 2013 May 22
Nessun beneficio per le diete basate sull’appartenenza al gruppo sanguigno. Questa la conclusione di una recente revisione sistematica della letteratura scientifica condotta dalla Croce Rossa delle Fiandre, Belgio. Nonostante questa dottrina abbia goduto di un particolare interesse negli ultimi dieci anni, la maggior parte degli studi condotti non hanno fornito evidenze di un significativo impatto benefico sulla salute nè contro il rischio di sviluppare patologie croniche.
In totale, gli autori hanno selezionato 16 articoli tra oltre 1400 referenze incontrate sui database Cochrane Library, MEDLINE ed Embase. Nell’esaminare i risultati degli studi i ricercatori non hanno potuto rispondere alla seguente domanda: può un tipo particolare di dieta studiato per le persone appartenenti ad uno specifico gruppo sanguigno favorire la condizione di salute tra coloro che adottano questo tipo di alimentazione rispetto a coloro che non aderiscono? Le pubblicazioni analizzate, infatti, investigavano unicamente le differenze nell’impatto di una dieta a basso contenuto di grassi sui livelli di lipoproteine a bassa densità tra gli individui appartenenti a diversi gruppi sanguigni.
Nessun supporto scientifico, dunque, fino ad ora per questo tipo di diete. Tuttavia, gli investigatori non hanno escluso che studi più accurati potrebbero rivelare un’efficacia ristretta ad alcuni parametri metabolici, ma questo richiederebbe il confronto di gruppi appartenenti allo stesso gruppo sanguigno e, possibilmente campioni di studio decisamente più vasti.
Fonte: Cusack L, De Buck E, Compernolle V et al. Blood type diets lack supporting evidence: a systematic review. Am J Clin Nutr. 2013 May 22
Il cibo dolce è come una droga.
È stata pubblicata un’interessante e curiosa revisione per approfondire la validità dell'analogia tra la dipendenza da droghe e la dipendenza da cibi, specie dolciumi.
Gli autori (Université de Bordeaux CNRS, Institut des Maladies Neurodégénératives, Bordeaux, France) intendevano analizzare i risultati di alcune evidenze della letteratura, che dimostrano che lo zucchero e il gusto dolce, possono indurre compensazione e desiderio paragonabili, in grandezza, a quelli indotti dalla dipendenza da droghe.
Nonostante questa evidenza sia limitata dalla difficoltà intrinseca di confronto fra diversi tipi di cibi compensatori e le esperienze psicologiche negli esseri umani, è tuttavia supportata da una recente ricerca sperimentale nei ratti di laboratorio. Nel complesso, questa ricerca ha rivelato che lo zucchero e un cibo compensatorio molto zuccherino, non solo possono sostituirsi alla dipendenza da droghe, come la cocaina, ma mangiare un cibo molto dolce potrebbe essere ancora più gratificante e attraente.
Ovvero, a livello neurobiologico, i substrati neurali che sottendono i circuiti di godimento del cibo dolce, sembrano essere più resistenti ai guasti funzionali, rispetto a quelli della dipendenza da cocaina. E questo potrebbe spiegare perché molte persone possono avere difficoltà a controllare il consumo di alimenti molto zuccherini, specie quando sono continuamente sollecitati dalla disponibilità di questi cibi.
Due riflessioni pratiche: eliminare i dolciumi dalla portata di chi ha bisogno di perdere peso o ha controindicazioni a mangiarne (obesi, diabetici), magari proponendo in abbondanza frutta e verdura dal gusto più dolce possibile, sempre con molta attenzione agli apporti calorici.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23719144
Curr Opin Clin Nutr Metab Care. 2013 May 27. [Epub ahead of print]
Sugar addiction: pushing the drug-sugar analogy to the limit.
Gli autori (Université de Bordeaux CNRS, Institut des Maladies Neurodégénératives, Bordeaux, France) intendevano analizzare i risultati di alcune evidenze della letteratura, che dimostrano che lo zucchero e il gusto dolce, possono indurre compensazione e desiderio paragonabili, in grandezza, a quelli indotti dalla dipendenza da droghe.
Nonostante questa evidenza sia limitata dalla difficoltà intrinseca di confronto fra diversi tipi di cibi compensatori e le esperienze psicologiche negli esseri umani, è tuttavia supportata da una recente ricerca sperimentale nei ratti di laboratorio. Nel complesso, questa ricerca ha rivelato che lo zucchero e un cibo compensatorio molto zuccherino, non solo possono sostituirsi alla dipendenza da droghe, come la cocaina, ma mangiare un cibo molto dolce potrebbe essere ancora più gratificante e attraente.
Ovvero, a livello neurobiologico, i substrati neurali che sottendono i circuiti di godimento del cibo dolce, sembrano essere più resistenti ai guasti funzionali, rispetto a quelli della dipendenza da cocaina. E questo potrebbe spiegare perché molte persone possono avere difficoltà a controllare il consumo di alimenti molto zuccherini, specie quando sono continuamente sollecitati dalla disponibilità di questi cibi.
Due riflessioni pratiche: eliminare i dolciumi dalla portata di chi ha bisogno di perdere peso o ha controindicazioni a mangiarne (obesi, diabetici), magari proponendo in abbondanza frutta e verdura dal gusto più dolce possibile, sempre con molta attenzione agli apporti calorici.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23719144
Curr Opin Clin Nutr Metab Care. 2013 May 27. [Epub ahead of print]
Sugar addiction: pushing the drug-sugar analogy to the limit.
I figli mangiano come i genitori.
I pasti in famiglia sono legati a più sane abitudini alimentari nei bambini, ma ancora non è chiaro il meccanismo che sottende queste scelte.
Utilizzando un campione rappresentativo di oltre 2.300 bambini scozzesi di 5 anni, è stato condotto uno studio allo scopo di approfondire in che misura la famiglia possa interferire sul pasto e sul regime alimentare abituale.
Si procedeva con interviste a bambini e genitori, atte a esplorare dove, quando e con chi, i bambini mangiavano abitualmente e su quanto il godimento percepito del pasto potesse influenzare la qualità della loro dieta, tenendo conto di alcuni indicatori materni che potrebbero influire, sia sui rituali del pasto, sia sulle preferenze di gusto. I dati ottenuti hanno dimostrato che quasi tutti i bambini (99%) mangiavano almeno un pasto principale in famiglia. Di questi, la maggior parte (75%) ha mangiato a orari regolari con uno o due genitori (90%). Il dato sorprendente è che il 71% ha mangiato lo stesso cibo dei genitori.
Inoltre, alcune madri (14%) hanno riferito che i pasti erano sempre molto veloci, il 19% ha lamentato che mai, o solo occasionalmente, c'era la possibilità di parlare, e un quarto ha dichiarato che i pasti non sono quasi mai, o solo occasionalmente, “buoni” per tutti i famigliari. Nella sostanza, dunque, i ricercatori ritengono che sia emerso il fattore “emulazione dei genitori” e che il contesto socio culturale familiare, specie per le madri, sia determinante nelle scelte alimentari dei bambini più piccoli.
Fonti:
The positive influence of family meals on children’s food choice
http://www.eufic.org/page/it/show/latest-science news/page/LS/fftid/The_positive_influence_of_family_meals_on_childrens_food_choice/
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23551143
Sociol Health Illn. 2013 Apr 2. doi: 10.1111/1467-9566.12007. [Epub ahead of print]
The family meal panacea: exploring how different aspects of family meal occurrence, meal habits and meal enjoyment relate to young children's diets.
Utilizzando un campione rappresentativo di oltre 2.300 bambini scozzesi di 5 anni, è stato condotto uno studio allo scopo di approfondire in che misura la famiglia possa interferire sul pasto e sul regime alimentare abituale.
Si procedeva con interviste a bambini e genitori, atte a esplorare dove, quando e con chi, i bambini mangiavano abitualmente e su quanto il godimento percepito del pasto potesse influenzare la qualità della loro dieta, tenendo conto di alcuni indicatori materni che potrebbero influire, sia sui rituali del pasto, sia sulle preferenze di gusto. I dati ottenuti hanno dimostrato che quasi tutti i bambini (99%) mangiavano almeno un pasto principale in famiglia. Di questi, la maggior parte (75%) ha mangiato a orari regolari con uno o due genitori (90%). Il dato sorprendente è che il 71% ha mangiato lo stesso cibo dei genitori.
Inoltre, alcune madri (14%) hanno riferito che i pasti erano sempre molto veloci, il 19% ha lamentato che mai, o solo occasionalmente, c'era la possibilità di parlare, e un quarto ha dichiarato che i pasti non sono quasi mai, o solo occasionalmente, “buoni” per tutti i famigliari. Nella sostanza, dunque, i ricercatori ritengono che sia emerso il fattore “emulazione dei genitori” e che il contesto socio culturale familiare, specie per le madri, sia determinante nelle scelte alimentari dei bambini più piccoli.
Fonti:
The positive influence of family meals on children’s food choice
http://www.eufic.org/page/it/show/latest-science news/page/LS/fftid/The_positive_influence_of_family_meals_on_childrens_food_choice/
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23551143
Sociol Health Illn. 2013 Apr 2. doi: 10.1111/1467-9566.12007. [Epub ahead of print]
The family meal panacea: exploring how different aspects of family meal occurrence, meal habits and meal enjoyment relate to young children's diets.
Indice e carico glicemico dei cibi: quale impatto sul grasso corporeo ?
Il valore dell’indice e del carico glicemico dei cibi correla con la distribuzione del grasso corporeo. Così dimostra un recente studio inglese.
L’indice e il carico glicemico sono due parametri nutrizionali impiegati per stabilire la qualità dell’alimentazione, tuttavia, la loro capacità nel predirre l’impatto delle dieta sulle dinamiche corporee resta largamente dibattuto. Nuove evidenze suggerirebbero, invece, che il loro valore correla effettivamente con la presenza dell’obesità e, in particolare con l’accumulo di grasso in sede addominale.
Lo studio, condotto dai ricercatori del Northern Ireland Centre for Food and Health (NICHE), ha analizzato quasi 1500 soggetti di età compresa tra 19 e 64 anni, dei quali venivano registrate le abitudini alimentari giornaliere, considerando patate e pane come elementi predittivi positivi per l’indice glicemico, mentre frutta, cereali e latticini come predittori negativi. Il valore del carico glicemico veniva calcolato, più in generale, dal consumo di carboidrati.
Le analisi statistiche hanno così rivelato che sia l’indice che il carico glicemico erano indipendentemente associati con il rischio di obesità generale e addominale. A detta dei ricercatori, questi due parametri non solo possono aiutare a seguire un’alimentazione adeguata, ma sarebbero anche utili indicatori del potenziale rischio di sviluppare disordini del peso corporeo e del metabolismo.
Fonte: Murakami K, McCaffrey TA, Livingstone MB. Associations of dietary glycaemic index and glycaemic load with food and nutrient intake and general and central obesity in British adults. Br J Nutr. 2013 May 9:1-11
L’indice e il carico glicemico sono due parametri nutrizionali impiegati per stabilire la qualità dell’alimentazione, tuttavia, la loro capacità nel predirre l’impatto delle dieta sulle dinamiche corporee resta largamente dibattuto. Nuove evidenze suggerirebbero, invece, che il loro valore correla effettivamente con la presenza dell’obesità e, in particolare con l’accumulo di grasso in sede addominale.
Lo studio, condotto dai ricercatori del Northern Ireland Centre for Food and Health (NICHE), ha analizzato quasi 1500 soggetti di età compresa tra 19 e 64 anni, dei quali venivano registrate le abitudini alimentari giornaliere, considerando patate e pane come elementi predittivi positivi per l’indice glicemico, mentre frutta, cereali e latticini come predittori negativi. Il valore del carico glicemico veniva calcolato, più in generale, dal consumo di carboidrati.
Le analisi statistiche hanno così rivelato che sia l’indice che il carico glicemico erano indipendentemente associati con il rischio di obesità generale e addominale. A detta dei ricercatori, questi due parametri non solo possono aiutare a seguire un’alimentazione adeguata, ma sarebbero anche utili indicatori del potenziale rischio di sviluppare disordini del peso corporeo e del metabolismo.
Fonte: Murakami K, McCaffrey TA, Livingstone MB. Associations of dietary glycaemic index and glycaemic load with food and nutrient intake and general and central obesity in British adults. Br J Nutr. 2013 May 9:1-11
Grassi alimentari, causa di stanchezza e spossatezza durante il giorno.
Siamo quello che mangiamo.
Il detto è decisamente veritiero se consideriamo l’impatto che le abitudini alimentari hanno sul nostro stato di veglia e sulla capacità di concentrazione durante il giorno. L’osservazione giunge da un recente studio che ha dimostrato che tra gli adulti sani di peso normale, il consumo di una dieta ricca in grassi era responsabile di una maggiore spossatezza durante il giorno rispetto all’assunzione di pasti a maggiore contenuto in carbooidrati.
In particolare, la dieta ricca in grassi sarebbero in grado di ridurre lo stato di allerta e quindi sulle capacità lavorative dell’individuo. Non solo, questa situazione sarebbe in grado di compromettere la reattività e quindi rappresentare un potenziale rischio nel caso in cui si svolgano attività che richiedano particolare attenzione.
LO STUDIO: 31 soggetti sono statio reclutati per testare l’impatto della composizione della dieta sul senso di stanchezza diurno. I partecipanti, di età compresa tra 18 e 65 anni hanno trascorso 4 notti in un centro di studio dell’attività del sonno, dove ricevevano diversi tipi di pasti e il loro stato di riposo veniva analizzato.
Gli autori hanno potuto constatare che il senso di spossatezza diurno correlava positivamente con il consumo di grassi e negativamente con quello di carboidrati, indipendentemente dall’età dei partecipanti, dall’indice di massa coprorea (BMI), dal numero di ore totali di sonno e dall’assunzione calorica. Questi dati si sommano a precedenti evidenze riguardo una maggiore predisposizione a problemi del sonno associati al consumo di grassi, tra cui l’apnea del sonno.
I meccanismi alla base di questo fenomeno non sono del tutto chiari, ma potrebbero essere legati al ruolo della colecistochinina e delle citochine infiammatorie prodotte in seguito all’abuso di grassi aliementari.
Fonte : SLEEP 2013: Associated Professional Sleep Societies 27th Annual Meeting. Abstract 0977. Presented June 4, 2013.
Il detto è decisamente veritiero se consideriamo l’impatto che le abitudini alimentari hanno sul nostro stato di veglia e sulla capacità di concentrazione durante il giorno. L’osservazione giunge da un recente studio che ha dimostrato che tra gli adulti sani di peso normale, il consumo di una dieta ricca in grassi era responsabile di una maggiore spossatezza durante il giorno rispetto all’assunzione di pasti a maggiore contenuto in carbooidrati.
In particolare, la dieta ricca in grassi sarebbero in grado di ridurre lo stato di allerta e quindi sulle capacità lavorative dell’individuo. Non solo, questa situazione sarebbe in grado di compromettere la reattività e quindi rappresentare un potenziale rischio nel caso in cui si svolgano attività che richiedano particolare attenzione.
LO STUDIO: 31 soggetti sono statio reclutati per testare l’impatto della composizione della dieta sul senso di stanchezza diurno. I partecipanti, di età compresa tra 18 e 65 anni hanno trascorso 4 notti in un centro di studio dell’attività del sonno, dove ricevevano diversi tipi di pasti e il loro stato di riposo veniva analizzato.
Gli autori hanno potuto constatare che il senso di spossatezza diurno correlava positivamente con il consumo di grassi e negativamente con quello di carboidrati, indipendentemente dall’età dei partecipanti, dall’indice di massa coprorea (BMI), dal numero di ore totali di sonno e dall’assunzione calorica. Questi dati si sommano a precedenti evidenze riguardo una maggiore predisposizione a problemi del sonno associati al consumo di grassi, tra cui l’apnea del sonno.
I meccanismi alla base di questo fenomeno non sono del tutto chiari, ma potrebbero essere legati al ruolo della colecistochinina e delle citochine infiammatorie prodotte in seguito all’abuso di grassi aliementari.
Fonte : SLEEP 2013: Associated Professional Sleep Societies 27th Annual Meeting. Abstract 0977. Presented June 4, 2013.
Alimentazione e psoriasi, nuove evidenze da studio americano.
L’alimentazione può influire sullo stato della patologia. Studi longitudinali sono richiesti per stabilire il ruolo della nutrizione sulla progressione del disordine.
L’alimentazione ha un impatto significativo sullo stato della psoriasi, lo rivela un recente studio condotto dai ricercatori della University of California. In particolare, vitamina A, carotenoidi e zuccheri sembrano essere i fattori principali in grado di influenzare la condizione dermatologica. L’analisi ha valutato a relazione tra la psoriasi, stato nutrizionale e la dieta in 6260 pazienti inclusi nel National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) tra il 2003-2006.
Ebbene, lo studio ha rivelato che la presenza del disordine era associato a livelli superiori di vitamina A e α-carotene, minore consumo di zuccheri, elevato indice di massa corporea (BMI) e contemporanea presenza di artrite. L’alimentazione dunque, e in particolare lo stato nutrizionale di specifici nutrienti, sembra avere rivestire un ruolo nel mediare la severità del disordine.
Tuttavia, non è dato conoscere ad oggi l’impatto dell’alimentazione sulla progressione e della patologia né sull’efficacia dei trattamenti. Per stabilire questo, infatti, sono richiesti studi longitudinali di più lunga durata. Infine, come ha sottolineato lo studio, l’attenzione dovrebbe essere rivolta non solo alla dieta, ma anche alla condizione corporea. Già nei bambini affetti dal disordine viene riscontrata con maggiore frequenza la presenza di un eccesso di adiposità corporea generale e centrale. Questa condizione, oltre a determinare un maggiore rischio metabolico, può essere responsabile di uno stato di infiammazione cronica in grado di sostenere i processi che guidano il disordine cutaneo.
Fonte: Johnson JA, Ma C, Kanada KN Diet and nutrition in psoriasis: analysis of the National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) in the United States. J Eur Acad Dermatol Venereol. 2013 Feb 25
L’alimentazione ha un impatto significativo sullo stato della psoriasi, lo rivela un recente studio condotto dai ricercatori della University of California. In particolare, vitamina A, carotenoidi e zuccheri sembrano essere i fattori principali in grado di influenzare la condizione dermatologica. L’analisi ha valutato a relazione tra la psoriasi, stato nutrizionale e la dieta in 6260 pazienti inclusi nel National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) tra il 2003-2006.
Ebbene, lo studio ha rivelato che la presenza del disordine era associato a livelli superiori di vitamina A e α-carotene, minore consumo di zuccheri, elevato indice di massa corporea (BMI) e contemporanea presenza di artrite. L’alimentazione dunque, e in particolare lo stato nutrizionale di specifici nutrienti, sembra avere rivestire un ruolo nel mediare la severità del disordine.
Tuttavia, non è dato conoscere ad oggi l’impatto dell’alimentazione sulla progressione e della patologia né sull’efficacia dei trattamenti. Per stabilire questo, infatti, sono richiesti studi longitudinali di più lunga durata. Infine, come ha sottolineato lo studio, l’attenzione dovrebbe essere rivolta non solo alla dieta, ma anche alla condizione corporea. Già nei bambini affetti dal disordine viene riscontrata con maggiore frequenza la presenza di un eccesso di adiposità corporea generale e centrale. Questa condizione, oltre a determinare un maggiore rischio metabolico, può essere responsabile di uno stato di infiammazione cronica in grado di sostenere i processi che guidano il disordine cutaneo.
Fonte: Johnson JA, Ma C, Kanada KN Diet and nutrition in psoriasis: analysis of the National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) in the United States. J Eur Acad Dermatol Venereol. 2013 Feb 25
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La carne è spesso denigrata, dal punto di vista dei salutisti, e qualche volta anche ingiustamente dato che l’uomo è un carnivoro di natura.
Questo è nella sostanza ciò che pensano alcuni ricercatori danesi che, una volta tanto, hanno fatto il punto sui benefici effetti del consumo di carne. Oltre a fattori nutritivi di elevata qualità e disponibilità (ferro, vitamina B12), agli aminoacidi essenziali, la carne offre elementi importanti per la salute umana, spesso trascurati.
Si tratta di aminoacidi e composti bioattivi che possono essere molto importanti per: la prevenzione delle malattie che comportano atrofia muscolare (sarcopenia); la riduzione dell'apporto calorico degli alimenti e per prevenire la sindrome metabolica, il mantenimento dell’omeostasi della pressione sanguigna tramite ACE-inibitori componenti del tessuto connettivo; e il mantenimento della funzionalità dell'ambiente intestinale attraverso nucleotidi e nucleosidi carne-derivati.
Inoltre, la carne potrebbe essere una fonte importante di acido fitanico (o acido 3,7,11,15-tetrametil esadecanoico - acido grasso a catena ramificata che l'uomo introduce nell'organismo solo attraverso il consumo di carni), acidi linoleici coniugati e antiossidanti. Inoltre, dalle ultime evidenze sperimentali, presto sarà possibile ottenere carne modificata in vitro, e questo potrebbe portare a migliori benefici per la salute da prodotti a base di carne commercialmente praticabili e sostenibili.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23688796
Meat Sci. 2013 Apr 23. pii: S0309-1740(13)00158-7. doi: 10.1016/j.meatsci.2013.04.036. [Epub ahead of print]
Novel aspects of health promoting compounds in meat.
Questo è nella sostanza ciò che pensano alcuni ricercatori danesi che, una volta tanto, hanno fatto il punto sui benefici effetti del consumo di carne. Oltre a fattori nutritivi di elevata qualità e disponibilità (ferro, vitamina B12), agli aminoacidi essenziali, la carne offre elementi importanti per la salute umana, spesso trascurati.
Si tratta di aminoacidi e composti bioattivi che possono essere molto importanti per: la prevenzione delle malattie che comportano atrofia muscolare (sarcopenia); la riduzione dell'apporto calorico degli alimenti e per prevenire la sindrome metabolica, il mantenimento dell’omeostasi della pressione sanguigna tramite ACE-inibitori componenti del tessuto connettivo; e il mantenimento della funzionalità dell'ambiente intestinale attraverso nucleotidi e nucleosidi carne-derivati.
Inoltre, la carne potrebbe essere una fonte importante di acido fitanico (o acido 3,7,11,15-tetrametil esadecanoico - acido grasso a catena ramificata che l'uomo introduce nell'organismo solo attraverso il consumo di carni), acidi linoleici coniugati e antiossidanti. Inoltre, dalle ultime evidenze sperimentali, presto sarà possibile ottenere carne modificata in vitro, e questo potrebbe portare a migliori benefici per la salute da prodotti a base di carne commercialmente praticabili e sostenibili.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23688796
Meat Sci. 2013 Apr 23. pii: S0309-1740(13)00158-7. doi: 10.1016/j.meatsci.2013.04.036. [Epub ahead of print]
Novel aspects of health promoting compounds in meat.
Diete rischiose: il caso Dukan
L’estate si sta avvicinando, anche se non sembra, e molti temerari, al primo raggio di sole, hanno già fatto la “prova costume” che quest’anno è fallita per oltre quattro italiani su dieci. E le diete dimagranti imperversano sui media senza regole.
Dall’estetica all’etica
Il desiderio di magrezza, più sentito dalle donne, è un fenomeno preoccupante esploso anche nel Vecchio Continente, Italia compresa. Come risulta dallo studio francese Nutrinet Santé (un progetto di sorveglianza nato nel 2009 e ancora in corso dedicato ad approfondire le relazioni esistenti tra salute e nutrizione in Francia) degli oltre 100 mila partecipanti all’indagine, due donne ogni tre e metà degli uomini, hanno dichiarato che vorrebbero pesare di meno, e la motivazione per la quale la maggioranza dei nostri vicini ha deciso di mettersi a dieta, è l’estetica e non la salute.
Per ritornare in forma, circa un terzo dei francesi ha scelto diete famose, fra le quali spicca la famigerata Dukan, che negli ultimi due anni sta invadendo anche l’Italia. E subito, tra gli esperti, si comincia a parlare di rischi per la salute. In proposito, il ministro della Salute francese, già nel 2010, aveva incaricato l’Anses (Agence nationale de sécurité sanitaire de l’alimentation, de l'environnement et du travail) di valutare i possibili rischi associati alle diete dimagranti più in voga. Sono state così analizzate le diete restrittive che, in tutto il mondo occidentale, sono pubblicizzate da un pressante martellamento mediatico, e quasi tutte emergono dal rapporto francese come rischiose per diversi motivi.
Per quanto riguarda le proteine, per esempio, secondo gli esperti dell’Anses, quasi tutte le diete dimagranti più conosciute, ne contengono in quantità massicce. La Dukan 3, per esempio, ha un contenuto di proteine che è addirittura più del triplo del valore consigliato e che si basa sull’aumento del consumo di carni. Un tale tenore iperproteico alimenta pericolosamente il carico renale e, come se non bastasse, la Dukan apporta un eccesso di sodio con le conseguenze di un aumento della pressione arteriosa e del rischio di malattie cardiovascolari. Ma non è tutto! La dieta di Dukan, osannata perché permette di ottenere dimagrimenti abbastanza rapidi, con i suoi grossi consumi di carne che vanno mantenuti per sempre, potrebbe aumentare il rischio dell’insorgenza di alcuni tipi di tumore (cancro del colon), soprattutto se si riduce l’apporto di fibra, proprio come raccomanda l’autore.
Comunque finalmente, dopo anni di discussioni, nel 2012 Pierre Dukan è stato radiato dall’Ordine dei medici. È stato lo stesso medico a presentare la richiesta senza specificarne le ragioni. C’è da dire che contro il dietologo d’oltralpe sono in corso alcuni procedimenti disciplinari, per l’accusa di aver violato il codice etico dei medici e le autorità ritengono che i suoi metodi abbiano un grande effetto di mercato a scapito della salute dei cittadini ignari, quindi, le sue dimissioni, quasi spontanee, non serviranno a pagare i suoi debiti, dato che il suo comportamento è stato giudicato come un abuso della professione.
Discussione e clinica pratica
Partendo dal desiderio che il mercato delle diete sbagliate possa subire finalmente qualche colpo basso definitivo, è doveroso rimarcare che in termini di propensione alla dieta dimagrante, l’opinione comune dei cittadini è sostanzialmente confusionale. La prima evidenza è l’insoddisfazione per la propria immagine corporea cui consegue il desiderio di perdere peso anche quando non esiste un reale bisogno, non certo ai fini di migliorare la propria salute.
E di conseguenza molti continuano a ripetere l’errore, desiderando raggiungere obiettivi di magrezza deleteri e per lo più non sostenibili. Si conferma, per l’ennesima volta, la necessità primaria di educare la popolazione e formare gli specialisti che dovranno pianificare un regime dietetico personalizzato e adeguato allo stato nutrizionale del paziente, col fine unico di restringere i rischi del sovrappeso e i danni della disnutrizione, piuttosto che il solo “punto vita”.
E se la domanda più frequente dei nostri pazienti è, oggi più di ieri, sempre la stessa: “per perdere solo un paio di chili che cosa bisogna fare?” L’unica risposta che un professionista della nutrizione può e deve dare è: “aumentare il movimento, adottare una dieta regolare, bilanciata in tutte le componenti, con più attenzione alle porzioni e con abbondanza di frutta e verdura”. Non senza sottolineare che ogni dieta dimagrante va attentamente personalizzata da un professionista qualificato.
Fonti:
Prova costume fallita per 40% italiani
ANSA 15 aprile 2013
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2013/04/15/Prova-costume-fallita-40-italiani_8554972.html
http://www.ilfattoalimentare.it/dukan-dieta-radiato.html
Il fatto alimentare - NUTRIZIONE
Dieta Dukan: il nutrizionista francese è stato radiato dall`Ordine dei medici. Le criticità della dieta
17 maggio 2012
Corriere.it
Salute/nutrizione - Carla Favaro
23 maggio 2011
Più difetti che pregi nelle diete famose proposte per dimagrire
http://www.corriere.it/salute/nutrizione/11_maggio_23/dossier-diete-pregi-difetti-favaro_bc26c3ac-830b-11e0-baac-f3bedd074966.shtml
http://www.anses.fr/Documents/NUT2009sa0099Ra.pdf
Anses – novembre 2010
Rapport d’expertise collective
Évaluation des risques liés aux pratiques alimentaires d’amaigrissement
26.11.2010 www.sanitaincifre.it
Atkins, Dukan, Montignac, Californiana: ecco i rischi delle diverse diete dimagranti
Dall’estetica all’etica
Il desiderio di magrezza, più sentito dalle donne, è un fenomeno preoccupante esploso anche nel Vecchio Continente, Italia compresa. Come risulta dallo studio francese Nutrinet Santé (un progetto di sorveglianza nato nel 2009 e ancora in corso dedicato ad approfondire le relazioni esistenti tra salute e nutrizione in Francia) degli oltre 100 mila partecipanti all’indagine, due donne ogni tre e metà degli uomini, hanno dichiarato che vorrebbero pesare di meno, e la motivazione per la quale la maggioranza dei nostri vicini ha deciso di mettersi a dieta, è l’estetica e non la salute.
Per ritornare in forma, circa un terzo dei francesi ha scelto diete famose, fra le quali spicca la famigerata Dukan, che negli ultimi due anni sta invadendo anche l’Italia. E subito, tra gli esperti, si comincia a parlare di rischi per la salute. In proposito, il ministro della Salute francese, già nel 2010, aveva incaricato l’Anses (Agence nationale de sécurité sanitaire de l’alimentation, de l'environnement et du travail) di valutare i possibili rischi associati alle diete dimagranti più in voga. Sono state così analizzate le diete restrittive che, in tutto il mondo occidentale, sono pubblicizzate da un pressante martellamento mediatico, e quasi tutte emergono dal rapporto francese come rischiose per diversi motivi.
Per quanto riguarda le proteine, per esempio, secondo gli esperti dell’Anses, quasi tutte le diete dimagranti più conosciute, ne contengono in quantità massicce. La Dukan 3, per esempio, ha un contenuto di proteine che è addirittura più del triplo del valore consigliato e che si basa sull’aumento del consumo di carni. Un tale tenore iperproteico alimenta pericolosamente il carico renale e, come se non bastasse, la Dukan apporta un eccesso di sodio con le conseguenze di un aumento della pressione arteriosa e del rischio di malattie cardiovascolari. Ma non è tutto! La dieta di Dukan, osannata perché permette di ottenere dimagrimenti abbastanza rapidi, con i suoi grossi consumi di carne che vanno mantenuti per sempre, potrebbe aumentare il rischio dell’insorgenza di alcuni tipi di tumore (cancro del colon), soprattutto se si riduce l’apporto di fibra, proprio come raccomanda l’autore.
Comunque finalmente, dopo anni di discussioni, nel 2012 Pierre Dukan è stato radiato dall’Ordine dei medici. È stato lo stesso medico a presentare la richiesta senza specificarne le ragioni. C’è da dire che contro il dietologo d’oltralpe sono in corso alcuni procedimenti disciplinari, per l’accusa di aver violato il codice etico dei medici e le autorità ritengono che i suoi metodi abbiano un grande effetto di mercato a scapito della salute dei cittadini ignari, quindi, le sue dimissioni, quasi spontanee, non serviranno a pagare i suoi debiti, dato che il suo comportamento è stato giudicato come un abuso della professione.
Discussione e clinica pratica
Partendo dal desiderio che il mercato delle diete sbagliate possa subire finalmente qualche colpo basso definitivo, è doveroso rimarcare che in termini di propensione alla dieta dimagrante, l’opinione comune dei cittadini è sostanzialmente confusionale. La prima evidenza è l’insoddisfazione per la propria immagine corporea cui consegue il desiderio di perdere peso anche quando non esiste un reale bisogno, non certo ai fini di migliorare la propria salute.
E di conseguenza molti continuano a ripetere l’errore, desiderando raggiungere obiettivi di magrezza deleteri e per lo più non sostenibili. Si conferma, per l’ennesima volta, la necessità primaria di educare la popolazione e formare gli specialisti che dovranno pianificare un regime dietetico personalizzato e adeguato allo stato nutrizionale del paziente, col fine unico di restringere i rischi del sovrappeso e i danni della disnutrizione, piuttosto che il solo “punto vita”.
E se la domanda più frequente dei nostri pazienti è, oggi più di ieri, sempre la stessa: “per perdere solo un paio di chili che cosa bisogna fare?” L’unica risposta che un professionista della nutrizione può e deve dare è: “aumentare il movimento, adottare una dieta regolare, bilanciata in tutte le componenti, con più attenzione alle porzioni e con abbondanza di frutta e verdura”. Non senza sottolineare che ogni dieta dimagrante va attentamente personalizzata da un professionista qualificato.
Fonti:
Prova costume fallita per 40% italiani
ANSA 15 aprile 2013
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2013/04/15/Prova-costume-fallita-40-italiani_8554972.html
http://www.ilfattoalimentare.it/dukan-dieta-radiato.html
Il fatto alimentare - NUTRIZIONE
Dieta Dukan: il nutrizionista francese è stato radiato dall`Ordine dei medici. Le criticità della dieta
17 maggio 2012
Corriere.it
Salute/nutrizione - Carla Favaro
23 maggio 2011
Più difetti che pregi nelle diete famose proposte per dimagrire
http://www.corriere.it/salute/nutrizione/11_maggio_23/dossier-diete-pregi-difetti-favaro_bc26c3ac-830b-11e0-baac-f3bedd074966.shtml
http://www.anses.fr/Documents/NUT2009sa0099Ra.pdf
Anses – novembre 2010
Rapport d’expertise collective
Évaluation des risques liés aux pratiques alimentaires d’amaigrissement
26.11.2010 www.sanitaincifre.it
Atkins, Dukan, Montignac, Californiana: ecco i rischi delle diverse diete dimagranti
Anziani e qualità della dieta
Durante l’invecchiamento le scelte alimentari diventano di primaria importanza per la salute fisica e mentale. E gli anziani vanno adeguatamente indirizzati.
Allo scopo d’individuare i fattori soggettivi e collettivi che influenzano la qualità della dieta abituale (DQ), un gruppo di ricercatori canadesi ha osservato 1.793 soggetti adulti (52% donne) nell’ambito dello studio NuAge. Tutti i partecipanti, di età compresa tra 67-84 anni, in relativa buona salute, sono stati reclutati dal Database Québec Medicare.
Utilizzando questionari sono stati ottenuti i dati socio-demografici, sulle funzioni affettiva e cognitiva, sulle condizioni di salute, sulla salute fisica percepita, sullo stato funzionale, le abitudini alimentari e gli attributi alimentari, e sulle risorse della comunità di appartenenza. Sono stati misurati peso e altezza e calcolato il BMI. Al momento del reclutamento sono stati raccolti i dati relativi alla dieta di 3 diari 24 recallnon consecutivi.
La qualità della dieta DQ, è stata valutata utilizzando l’indice canadese Healthy Eating Index (C-HEI, / 100), che è stato calcolato sulle assunzioni medie dei diari. Le analisi sono state stratificate per sesso. In estrema sintesi si sono delineati due modelli finali sulla base dei due sessi.
Tra gli uomini, il modello finale ha mostrato l'istruzione superiore, la conoscenza sulla dieta, il numero di pasti giornalieri e la salute fisica percepita come fattori determinanti positivi di DQ, mentre il consumo di alcol, la presenza di protesi dentarie, e mangiare spesso fuori casa, sono stati i determinanti negativi di DQ. Tra le donne, l'istruzione superiore, la conoscenza sulla dieta, il numero di pasti giornalieri, e la fame sono stati determinanti positivi della DQ; il BMI più elevato e i problemi di masticazione sono stati determinanti negativi di DQ.
Gli autori ritengono che questi studi debbano essere ulteriormente approfonditi in modo di poter garantire alle popolazioni anziane una qualità di vita migliore.
Clinica pratica
Non è facile intervenire sulla correzione delle abitudini dietetiche delle persone anziane; tuttavia quando il nutrizionista riesce a instaurare un rapporto di fiducia reciproca, il paziente anziano risponde sempre con scrupolosa collaborazione alle prescrizioni e alle raccomandazioni del suo medico, e con ottimi risultati.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23636542
J Nutr Health Aging. 2013;17(5):419-25. doi: 10.1007/s12603-012-0436-y.
Baseline Determinants of Global Diet Quality in Older Men and Women from the NuAge Cohort.
Allo scopo d’individuare i fattori soggettivi e collettivi che influenzano la qualità della dieta abituale (DQ), un gruppo di ricercatori canadesi ha osservato 1.793 soggetti adulti (52% donne) nell’ambito dello studio NuAge. Tutti i partecipanti, di età compresa tra 67-84 anni, in relativa buona salute, sono stati reclutati dal Database Québec Medicare.
Utilizzando questionari sono stati ottenuti i dati socio-demografici, sulle funzioni affettiva e cognitiva, sulle condizioni di salute, sulla salute fisica percepita, sullo stato funzionale, le abitudini alimentari e gli attributi alimentari, e sulle risorse della comunità di appartenenza. Sono stati misurati peso e altezza e calcolato il BMI. Al momento del reclutamento sono stati raccolti i dati relativi alla dieta di 3 diari 24 recallnon consecutivi.
La qualità della dieta DQ, è stata valutata utilizzando l’indice canadese Healthy Eating Index (C-HEI, / 100), che è stato calcolato sulle assunzioni medie dei diari. Le analisi sono state stratificate per sesso. In estrema sintesi si sono delineati due modelli finali sulla base dei due sessi.
Tra gli uomini, il modello finale ha mostrato l'istruzione superiore, la conoscenza sulla dieta, il numero di pasti giornalieri e la salute fisica percepita come fattori determinanti positivi di DQ, mentre il consumo di alcol, la presenza di protesi dentarie, e mangiare spesso fuori casa, sono stati i determinanti negativi di DQ. Tra le donne, l'istruzione superiore, la conoscenza sulla dieta, il numero di pasti giornalieri, e la fame sono stati determinanti positivi della DQ; il BMI più elevato e i problemi di masticazione sono stati determinanti negativi di DQ.
Gli autori ritengono che questi studi debbano essere ulteriormente approfonditi in modo di poter garantire alle popolazioni anziane una qualità di vita migliore.
Clinica pratica
Non è facile intervenire sulla correzione delle abitudini dietetiche delle persone anziane; tuttavia quando il nutrizionista riesce a instaurare un rapporto di fiducia reciproca, il paziente anziano risponde sempre con scrupolosa collaborazione alle prescrizioni e alle raccomandazioni del suo medico, e con ottimi risultati.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23636542
J Nutr Health Aging. 2013;17(5):419-25. doi: 10.1007/s12603-012-0436-y.
Baseline Determinants of Global Diet Quality in Older Men and Women from the NuAge Cohort.
Sindrome metabolica e dieta: quante proteine?
Le diete dimagranti con differente distribuzione dei macronutrienti, sono continuo oggetto di studio e discussione, soprattutto per quanto riguarda la percentuale delle proteine raccomandabile nel trattamento della sindrome metabolica.
Alcuni ricercatori americani hanno valutato le oscillazioni del peso di due diete prescritte a uomini in sovrappeso e obesi. In particolare le due diete variavano nel contenuto proteico (0,8 vs 1,4 g di proteine · kg (-1) giorno (-1) e gli effetti venivano verificati sui cambiamenti di peso, sulla composizione corporea, negli indici di sindrome metabolica, e sul dispendio energetico a riposo (REE).
Le distribuzioni di macronutrienti delle diete erano: nella prima a normale contenuto proteico NP (0,8 g di proteine/Kg al giorno) 25:60:15 e nell’altra a elevato contenuto proteico HP (1,4 g di proteine /Kg al giorno) 25:50:25 per cento di energia rispettivamente da grassi, carboidrati e proteine. Le valutazioni sono state effettuate prima e dopo l'intervento che durava 12 settimane. Gli uomini reclutati sono stati randomizzati in 2 gruppi NP (n=21) e HP (n=22) le cui diete apportavano 750 kcal giorno.
Al termine dell’osservazione si è visto che entrambi i gruppi riportavano una perdita di peso e di massa del tutto simili. Tuttavia, il gruppo HP ha perso meno massa rispetto al gruppo NP (-1.9 ± 0.3 vs -3.0 ± 0.4 kg). Gli effetti delle proteine e lo stato del BMI sulla perdita di massa magra erano additivi. Le riduzioni del colesterolo totale, HDL, dei trigliceridi, della glicemia e dell’insulina, insieme al colesterolo LDL, al rapporto tra colesterolo totale -vs- colesterolo HDL, e il test di resistenza insulinica (HOMA-IR), non erano statisticamente differenti tra NP e HP.
Allo stesso modo, le distribuzioni di macronutrienti della dieta non hanno influenzato le riduzioni di REE, e la pressione arteriosa. In conclusione, secondo gli autori, la restrizione energetica migliorava efficacemente gli indicatori clinici di salute cardiovascolare, il controllo della glicemia. Inoltre, la dieta a elevato contenuto proteico sembra conservare la massa magra nonostante la perdita di peso.
Clinica pratica
Per il frazionamento e la ridistribuzione dei macronutrienti in un piano dietetico oggi non c’è che affidarsi ai sistemi computerizzati che hanno soppiantato, con successo, i calcoli percentuali obsoleti. Fermo restando che ogni sistema computerizzato per il calcolo di una terapia alimentare va gestito da mani competenti.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23592676
Obesity (Silver Spring). 2013 Mar;21(3):E204-10. doi: 10.1002/oby.20078.
Normal vs. high-protein weight loss diets in men: Effects on body composition and indices of metabolic syndrome.
Alcuni ricercatori americani hanno valutato le oscillazioni del peso di due diete prescritte a uomini in sovrappeso e obesi. In particolare le due diete variavano nel contenuto proteico (0,8 vs 1,4 g di proteine · kg (-1) giorno (-1) e gli effetti venivano verificati sui cambiamenti di peso, sulla composizione corporea, negli indici di sindrome metabolica, e sul dispendio energetico a riposo (REE).
Le distribuzioni di macronutrienti delle diete erano: nella prima a normale contenuto proteico NP (0,8 g di proteine/Kg al giorno) 25:60:15 e nell’altra a elevato contenuto proteico HP (1,4 g di proteine /Kg al giorno) 25:50:25 per cento di energia rispettivamente da grassi, carboidrati e proteine. Le valutazioni sono state effettuate prima e dopo l'intervento che durava 12 settimane. Gli uomini reclutati sono stati randomizzati in 2 gruppi NP (n=21) e HP (n=22) le cui diete apportavano 750 kcal giorno.
Al termine dell’osservazione si è visto che entrambi i gruppi riportavano una perdita di peso e di massa del tutto simili. Tuttavia, il gruppo HP ha perso meno massa rispetto al gruppo NP (-1.9 ± 0.3 vs -3.0 ± 0.4 kg). Gli effetti delle proteine e lo stato del BMI sulla perdita di massa magra erano additivi. Le riduzioni del colesterolo totale, HDL, dei trigliceridi, della glicemia e dell’insulina, insieme al colesterolo LDL, al rapporto tra colesterolo totale -vs- colesterolo HDL, e il test di resistenza insulinica (HOMA-IR), non erano statisticamente differenti tra NP e HP.
Allo stesso modo, le distribuzioni di macronutrienti della dieta non hanno influenzato le riduzioni di REE, e la pressione arteriosa. In conclusione, secondo gli autori, la restrizione energetica migliorava efficacemente gli indicatori clinici di salute cardiovascolare, il controllo della glicemia. Inoltre, la dieta a elevato contenuto proteico sembra conservare la massa magra nonostante la perdita di peso.
Clinica pratica
Per il frazionamento e la ridistribuzione dei macronutrienti in un piano dietetico oggi non c’è che affidarsi ai sistemi computerizzati che hanno soppiantato, con successo, i calcoli percentuali obsoleti. Fermo restando che ogni sistema computerizzato per il calcolo di una terapia alimentare va gestito da mani competenti.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23592676
Obesity (Silver Spring). 2013 Mar;21(3):E204-10. doi: 10.1002/oby.20078.
Normal vs. high-protein weight loss diets in men: Effects on body composition and indices of metabolic syndrome.
Gravidanza e diabete: quale dieta?
Una dieta a basso indice glicemico (LGI) durante la gravidanza complicata da diabete gestazionale (GDM) può essere benefica tanto quanto una dieta convenzionale con più fibre.
Questo, in buona sostanza, è il risultato di uno studio australiano che ha coinvolto 58 donne (età: 23-41 anni; media ± SD pre-gravidanza indice di massa corporea: 24,5 ± 5,6 kg/m -2) con diabete gestazionale.
Una parte delle donne seguiva una dietaLGI (n = 33) e l’altra parte una dieta convenzionale ad elevato contenuto di fibre (HF, n = 25). Sui due gruppi venivano misurati: il test OGTT durante la gravidanza e i lipidi nel sangue 3 mesi dopo il parto. Le valutazioni antropometriche sono state condotte per 55 coppie madre-bambino.
Si è così evidenziato che l'indice glicemico delle diete prenatali differiva scarsamente, ma non vi erano differenze significative in nessuno dei risultati post-natali. In conclusione gli autori ritengono che la dieta a basso indice glicemico non abbia dato risultati significativi al confronto con la dieta convenzionale e suggeriscono di tentare lo stesso metodo di studio con i fattori di rischio delle malattie croniche.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23638904
Matern Child Nutr. 2013 May 3. doi: 10.1111/mcn.12039. [Epub ahead of print]Effect of a low glycaemic index diet in gestational diabetes mellitus on post-natal outcomes after 3 months of birth: a pilot follow-up study.
Questo, in buona sostanza, è il risultato di uno studio australiano che ha coinvolto 58 donne (età: 23-41 anni; media ± SD pre-gravidanza indice di massa corporea: 24,5 ± 5,6 kg/m -2) con diabete gestazionale.
Una parte delle donne seguiva una dietaLGI (n = 33) e l’altra parte una dieta convenzionale ad elevato contenuto di fibre (HF, n = 25). Sui due gruppi venivano misurati: il test OGTT durante la gravidanza e i lipidi nel sangue 3 mesi dopo il parto. Le valutazioni antropometriche sono state condotte per 55 coppie madre-bambino.
Si è così evidenziato che l'indice glicemico delle diete prenatali differiva scarsamente, ma non vi erano differenze significative in nessuno dei risultati post-natali. In conclusione gli autori ritengono che la dieta a basso indice glicemico non abbia dato risultati significativi al confronto con la dieta convenzionale e suggeriscono di tentare lo stesso metodo di studio con i fattori di rischio delle malattie croniche.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23638904
Matern Child Nutr. 2013 May 3. doi: 10.1111/mcn.12039. [Epub ahead of print]Effect of a low glycaemic index diet in gestational diabetes mellitus on post-natal outcomes after 3 months of birth: a pilot follow-up study.
Diabete 2 : via libera alla frutta !
Nella dietoterapia del diabete mellito di tipo 2 l’aumento del consumo di frutta è considerato come valida opzione di trattamento, ma che accade al compenso glicemico?
Alcuni ricercatori danesi hanno indagato la questione partendo dal presupposto che una riduzione dei consumi di frutta potesse influenzare il livello plasmatico di HbA1c, il peso corporeo e la circonferenza vita. Si procedeva con un intervento correttivo su due gruppi paralleli di uomini e donne (totale n=63) con diabete 2. L'endpoint primario era un cambiamento di HbA1c durante 12 settimane di intervento.
I partecipanti sono stati randomizzati a uno dei seguenti interventi; terapia medica nutrizionale + consiglio di consumare almeno due pezzi di frutta al giorno (+ frutta ) o la terapia medica nutrizionale + consigli per consumare non più di due pezzi di frutta al giorno (- frutta ). Tutti i partecipanti si consultavano regolarmente con un dietista e riportavano i consumi su un diario FFQ (3giorni/ recall). Tutte le valutazioni sono state effettuate secondo "intention to treat". Al termine dello studio il gruppo (+ frutta ) aveva aumentato l’assunzione di frutta di 125 grammi e il gruppo (-frutta ) aveva ridotto l’apporto di frutta di 51 grammi.
Tuttavia, nei 12 mesi d’osservazione, in entrambi i gruppi, non si evidenziavano differenze significative nel compenso glicemico e nella composizione corporea, seppure tutti i partecipanti avessero riportato una riduzione del peso. Gli autori ritengono, dunque, che nella terapia nutrizionale dei diabetici di tipo 2, sia consigliabile non limitare il consumo di frutta.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23497350
Nutr J. 2013 Mar 5;12:29. doi: 10.1186/1475-2891-12-29.
Effect of fruit restriction on glycemic control in patients with type 2 diabetes - a randomized trial.
Alcuni ricercatori danesi hanno indagato la questione partendo dal presupposto che una riduzione dei consumi di frutta potesse influenzare il livello plasmatico di HbA1c, il peso corporeo e la circonferenza vita. Si procedeva con un intervento correttivo su due gruppi paralleli di uomini e donne (totale n=63) con diabete 2. L'endpoint primario era un cambiamento di HbA1c durante 12 settimane di intervento.
I partecipanti sono stati randomizzati a uno dei seguenti interventi; terapia medica nutrizionale + consiglio di consumare almeno due pezzi di frutta al giorno (+ frutta ) o la terapia medica nutrizionale + consigli per consumare non più di due pezzi di frutta al giorno (- frutta ). Tutti i partecipanti si consultavano regolarmente con un dietista e riportavano i consumi su un diario FFQ (3giorni/ recall). Tutte le valutazioni sono state effettuate secondo "intention to treat". Al termine dello studio il gruppo (+ frutta ) aveva aumentato l’assunzione di frutta di 125 grammi e il gruppo (-frutta ) aveva ridotto l’apporto di frutta di 51 grammi.
Tuttavia, nei 12 mesi d’osservazione, in entrambi i gruppi, non si evidenziavano differenze significative nel compenso glicemico e nella composizione corporea, seppure tutti i partecipanti avessero riportato una riduzione del peso. Gli autori ritengono, dunque, che nella terapia nutrizionale dei diabetici di tipo 2, sia consigliabile non limitare il consumo di frutta.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23497350
Nutr J. 2013 Mar 5;12:29. doi: 10.1186/1475-2891-12-29.
Effect of fruit restriction on glycemic control in patients with type 2 diabetes - a randomized trial.
Gravidanze troppo pesanti
Il sovrappeso e l’obesità in gravidanza aumentano il rischio di esiti materni e neonatali avversi in maniera proporzionale al BMI.
Una popolazione di riferimento dell’Irlanda del nord, per un totale di 30.298 donne in gravidanza (singola), sono state osservate per un periodo di 8 anni, 2004-2011. Le donne sono state suddivise secondo la classificazione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità in: sottopeso (BMI<18,50 kg / m 2 ); peso normale (BMI 18,50-24,99 kg / m 2; gruppo di riferimento), sovrappeso (BMI 25-29,99 kg / m2 ); obese di classe I (BMI 30-34,99 kg / m 2 ); obese di classe II (BMI 35-39,99 kg / m 2 ) e di classe III (BMI ≥ 40 kg / m 2 ).
Lo scopo primario era verificare gli esiti materni e neonatali. Dopo un’analisi dei dati ottenuti, si è evidenziato che rispetto alle donne di peso normale, le donne in sovrappeso o obese mostravano un significativo aumento del rischio di disturbi ipertensivi della gravidanza; diabete mellito gestazionale; induzione del parto, emorragia post-partum e macrosomia del neonato, con rischi crescenti per le obese di classe II e III. E le donne obese di classe III mostravano anche un aumento del rischio di parto pretermine, di neonati morti e un soggiorno in ospedale > 5 giorni, dato che i figli richiedevano l'ammissione a una unità di cure intensive.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23530609?dopt=Abstract
BJOG. 2013 Mar 27. doi: 10.1111/1471-0528.12193. [Epub ahead of print]
The impact of body mass index on maternal and neonatal outcomes: a retrospective study in a UK obstetric population, 2004-2011.
Una popolazione di riferimento dell’Irlanda del nord, per un totale di 30.298 donne in gravidanza (singola), sono state osservate per un periodo di 8 anni, 2004-2011. Le donne sono state suddivise secondo la classificazione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità in: sottopeso (BMI<18,50 kg / m 2 ); peso normale (BMI 18,50-24,99 kg / m 2; gruppo di riferimento), sovrappeso (BMI 25-29,99 kg / m2 ); obese di classe I (BMI 30-34,99 kg / m 2 ); obese di classe II (BMI 35-39,99 kg / m 2 ) e di classe III (BMI ≥ 40 kg / m 2 ).
Lo scopo primario era verificare gli esiti materni e neonatali. Dopo un’analisi dei dati ottenuti, si è evidenziato che rispetto alle donne di peso normale, le donne in sovrappeso o obese mostravano un significativo aumento del rischio di disturbi ipertensivi della gravidanza; diabete mellito gestazionale; induzione del parto, emorragia post-partum e macrosomia del neonato, con rischi crescenti per le obese di classe II e III. E le donne obese di classe III mostravano anche un aumento del rischio di parto pretermine, di neonati morti e un soggiorno in ospedale > 5 giorni, dato che i figli richiedevano l'ammissione a una unità di cure intensive.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23530609?dopt=Abstract
BJOG. 2013 Mar 27. doi: 10.1111/1471-0528.12193. [Epub ahead of print]
The impact of body mass index on maternal and neonatal outcomes: a retrospective study in a UK obstetric population, 2004-2011.
Cuore a rischio con eccesso di fosforo nella dieta
L’eccesso di fosforo nella dieta può aumentare il rischio di ipertrofia ventricolare. Così dimostra un recente studio.
Attenzione al contenuto di fosforo nei cibi, un suo eccessivo consumo potrebbe essere causa di ipertrofia del ventricolo sinistro, specialmente nella donna. Così avvertono i ricercatori del dipartimento di nefrologia della University of Washington.
Il fosforo è un elemento pressochè onnipresente nei cibi, ma recenti studi hanno dimostrato che la sua assimilazione sarebbe superiore quando le fonti alimentari sono carne e latticini rispetto a prodotti di origini vegetale.
Nonostante il fosforo costituisca un elemento essenziale per l’organismo, e venga richiesto per il corretto funzionamento di differenti organi e sistemi, un suo eccessivo consumo potrebbe mettere a rischio la salute cardiaca.
Questo almeno quanto emerge dall’analisi della relazione tra l’assunzione dell’elemento attraverso la dieta e il volume della massa ventricolare sinistra.
Gli autori hanno infatti esaminato questa associazione in un vasto campione comprendente quasi 4500 partecipanti arruolati nel Multi-Ethnic Study of Atherosclerosis. In seguito a correzione per caratteristiche demografiche, presenza di malattie, consumo totale di calorie e sodio, gli autori hanno potuto osservare chiaramente che per ogni aumento nei quintili di assunzione di fosforo correlavano con un aumento pari a 1 g del volume del ventricolo sinistro, misurato attraverso risonanza magnetica. Gli individui caratterizzati da un maggiore consumo dell’elemento presentavano, in media un volume ventricolare di 6,1 g superiore rispetto a coloro a consumo più basso. Queste associazioni erano più marcate tra le donne.
Fonte:Kalani T Yamamoto, Cassianne Robinson-Cohen, Marcia C de Oliveira et al. Dietary phosphorus is associated with greater left ventricular mass Kidney International (2013)
Attenzione al contenuto di fosforo nei cibi, un suo eccessivo consumo potrebbe essere causa di ipertrofia del ventricolo sinistro, specialmente nella donna. Così avvertono i ricercatori del dipartimento di nefrologia della University of Washington.
Il fosforo è un elemento pressochè onnipresente nei cibi, ma recenti studi hanno dimostrato che la sua assimilazione sarebbe superiore quando le fonti alimentari sono carne e latticini rispetto a prodotti di origini vegetale.
Nonostante il fosforo costituisca un elemento essenziale per l’organismo, e venga richiesto per il corretto funzionamento di differenti organi e sistemi, un suo eccessivo consumo potrebbe mettere a rischio la salute cardiaca.
Questo almeno quanto emerge dall’analisi della relazione tra l’assunzione dell’elemento attraverso la dieta e il volume della massa ventricolare sinistra.
Gli autori hanno infatti esaminato questa associazione in un vasto campione comprendente quasi 4500 partecipanti arruolati nel Multi-Ethnic Study of Atherosclerosis. In seguito a correzione per caratteristiche demografiche, presenza di malattie, consumo totale di calorie e sodio, gli autori hanno potuto osservare chiaramente che per ogni aumento nei quintili di assunzione di fosforo correlavano con un aumento pari a 1 g del volume del ventricolo sinistro, misurato attraverso risonanza magnetica. Gli individui caratterizzati da un maggiore consumo dell’elemento presentavano, in media un volume ventricolare di 6,1 g superiore rispetto a coloro a consumo più basso. Queste associazioni erano più marcate tra le donne.
Fonte:Kalani T Yamamoto, Cassianne Robinson-Cohen, Marcia C de Oliveira et al. Dietary phosphorus is associated with greater left ventricular mass Kidney International (2013)
Aumento di peso con la menopausa : quali cause?
Quali fattori contribuiscono all’aumento di peso che si accompagna alla transizione verso la menopausa? Come è possibile prevenire questa situazione?
A questi quesiti hanno risposto i ricercatori canadesi della University of Ottawa, i quali hanno identificato nel diffuso abbandono dell’attività fisica, nel periodo che coincide con l’insorgere della menopausa, il principale fattore responsabile dell’aumento di peso femminile. In breve, la donna prossima alla menopausa ridurrebbe significativamente i livelli di esercizio fisico, e quindi della spesa energetica.
Lo studio, pubblicato sulla rivista European Journal of Clinical Nutrition, ha seguito per un periodo di quasi cinque anni un gruppo di 102 donne di età media 49 anni, durante il quale gli autori hanno costantemente monitorato le variazioni nelle caratteristiche corporee delle partecipanti ed anche nella spesa energetica ottenuta, rispettivamente, con l’attività fisica e a riposo.
I ricercatori hanno così osservato che la spesa energetica totale declinava significativamente nel tempo nelle dopo la menopausa, ma questa riduzione era dovuta esclusivamente ad una pratica nettamente inferiore dell’attività fisica. Infatti, la spesa energetica a riposo rimaneva costante dopo la menopausa, anche se veniva osservato un modesto aumento nell’arco dei cinque anni di monitoraggio. A conferma di questi risultati, il tempo dedicato alla pratica di attività fisica di moderata intensità si riduceva in modo pronunciato durante la transizione verso la menopausa, mentre le ore totalizzate in attività sedentarie crescevano.
Fonte:K Duval, D Prud'homme, R Rabasa-Lhoret et al. Effects of the menopausal transition on energy expenditure: a MONET Group Study European Journal of Clinical Nutrition (2013)
A questi quesiti hanno risposto i ricercatori canadesi della University of Ottawa, i quali hanno identificato nel diffuso abbandono dell’attività fisica, nel periodo che coincide con l’insorgere della menopausa, il principale fattore responsabile dell’aumento di peso femminile. In breve, la donna prossima alla menopausa ridurrebbe significativamente i livelli di esercizio fisico, e quindi della spesa energetica.
Lo studio, pubblicato sulla rivista European Journal of Clinical Nutrition, ha seguito per un periodo di quasi cinque anni un gruppo di 102 donne di età media 49 anni, durante il quale gli autori hanno costantemente monitorato le variazioni nelle caratteristiche corporee delle partecipanti ed anche nella spesa energetica ottenuta, rispettivamente, con l’attività fisica e a riposo.
I ricercatori hanno così osservato che la spesa energetica totale declinava significativamente nel tempo nelle dopo la menopausa, ma questa riduzione era dovuta esclusivamente ad una pratica nettamente inferiore dell’attività fisica. Infatti, la spesa energetica a riposo rimaneva costante dopo la menopausa, anche se veniva osservato un modesto aumento nell’arco dei cinque anni di monitoraggio. A conferma di questi risultati, il tempo dedicato alla pratica di attività fisica di moderata intensità si riduceva in modo pronunciato durante la transizione verso la menopausa, mentre le ore totalizzate in attività sedentarie crescevano.
Fonte:K Duval, D Prud'homme, R Rabasa-Lhoret et al. Effects of the menopausal transition on energy expenditure: a MONET Group Study European Journal of Clinical Nutrition (2013)
Dieta e menopausa
Le abitudini alimentari potrebbero costituire un fattore di rischio per i sintomi vasomotori della menopausa (VMSs), vale a dire, vampate di calore e sudorazioni notturne.
Questo è quanto è stato evidenziato da uno studio prospettico di coorte su 6.040 donne in menopausa fisiologica spontanea che sono state seguite per più di 9 anni con intervalli di oltre 3 anni. Si procedeva valutando i consumi alimentari al basale nel 2001, e la presenza di VMSs al basale e nel follow-up.
Sono stati identificati 6 pattern alimentari: consumi verdure cotte, di frutta, modello mediterraneo, consumi di carne e prodotti trasformati derivati dalla carne, consumi di prodotti lattiero-caseari, e alto contenuto di grassi e zuccheri.
In sostanza si è potuto evidenziare che il modello alimentare con maggior consumo di frutta o quello di stile mediterraneo erano inversamente associati alla comparsa dei sintomi vasomotori della menopausa. Il modello a elevato contenuto di grassi e di zuccheri, invece, era associato a un aumento del rischio di VMSs. Dunque, aumentare l’apporto di frutta e verdura nella dieta di una donna in menopausa, potrebbe essere una soluzione vincente.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23553160
Am J Clin Nutr. 2013 Apr 3. [Epub ahead of print]
Fruit, Mediterranean-style, and high-fat and -sugar diets are associated with the risk of night sweats and hot flushes in midlife: results from a prospective cohort study.
Questo è quanto è stato evidenziato da uno studio prospettico di coorte su 6.040 donne in menopausa fisiologica spontanea che sono state seguite per più di 9 anni con intervalli di oltre 3 anni. Si procedeva valutando i consumi alimentari al basale nel 2001, e la presenza di VMSs al basale e nel follow-up.
Sono stati identificati 6 pattern alimentari: consumi verdure cotte, di frutta, modello mediterraneo, consumi di carne e prodotti trasformati derivati dalla carne, consumi di prodotti lattiero-caseari, e alto contenuto di grassi e zuccheri.
In sostanza si è potuto evidenziare che il modello alimentare con maggior consumo di frutta o quello di stile mediterraneo erano inversamente associati alla comparsa dei sintomi vasomotori della menopausa. Il modello a elevato contenuto di grassi e di zuccheri, invece, era associato a un aumento del rischio di VMSs. Dunque, aumentare l’apporto di frutta e verdura nella dieta di una donna in menopausa, potrebbe essere una soluzione vincente.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23553160
Am J Clin Nutr. 2013 Apr 3. [Epub ahead of print]
Fruit, Mediterranean-style, and high-fat and -sugar diets are associated with the risk of night sweats and hot flushes in midlife: results from a prospective cohort study.
La chirurgia bariatrica sta emergendo
La chirurgia bariatrica potrebbe essere considerata come il trattamento di prima scelta per l’obesità con steatosi epatica non alcolica progressiva.
Questo è quanto si prospetta in una revisione sul tema obesità e steatosi epatica non alcolica e pubblicata sul Journal of Obesity. Partendo dal presupposto che l’obesità è fortemente associata con la steatosi epatica non alcolica (NAFLD), va ricordato che, fino ad oggi, la riduzione del peso attraverso modifiche dello stile di vita, farmaci antiobesità, e chirurgia bariatrica rappresentano le vie più seguite.
Tuttavia, è importante sottolineare che la chirurgia bariatrica è la migliore opzione alternativa per la riduzione del peso in caso di insuccesso nel lungo termine delle modifiche dello stile di vita e della terapia farmacologica. La chirurgia bariatrica è un efficace trattamento per l’obesità grave e si associa a una diminuzione marcata della morbilità e della mortalità a questa correlata. Il più comune intervento chirurgico in chirurgia bariatrica è il bypass gastrico (o Roux-en-Y -RYGB).
L'evidenza attuale suggerisce che la chirurgia bariatrica in questi pazienti riduce il grado di steatosi, infiammazione epatica e fibrosi. Infatti, la NAFLD di per sé non è un'indicazione per la chirurgia bariatrica. Secondo gli autori sono necessarie ulteriori ricerche per determinare con urgenza il beneficio della chirurgia bariatrica nei pazienti con NAFLD ad alto rischio di sviluppare cirrosi epatica e il ruolo della chirurgia bariatrica nella modulazione delle complicanze della NAFLD come il diabete e le malattie cardiovascolari.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23431426
J Obes. 2013;2013:839275. doi: 10.1155/2013/839275. Epub 2013 Jan 29.
Bariatric surgery as potential treatment for nonalcoholic Fatty liver disease: a future treatmentby choice or by chance?
Questo è quanto si prospetta in una revisione sul tema obesità e steatosi epatica non alcolica e pubblicata sul Journal of Obesity. Partendo dal presupposto che l’obesità è fortemente associata con la steatosi epatica non alcolica (NAFLD), va ricordato che, fino ad oggi, la riduzione del peso attraverso modifiche dello stile di vita, farmaci antiobesità, e chirurgia bariatrica rappresentano le vie più seguite.
Tuttavia, è importante sottolineare che la chirurgia bariatrica è la migliore opzione alternativa per la riduzione del peso in caso di insuccesso nel lungo termine delle modifiche dello stile di vita e della terapia farmacologica. La chirurgia bariatrica è un efficace trattamento per l’obesità grave e si associa a una diminuzione marcata della morbilità e della mortalità a questa correlata. Il più comune intervento chirurgico in chirurgia bariatrica è il bypass gastrico (o Roux-en-Y -RYGB).
L'evidenza attuale suggerisce che la chirurgia bariatrica in questi pazienti riduce il grado di steatosi, infiammazione epatica e fibrosi. Infatti, la NAFLD di per sé non è un'indicazione per la chirurgia bariatrica. Secondo gli autori sono necessarie ulteriori ricerche per determinare con urgenza il beneficio della chirurgia bariatrica nei pazienti con NAFLD ad alto rischio di sviluppare cirrosi epatica e il ruolo della chirurgia bariatrica nella modulazione delle complicanze della NAFLD come il diabete e le malattie cardiovascolari.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23431426
J Obes. 2013;2013:839275. doi: 10.1155/2013/839275. Epub 2013 Jan 29.
Bariatric surgery as potential treatment for nonalcoholic Fatty liver disease: a future treatmentby choice or by chance?
Fitonutrienti, un'arma contro l'osteoporosi ?
Composti presenti in frutta e verdura sembrano esercitare effetti protettivi contro il deterioramento osseo nell'anziani. Ancora distanti, tuttavia, raccomandazioni alimentari.
Proteggere le ossa con la dieta? Nulla di nuovo, a meno che non si tratti di fitonutrienti, cioè composti di origine vegetale dotati di proprietà protettive nei confronti dei processi di deterioramento del tessuto osseo tipico dell’invecchiamento.
La lista dei composti potenzialmente benefici è estremamente lunga, tuttavia due principali categorie sono oggetto di attenzione particolare nella ricerca nutrizionale: licopene e polifenoli. Il primo, abbondante nei pomodori, i secondi presenti in differenti prodotti vegetali come tè, olive e uva.
Al momento non sarebbe ancora possibile formulare precise raccomandazioni alimentari, data la mancanza di precisi dati clinici sull’impatto dei singoli composti. Inoltre, il consumo di questi composti avviene generalmente nel contesto di una dieta differenziata e contenente un misto di fitonutrienti.
Secondo gli autori, per poter giungere ad una maggiore comprensione della risposta dell’osso ai vari nutrienti sono richiesti studi meglio strutturati, basati sull’analisi diretta di parametri indicativi della qualità e della resistenza ossea. Un’importante aspetto da valutare sarebbe l’effetto combinato di specifici fitonutrienti e i classici nutrienti che promuovono la salute ossea come calcio e vitamina D.
Fonte: Sacco SM, Horcajada MN, Offord E. Phytonutrients for bone health during ageing. Br J Clin Pharmacol. 2013
Proteggere le ossa con la dieta? Nulla di nuovo, a meno che non si tratti di fitonutrienti, cioè composti di origine vegetale dotati di proprietà protettive nei confronti dei processi di deterioramento del tessuto osseo tipico dell’invecchiamento.
La lista dei composti potenzialmente benefici è estremamente lunga, tuttavia due principali categorie sono oggetto di attenzione particolare nella ricerca nutrizionale: licopene e polifenoli. Il primo, abbondante nei pomodori, i secondi presenti in differenti prodotti vegetali come tè, olive e uva.
Al momento non sarebbe ancora possibile formulare precise raccomandazioni alimentari, data la mancanza di precisi dati clinici sull’impatto dei singoli composti. Inoltre, il consumo di questi composti avviene generalmente nel contesto di una dieta differenziata e contenente un misto di fitonutrienti.
Secondo gli autori, per poter giungere ad una maggiore comprensione della risposta dell’osso ai vari nutrienti sono richiesti studi meglio strutturati, basati sull’analisi diretta di parametri indicativi della qualità e della resistenza ossea. Un’importante aspetto da valutare sarebbe l’effetto combinato di specifici fitonutrienti e i classici nutrienti che promuovono la salute ossea come calcio e vitamina D.
Fonte: Sacco SM, Horcajada MN, Offord E. Phytonutrients for bone health during ageing. Br J Clin Pharmacol. 2013
Sovrappeso causa di deficit vitamina D, studio genetico conferma
La deficienza di vitamina D sembra essere una conseguenza del sovrappeso, e non il contrario. Un recente studio ha dimostrato la direzionalità del disordine utilizzando informazioni genetiche.
L’obesità è causa della deficienza della vitamina, o la carenza di questa favorisce il sovrappeso? Secondo un recente studio la prima relazione sarebbe corretta, come dimostrato da una diretta causalità legata a fattori ereditari.
Il dato giunge dai ricercatori inglesi del UCL Institute of Child Health hanno impiegato un approccio genetico bidirezionale per stabilire la relazione tra stato corporeo e il rischio di deficit di vitamina D.
Per fare questo i ricercatori hanno radunato i dati di oltre 42,000 individui dei quali erano disponibili le informazioni genetiche relative alla presenza di varianti genetiche notoriamente associate allo stato corporeo (12) e alla sintesi e metabolismo della vitamina (4).
In questo modo hanno potuto concludere che valori elevati di BMI sono in grado di determinare basse concentrazioni di vitamina D. Per ogni aumento di un’unità nel punteggio dell’indice di massa corporea (BMI) si assisteva a una riduzione dell’1,15% dei livelli della vitamina. La presenza di specifiche varianti genetiche del peso correlavano infatti sia con il valore di BMI che con le concentrazioni della vitamina.
Tuttavia, non varrebbe la relazione opposta, e cioè che la presenza di bassi livelli della vitamina possano essere responsabili dell’aumento del peso corporeo. Infatti, la presenza di due varianti genetiche fortemente associate alle concentrazioni della vitamina non presentava alcuna correlazione con la condizione corporea.
Lo studio suggerisce dunque che la prevenzione del sovrappeso e, in generale gli interventi di riduzione del peso corporeo, possano mantenere la vitamina a livelli fisiologici.
Fonte: Vimaleswaran KS, Berry DJ, Lu C, et al.Causal Relationship between Obesity and Vitamin D Status: Bi-Directional Mendelian Randomization Analysis of Multiple Cohorts. PLoS Med. 2013
L’obesità è causa della deficienza della vitamina, o la carenza di questa favorisce il sovrappeso? Secondo un recente studio la prima relazione sarebbe corretta, come dimostrato da una diretta causalità legata a fattori ereditari.
Il dato giunge dai ricercatori inglesi del UCL Institute of Child Health hanno impiegato un approccio genetico bidirezionale per stabilire la relazione tra stato corporeo e il rischio di deficit di vitamina D.
Per fare questo i ricercatori hanno radunato i dati di oltre 42,000 individui dei quali erano disponibili le informazioni genetiche relative alla presenza di varianti genetiche notoriamente associate allo stato corporeo (12) e alla sintesi e metabolismo della vitamina (4).
In questo modo hanno potuto concludere che valori elevati di BMI sono in grado di determinare basse concentrazioni di vitamina D. Per ogni aumento di un’unità nel punteggio dell’indice di massa corporea (BMI) si assisteva a una riduzione dell’1,15% dei livelli della vitamina. La presenza di specifiche varianti genetiche del peso correlavano infatti sia con il valore di BMI che con le concentrazioni della vitamina.
Tuttavia, non varrebbe la relazione opposta, e cioè che la presenza di bassi livelli della vitamina possano essere responsabili dell’aumento del peso corporeo. Infatti, la presenza di due varianti genetiche fortemente associate alle concentrazioni della vitamina non presentava alcuna correlazione con la condizione corporea.
Lo studio suggerisce dunque che la prevenzione del sovrappeso e, in generale gli interventi di riduzione del peso corporeo, possano mantenere la vitamina a livelli fisiologici.
Fonte: Vimaleswaran KS, Berry DJ, Lu C, et al.Causal Relationship between Obesity and Vitamin D Status: Bi-Directional Mendelian Randomization Analysis of Multiple Cohorts. PLoS Med. 2013
Mirtilli e rischio cardiometabolico
Elevati consumi di polifenoli alimentari sono stati associati a una riduzione del rischio cardiovascolare. Ma è proprio vero?
In proposito è stato condotto uno studio in Canada centrato sugli effetti antiossidanti dei mirtilli.
In particolare 35 uomini (età media ± DS: 45 ± 10 anni) sono stati randomizzati a bere 500 ml al giorno di un cocktail ipocalorico a base di succo di mirtillo (CJC) (27% succo di frutta) o 500 ml di succo placebo (PJ)/die per 4 settimane in doppio cieco.
Ebbene al termine dello studio non è stata dimostrata alcuna differenza significativa nei cambiamenti della rigidità arteriosa o delle altre variabili cardiometaboliche tra uomini che avevano consumato CJC o PJ.
Tuttavia, una significativa diminuzione della rigidità arteriosa (diminuzione media ± SE; -14,0 ± 5,8%, p = 0,019) è stato osservata in seguito al consumo di 500 ml CJC/ die per 4 settimane. Gli autori ritengono, in conclusione, che questi risultati possano meritare ulteriori verifiche in uomini con obesità addominale.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23351409
Nutr Res. 2013 Jan;33(1):41-9. doi: 10.1016/j.nutres.2012.11.002. Epub 2012 Dec 6.
Evidence that cranberry juice may improve augmentation index in overweight men.
In proposito è stato condotto uno studio in Canada centrato sugli effetti antiossidanti dei mirtilli.
In particolare 35 uomini (età media ± DS: 45 ± 10 anni) sono stati randomizzati a bere 500 ml al giorno di un cocktail ipocalorico a base di succo di mirtillo (CJC) (27% succo di frutta) o 500 ml di succo placebo (PJ)/die per 4 settimane in doppio cieco.
Ebbene al termine dello studio non è stata dimostrata alcuna differenza significativa nei cambiamenti della rigidità arteriosa o delle altre variabili cardiometaboliche tra uomini che avevano consumato CJC o PJ.
Tuttavia, una significativa diminuzione della rigidità arteriosa (diminuzione media ± SE; -14,0 ± 5,8%, p = 0,019) è stato osservata in seguito al consumo di 500 ml CJC/ die per 4 settimane. Gli autori ritengono, in conclusione, che questi risultati possano meritare ulteriori verifiche in uomini con obesità addominale.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23351409
Nutr Res. 2013 Jan;33(1):41-9. doi: 10.1016/j.nutres.2012.11.002. Epub 2012 Dec 6.
Evidence that cranberry juice may improve augmentation index in overweight men.
Aumento di peso nella terapia del diabete: quali cause ?
Terapia intensiva e farmaci possono favorire l’aumento di peso nel trattamento del diabete di tipo 2.
L’aumento di peso è maggiore nel trattamento intensivo del diabete e può essere favorito dall’utilizzo di alcuni farmaci. Questi i risultati prodotti dallo studio ACCORD (Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes) e sono stati presentati da un team di ricercatori americani della Tulane University.
Lo studio ha coinvolto quasi 9000 partecipanti, equamente distribuiti tra due tipi di trattamento intensivo e standard.
Gli autori hanno potuto osservare che l’intervento intensivo si associava con un aumento più marcato del peso corporeo. In particolare, la riduzione dei livelli di emoglobina glicata era associata fortemente con l’aumento di peso, ma solo quando questi erano inizialmente già elevati. L’utilizzo di farmaci spiegava poco meno del 15% della variabilità osservata nel peso corporeo, con l’utilizzo del farmaco tiazolidinedione (TZD) apparentemente più importante.
I pazienti inseriti nel trattamento intensivo che non avevano mai assunto insulina presentavano una riduzione del peso corporeo pari a 2,9 kg durante i primi due anni dello studio. Al contrario, i partecipanti intensivi che non avevano utilizzato insulina o TZD precedentemente allo studio, ma ne avevano cominciato l’assunzione dopo l’inclusione, presentavano un aumento ponderale pari a 4,6-5,3 kg.
Fonte: Fonseca V, McDuffie R, Calles J et al. Determinants of Weight Gain in the Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes Trial. Diabetes Care. 2013
L’aumento di peso è maggiore nel trattamento intensivo del diabete e può essere favorito dall’utilizzo di alcuni farmaci. Questi i risultati prodotti dallo studio ACCORD (Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes) e sono stati presentati da un team di ricercatori americani della Tulane University.
Lo studio ha coinvolto quasi 9000 partecipanti, equamente distribuiti tra due tipi di trattamento intensivo e standard.
Gli autori hanno potuto osservare che l’intervento intensivo si associava con un aumento più marcato del peso corporeo. In particolare, la riduzione dei livelli di emoglobina glicata era associata fortemente con l’aumento di peso, ma solo quando questi erano inizialmente già elevati. L’utilizzo di farmaci spiegava poco meno del 15% della variabilità osservata nel peso corporeo, con l’utilizzo del farmaco tiazolidinedione (TZD) apparentemente più importante.
I pazienti inseriti nel trattamento intensivo che non avevano mai assunto insulina presentavano una riduzione del peso corporeo pari a 2,9 kg durante i primi due anni dello studio. Al contrario, i partecipanti intensivi che non avevano utilizzato insulina o TZD precedentemente allo studio, ma ne avevano cominciato l’assunzione dopo l’inclusione, presentavano un aumento ponderale pari a 4,6-5,3 kg.
Fonte: Fonseca V, McDuffie R, Calles J et al. Determinants of Weight Gain in the Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes Trial. Diabetes Care. 2013
Orario dei pasti: quale impatto sulle dinamiche del peso ?
L’orario dei pasti sembra influenzare l’efficacia dei trattamenti di riduzione del peso indipendentemente dall’apporto calorico.
Meglio anticipare l’orario del pasto, specie se si è a dieta. Così sarebbe possibile ottimizzare l’effetto dei trattamenti. Questa la conclusione di un recente studio condotto dai ricercatori spagnoli dell’Università di Murcia. Gli autori hanno investigato l’efficacia di un trattamento di anti-obesità della durata di 20 settimane su un campione di oltre 400 soggetti suddivisi in due categorie, a seconda della loro abitudine a consumare il pasto ad un orario anticipato oppure più tardo, rispettivamente prima o dopo le tre del pomeriggio.
Ebbene, dallo studio è emerso che gli individui che consumavano il pasto più tardi presentavano una riduzione del peso durante le 20 settimane di trattamento meno accentuata rispetto a coloro abituati a pranzare più presto. Con sorpresa dei ricercatori, l’assunzione di calorie, la composizione della dieta, la spesa energetica, i livelli di ormoni associati all’appetito e la durata del sonno non differivano significativamente tra i due gruppi. Tuttavia, i partecipanti abituati a pranzare tardi consumavano generalmente una colazione meno energetica oppure saltavano totalmente questo pasto.
Non solo, gli autori hanno potuto dimostrare che questi individui erano più frequentemente portatori di una specifica variante genetica (polimorfismo) all’interno di un gene cosiddetto CLOCK, la cui funzione sembra essere associata al controllo dei ritmi circadiani e le cui oscillazioni nell’espressione seguono un ritmo tipicamente giornaliero. Quest’osservazione potrebbe indicare l’esistenza di una modesta ma non trascurabile base ereditaria dei comportamenti alimentari che conducono al sovrappeso.
In conclusione, gli autori hanno sottolineato come non solo la composizione della dieta possa giocare un ruolo nella prevenzione e nel trattamento del sovrappeso, ma anche l’ottimizzazione dell’orario dei pasti potrebbe costituire un importante fattore nella definizione delle strategie terapeutiche.
Fonte: Garaulet M, Gómez-Abellán P, Alburquerque-Béjar JJ et al. Timing of food intake predicts weight loss effectiveness. Int J Obes (Lond). 2013
Meglio anticipare l’orario del pasto, specie se si è a dieta. Così sarebbe possibile ottimizzare l’effetto dei trattamenti. Questa la conclusione di un recente studio condotto dai ricercatori spagnoli dell’Università di Murcia. Gli autori hanno investigato l’efficacia di un trattamento di anti-obesità della durata di 20 settimane su un campione di oltre 400 soggetti suddivisi in due categorie, a seconda della loro abitudine a consumare il pasto ad un orario anticipato oppure più tardo, rispettivamente prima o dopo le tre del pomeriggio.
Ebbene, dallo studio è emerso che gli individui che consumavano il pasto più tardi presentavano una riduzione del peso durante le 20 settimane di trattamento meno accentuata rispetto a coloro abituati a pranzare più presto. Con sorpresa dei ricercatori, l’assunzione di calorie, la composizione della dieta, la spesa energetica, i livelli di ormoni associati all’appetito e la durata del sonno non differivano significativamente tra i due gruppi. Tuttavia, i partecipanti abituati a pranzare tardi consumavano generalmente una colazione meno energetica oppure saltavano totalmente questo pasto.
Non solo, gli autori hanno potuto dimostrare che questi individui erano più frequentemente portatori di una specifica variante genetica (polimorfismo) all’interno di un gene cosiddetto CLOCK, la cui funzione sembra essere associata al controllo dei ritmi circadiani e le cui oscillazioni nell’espressione seguono un ritmo tipicamente giornaliero. Quest’osservazione potrebbe indicare l’esistenza di una modesta ma non trascurabile base ereditaria dei comportamenti alimentari che conducono al sovrappeso.
In conclusione, gli autori hanno sottolineato come non solo la composizione della dieta possa giocare un ruolo nella prevenzione e nel trattamento del sovrappeso, ma anche l’ottimizzazione dell’orario dei pasti potrebbe costituire un importante fattore nella definizione delle strategie terapeutiche.
Fonte: Garaulet M, Gómez-Abellán P, Alburquerque-Béjar JJ et al. Timing of food intake predicts weight loss effectiveness. Int J Obes (Lond). 2013
Più liquidi, meno solidi
È possibile che una bevanda a elevato potere saziante prima dei pasti aiuti a mangiare meno.
Un gruppo di ricercatori inglesi ha cercato di discriminare l’effetto nutritivo delle proteine aggiunte a una bevanda, dagli effetti sensoriali eventualmente sollecitati dall’assunzione della bevanda stessa.
Si procedeva ponendo a contrasto un precarico liquido (bevanda a elevato valore energetico) con un contenuto energetico triplicato (circa 1,2 MJ) e di seguito con un precarico liquido a contenuto energetico minore (LE: 0,35 MJ), e dopo le “bevute” si verificavano l’appetito e i consumi alimentari al pasto successivo.
Le bevande usate per il test erano differenti anche per il contenuto in carboidrati (aggiunta di succo di frutta) per il gusto dolce e per la consistenza. Si è visto così che i partecipanti (n 26 maschi volontari sani) consumavano un pranzo molto scarso dopo il precarico con la bevanda altamente energetica, rispetto a quando il precarico era con le bevande a contenuto energetico inferiore, tuttavia l’appetito diminuiva anche per le sensazioni organolettiche sollecitate dalle varie bevande. Ovvero se le bevande erano più cremose sembravano anche più sazianti indipendentemente dal contenuto proteico.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23312079
Br J Nutr. 2013 Jan 14:1-9. [Epub ahead of print]
Perceived thickness and creaminess modulates the short-term satiating effects of high-protein drinks.
Bertenshaw EJ, Lluch A, Yeomans MR.
Un gruppo di ricercatori inglesi ha cercato di discriminare l’effetto nutritivo delle proteine aggiunte a una bevanda, dagli effetti sensoriali eventualmente sollecitati dall’assunzione della bevanda stessa.
Si procedeva ponendo a contrasto un precarico liquido (bevanda a elevato valore energetico) con un contenuto energetico triplicato (circa 1,2 MJ) e di seguito con un precarico liquido a contenuto energetico minore (LE: 0,35 MJ), e dopo le “bevute” si verificavano l’appetito e i consumi alimentari al pasto successivo.
Le bevande usate per il test erano differenti anche per il contenuto in carboidrati (aggiunta di succo di frutta) per il gusto dolce e per la consistenza. Si è visto così che i partecipanti (n 26 maschi volontari sani) consumavano un pranzo molto scarso dopo il precarico con la bevanda altamente energetica, rispetto a quando il precarico era con le bevande a contenuto energetico inferiore, tuttavia l’appetito diminuiva anche per le sensazioni organolettiche sollecitate dalle varie bevande. Ovvero se le bevande erano più cremose sembravano anche più sazianti indipendentemente dal contenuto proteico.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23312079
Br J Nutr. 2013 Jan 14:1-9. [Epub ahead of print]
Perceived thickness and creaminess modulates the short-term satiating effects of high-protein drinks.
Bertenshaw EJ, Lluch A, Yeomans MR.
Meno bevande zuccherate,quale beneficio negli adolescenti ?
Davvero la riduzione del consumo di bevande zuccherate può limitare l’aumento di peso nei ragazzi obesi e sovrappeso?
Davvero la riduzione del consumo di bevande zuccherate può limitare l’aumento di peso nei ragazzi obesi e sovrappeso? Un recente studio dimostra solo un minimo effetto.
Il consumo sregolato di bevande zuccherate è annoverato tra le principali cause che contribuiscono al sovrappeso infantile e nell’età adolescenziale. Il contenuto calorico di questi prodotti può infatti eccedere il fabbisogno giornaliero energetico dei ragazzi e spesso il loro consumo avviene spesso in modo eccessivo, dove le bevande giungono a rappresentare una buona percentuale dei liquidi introdotti durante i pasti.
Ma quanto aiuta la riduzione del consumo di bevande nel prevenire l’aumento di peso nei ragazzi in sovrappeso? Poco, altri fattori evidentemente sembrano essere implicati nella persistenza del sovrappeso infantile. La risposta arriva dai ricercatori americani del Boston Children's Hospital facenti parte del New Balance Foundation Obesity Prevention Center. Gli autori dello studio hanno testato nell’arco di due anni le variazioni del peso corporeo di un gruppo di giovani pazienti sovrappeso destinati in modo casuale a un programma di riduzione del consumo di bevande zuccherate della durata di un anno oppure a nessun tipo d’intervento.
Ebbene, la variazione del peso corporeo, misurata come percentuale di grasso corporeo sul peso totale, non differiva in modo statisticamente significativo tra i due gruppi dopo due anni. Più precisamente, l’aumento del valore dell’indice di massa corporea (BMI) dei ragazzi destinati al programma era inferiore al gruppo controllo nel primo anno, ma questa differenza si azzerava a termine del secondo anno di follow-up.
Fonte: Ebbeling CB, Feldman HA, Chomitz VR et al. A randomized trial of sugar-sweetened beverages and adolescent body weight. N Engl J Med. 2012
Davvero la riduzione del consumo di bevande zuccherate può limitare l’aumento di peso nei ragazzi obesi e sovrappeso? Un recente studio dimostra solo un minimo effetto.
Il consumo sregolato di bevande zuccherate è annoverato tra le principali cause che contribuiscono al sovrappeso infantile e nell’età adolescenziale. Il contenuto calorico di questi prodotti può infatti eccedere il fabbisogno giornaliero energetico dei ragazzi e spesso il loro consumo avviene spesso in modo eccessivo, dove le bevande giungono a rappresentare una buona percentuale dei liquidi introdotti durante i pasti.
Ma quanto aiuta la riduzione del consumo di bevande nel prevenire l’aumento di peso nei ragazzi in sovrappeso? Poco, altri fattori evidentemente sembrano essere implicati nella persistenza del sovrappeso infantile. La risposta arriva dai ricercatori americani del Boston Children's Hospital facenti parte del New Balance Foundation Obesity Prevention Center. Gli autori dello studio hanno testato nell’arco di due anni le variazioni del peso corporeo di un gruppo di giovani pazienti sovrappeso destinati in modo casuale a un programma di riduzione del consumo di bevande zuccherate della durata di un anno oppure a nessun tipo d’intervento.
Ebbene, la variazione del peso corporeo, misurata come percentuale di grasso corporeo sul peso totale, non differiva in modo statisticamente significativo tra i due gruppi dopo due anni. Più precisamente, l’aumento del valore dell’indice di massa corporea (BMI) dei ragazzi destinati al programma era inferiore al gruppo controllo nel primo anno, ma questa differenza si azzerava a termine del secondo anno di follow-up.
Fonte: Ebbeling CB, Feldman HA, Chomitz VR et al. A randomized trial of sugar-sweetened beverages and adolescent body weight. N Engl J Med. 2012
Kamut : efficace contro fattori di rischio cardio-metabolico
Una dieta sostitutiva a base di prodotti derivati dal cereale kamut può contrastare i fattori di rischio metabolico, ossidativo e infiammatorio.
Una dieta sostitutiva a base di prodotti derivati dal cereale kamut può contrastare i fattori di rischio metabolico, ossidativo e infiammatorio. E gli effetti sono misurabili a poco più di un mese di distanza. Questi i risultati di un recente studio stato condotto presso il centro interdipartimentale di ricerca sul cibo e la nutrizione presso l’Università di Firenze.
Il grano khorasan o kamut è un cereale coltivato sin dall’antichità del quale si lodano innumerevoli effetti benefici sulla salute. La presente analisi, condotta da ricercatori italiani, ha investigato gli effetti dei prodotti a base di kamut sul rischio cardiovascolare. Allo studio hanno partecipato 22 soggetti sani i quali sono stati assegnati casualmente al consumo di prodotti a base di kamut oppure di farina integrale per un periodo di 8 settimane.
Ebbene, dopo tale periodo di nuove abitudini alimentari, gli autori hanno potuto osservare il consumo di kamut determinava un miglioramento di alcuni fattori di rischio cardiovascolare tra cui il livello di colesterolo totale (riduzione media: -8.46 mg/dl; -4%), lipoproteine a bassa densità (-9.82 mg/dl; -7.8%) e della glicemia. Anche lo stato ossidativo risultava migliorato nei partecipanti destinati al consumo di kamut rispetto al gruppo controllo.
La dieta a base di kamut determinava, infine, anche in un aumento dei livelli sierici di magnesio e potassio e in una riduzione dei livelli di citochine pro-infiammatorie circolanti (interleuchina-6, 12, tumor necrosis factor-α e fattore di crescita endoteliale-vascolare).
Fonte: Sofi F, Whittaker A, Cesari F, Gori AM et al. Characterization of Khorasan wheat (Kamut) and impact of a replacement diet on cardiovascular risk factors: cross-over dietary intervention study. Eur J Clin Nutr. 2013
Una dieta sostitutiva a base di prodotti derivati dal cereale kamut può contrastare i fattori di rischio metabolico, ossidativo e infiammatorio. E gli effetti sono misurabili a poco più di un mese di distanza. Questi i risultati di un recente studio stato condotto presso il centro interdipartimentale di ricerca sul cibo e la nutrizione presso l’Università di Firenze.
Il grano khorasan o kamut è un cereale coltivato sin dall’antichità del quale si lodano innumerevoli effetti benefici sulla salute. La presente analisi, condotta da ricercatori italiani, ha investigato gli effetti dei prodotti a base di kamut sul rischio cardiovascolare. Allo studio hanno partecipato 22 soggetti sani i quali sono stati assegnati casualmente al consumo di prodotti a base di kamut oppure di farina integrale per un periodo di 8 settimane.
Ebbene, dopo tale periodo di nuove abitudini alimentari, gli autori hanno potuto osservare il consumo di kamut determinava un miglioramento di alcuni fattori di rischio cardiovascolare tra cui il livello di colesterolo totale (riduzione media: -8.46 mg/dl; -4%), lipoproteine a bassa densità (-9.82 mg/dl; -7.8%) e della glicemia. Anche lo stato ossidativo risultava migliorato nei partecipanti destinati al consumo di kamut rispetto al gruppo controllo.
La dieta a base di kamut determinava, infine, anche in un aumento dei livelli sierici di magnesio e potassio e in una riduzione dei livelli di citochine pro-infiammatorie circolanti (interleuchina-6, 12, tumor necrosis factor-α e fattore di crescita endoteliale-vascolare).
Fonte: Sofi F, Whittaker A, Cesari F, Gori AM et al. Characterization of Khorasan wheat (Kamut) and impact of a replacement diet on cardiovascular risk factors: cross-over dietary intervention study. Eur J Clin Nutr. 2013
Consumo di pomodoro contro le malattie cardiovascolari
E' il licopene del pomodoro che sembra offrire protezione contro le patologie cardiovascolari.
L’assunzione del licopene contenuto nei pomodori sembra offrire protezione contro le patologie cardiovascolari. Questa la conclusione di un recente studio condotto dai ricercatori della Tufts University di Boston. L’analisi ha valutato la relazione tra l’incidenza di malattie e incidenti cardiovascolari e l’assunzione del licopene, un carotenoide contenuto in elevate concentrazioni nei pomodori.
Gli autori hanno potuto ottenere risultati piuttosto significativi in quanto erano in possesso di dati sulla frequenza alimentari relativi a 10 anni. L’analisi ha rivelato che un’assunzione superiore del composto correlava con una minore probabilità di sviluppare patologie cardiovascolari. Tuttavia, nessuna associazione statisticamente significativa si rendeva evidente tra il consumo del composto e l’incidenza di incidenti cerebrovascolari.
Secondo i ricercatori, questo sarebbe il primo studio ad aver provato l’esistenza di una relazione tra il livello di assunzione della sostanza e la protezione nei confronti delle patologie cardiovascolari. Tuttavia, ulteriori studi sono necessari per stabilire se effettivamente il licopene, o altri composti ad esso relazionati presenti nei pomodori sino effettivamente responsabili degli effetti protettivi.
Fonte: Jacques PF, Lyass A, Massaro JM et al. Relationship of lycopene intake and consumption of tomato products to incident CVD. Br J Nutr. 2013
L’assunzione del licopene contenuto nei pomodori sembra offrire protezione contro le patologie cardiovascolari. Questa la conclusione di un recente studio condotto dai ricercatori della Tufts University di Boston. L’analisi ha valutato la relazione tra l’incidenza di malattie e incidenti cardiovascolari e l’assunzione del licopene, un carotenoide contenuto in elevate concentrazioni nei pomodori.
Gli autori hanno potuto ottenere risultati piuttosto significativi in quanto erano in possesso di dati sulla frequenza alimentari relativi a 10 anni. L’analisi ha rivelato che un’assunzione superiore del composto correlava con una minore probabilità di sviluppare patologie cardiovascolari. Tuttavia, nessuna associazione statisticamente significativa si rendeva evidente tra il consumo del composto e l’incidenza di incidenti cerebrovascolari.
Secondo i ricercatori, questo sarebbe il primo studio ad aver provato l’esistenza di una relazione tra il livello di assunzione della sostanza e la protezione nei confronti delle patologie cardiovascolari. Tuttavia, ulteriori studi sono necessari per stabilire se effettivamente il licopene, o altri composti ad esso relazionati presenti nei pomodori sino effettivamente responsabili degli effetti protettivi.
Fonte: Jacques PF, Lyass A, Massaro JM et al. Relationship of lycopene intake and consumption of tomato products to incident CVD. Br J Nutr. 2013
Dieta mediterranea previene sintomi depressivi
Il consumo di una dieta di tipo mediterraneo sembra esercitare un’influenza positiva contro lo sviluppo di sintomi depressivi nelle donne di mezza età.
Il consumo di una dieta di tipo mediterraneo sembra esercitare un’influenza positiva contro lo sviluppo di sintomi depressivi nelle donne di mezza età. Queste evidenze suggeriscono un ruolo preventivo dell’alimentazione, potenzialmente applicabile come sostegno nella gestione di alcuni disturbi psichiatrici.
L’osservazione dei ricercatori australiani dell’Università del Queensland non è la prima ad attribuire proprietà anti-depressive all’alimentazione mediterranea. Numerosi studi hanno infatti descritto in precedenza un impatto a livello psichico di questo tipo di alimentazione, che si rende particolarmente evidente nella popolazione adulta e anziana in forma di una minore incidenza di disturbi psichiatrici, tra cui appunto sintomi depressivi. Il presente studio, pubblicato sulla rivista European Journal of Clinical Nutrition, ha analizzato l’associazione tra specifici pattern alimentari e la suscettibilità allo sviluppo di disordini depressivi nel medio lungo termine. I dati provenivano dall’Australian Longitudinal Study on Women’s Health.
I ricercatori hanno identificato sei pattern alimentari principali. L’aderenza allo stile mediterraneo presentava la minore associazione con lo sviluppo di disturbi depressivi a tre anni e questa associazione era appunto più marcata nelle donne di età superiore ai 45 anni.
Fonte: J Rienks, A J Dobson and G D Mishra Mediterranean dietary pattern and prevalence and incidence of depressive symptoms in mid-aged women: results from a large community-based prospective study European Journal of Clinical Nutrition (2013)
Il consumo di una dieta di tipo mediterraneo sembra esercitare un’influenza positiva contro lo sviluppo di sintomi depressivi nelle donne di mezza età. Queste evidenze suggeriscono un ruolo preventivo dell’alimentazione, potenzialmente applicabile come sostegno nella gestione di alcuni disturbi psichiatrici.
L’osservazione dei ricercatori australiani dell’Università del Queensland non è la prima ad attribuire proprietà anti-depressive all’alimentazione mediterranea. Numerosi studi hanno infatti descritto in precedenza un impatto a livello psichico di questo tipo di alimentazione, che si rende particolarmente evidente nella popolazione adulta e anziana in forma di una minore incidenza di disturbi psichiatrici, tra cui appunto sintomi depressivi. Il presente studio, pubblicato sulla rivista European Journal of Clinical Nutrition, ha analizzato l’associazione tra specifici pattern alimentari e la suscettibilità allo sviluppo di disordini depressivi nel medio lungo termine. I dati provenivano dall’Australian Longitudinal Study on Women’s Health.
I ricercatori hanno identificato sei pattern alimentari principali. L’aderenza allo stile mediterraneo presentava la minore associazione con lo sviluppo di disturbi depressivi a tre anni e questa associazione era appunto più marcata nelle donne di età superiore ai 45 anni.
Fonte: J Rienks, A J Dobson and G D Mishra Mediterranean dietary pattern and prevalence and incidence of depressive symptoms in mid-aged women: results from a large community-based prospective study European Journal of Clinical Nutrition (2013)
La disbiosi intestinale e la nutrizione
Le infezioni croniche comportano una disbiosi dell’ecoambiente gastrointestinale influenzata anche dall’alimentazione.
Gli alimenti ricchi di proteo-tossine, come glutine, caseina e zeina (proteina dei cereali e del mais), contribuiscono notevolmente all’alterazione della composizione e della funzione del microbiota gastrointestinale (disbiosi), con notevoli ripercussioni sulle funzioni di barriera della mucosa intestinale.
Circa il 75% del cibo nella dieta occidentale ha effetti benefici limitati o nulli sulla flora batterica nell'intestino inferiore. La maggior parte, infatti, (compresi i carboidrati raffinati) viene già assorbito nella parte superiore del tratto GI, e quello eventualmente raggiunge l'intestino crasso è di valore limitato, in quanto contiene solo piccole quantità di minerali, vitamine e altri nutrienti necessari per il mantenimento del microbioma.
La conseguenza di tutto questo è che il microbiota degli esseri umani moderni si riduce notevolmente, sia in termini di numero, sia di differenza delle specie presenti, rispetto a ciò che si verificava con la dieta dei nostri antenati paleolitici. La nutrizione artificiale rappresenta l'unica alternativa disponibile per la cura di questi malati. I trattamenti includono ventilazione artificiale, nutrizione artificiale, misure igieniche, uso di cateteri, uso frequente di prodotti farmaceutici, che sono tutti noti per danneggiare gravemente il microbioma.
I tentativi di ricostituire un microbioma normale con i probiotici sono spesso vani in quanto sono quasi sempre effettuati come complemento - e non come alternativa ai - sistemi di trattamento esistenti, in particolare quelli a base di antibiotici, ma anche di altri prodotti farmaceutici. Tutto questo in sintesi si discute in un’eccellente revisione centrata sulla nutrizione nelle patologie che necessitano ospedalizzazione e trattamenti intensivi sistemici.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23344250
Nutrients. 2013 Jan 14;5(1):162-207. doi: 10.3390/nu5010162.
Nutrition of the critically ill — a 21st-century perspective.
Bengmark S.
Gli alimenti ricchi di proteo-tossine, come glutine, caseina e zeina (proteina dei cereali e del mais), contribuiscono notevolmente all’alterazione della composizione e della funzione del microbiota gastrointestinale (disbiosi), con notevoli ripercussioni sulle funzioni di barriera della mucosa intestinale.
Circa il 75% del cibo nella dieta occidentale ha effetti benefici limitati o nulli sulla flora batterica nell'intestino inferiore. La maggior parte, infatti, (compresi i carboidrati raffinati) viene già assorbito nella parte superiore del tratto GI, e quello eventualmente raggiunge l'intestino crasso è di valore limitato, in quanto contiene solo piccole quantità di minerali, vitamine e altri nutrienti necessari per il mantenimento del microbioma.
La conseguenza di tutto questo è che il microbiota degli esseri umani moderni si riduce notevolmente, sia in termini di numero, sia di differenza delle specie presenti, rispetto a ciò che si verificava con la dieta dei nostri antenati paleolitici. La nutrizione artificiale rappresenta l'unica alternativa disponibile per la cura di questi malati. I trattamenti includono ventilazione artificiale, nutrizione artificiale, misure igieniche, uso di cateteri, uso frequente di prodotti farmaceutici, che sono tutti noti per danneggiare gravemente il microbioma.
I tentativi di ricostituire un microbioma normale con i probiotici sono spesso vani in quanto sono quasi sempre effettuati come complemento - e non come alternativa ai - sistemi di trattamento esistenti, in particolare quelli a base di antibiotici, ma anche di altri prodotti farmaceutici. Tutto questo in sintesi si discute in un’eccellente revisione centrata sulla nutrizione nelle patologie che necessitano ospedalizzazione e trattamenti intensivi sistemici.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23344250
Nutrients. 2013 Jan 14;5(1):162-207. doi: 10.3390/nu5010162.
Nutrition of the critically ill — a 21st-century perspective.
Bengmark S.
Frutta e verdura giovano al microbiota
Una dieta sana, equilibrata e ricca di frutta e verdura può allungare la vita modulando i danni dell’invecchiamento.
E' ben noto che la dieta possa influenzare la salute e che una dieta ricca di alimenti vegetali dà molti vantaggi in relazione alla salute e il benessere di un individuo. Questo è probabilmente dovuto anche al fatto che una dieta sana è in grado di modificare l’ecoambiente intestinale (microbiota) in senso positivo.
Negli adulti, le diete che hanno un’elevata percentuale di frutta e verdura e un basso consumo di carne sono associate con un microbiota particolare nel quale si trova una notevole abbondanza di Prevotella rispetto ai Bacteroides, mentre il contrario è associato con una dieta contenente un bassa percentuale di alimenti di origine vegetale.
Inoltre, è sempre più evidente che l'effetto della ecologia microbica dell'intestino va oltre il sistema immunitario intestinale locale ed è implicato nei disturbi immuno-correlati, quali IBS, diabete, invecchiamento e infiammazione.
Questo nella sostanza si tratta in una revisione irlandese.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23344252
Nutrients. 2013 Jan 17;5(1):234-52. doi: 10.3390/nu5010234.
Diet-microbiota interactions and their implications for healthy living.
E' ben noto che la dieta possa influenzare la salute e che una dieta ricca di alimenti vegetali dà molti vantaggi in relazione alla salute e il benessere di un individuo. Questo è probabilmente dovuto anche al fatto che una dieta sana è in grado di modificare l’ecoambiente intestinale (microbiota) in senso positivo.
Negli adulti, le diete che hanno un’elevata percentuale di frutta e verdura e un basso consumo di carne sono associate con un microbiota particolare nel quale si trova una notevole abbondanza di Prevotella rispetto ai Bacteroides, mentre il contrario è associato con una dieta contenente un bassa percentuale di alimenti di origine vegetale.
Inoltre, è sempre più evidente che l'effetto della ecologia microbica dell'intestino va oltre il sistema immunitario intestinale locale ed è implicato nei disturbi immuno-correlati, quali IBS, diabete, invecchiamento e infiammazione.
Questo nella sostanza si tratta in una revisione irlandese.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23344252
Nutrients. 2013 Jan 17;5(1):234-52. doi: 10.3390/nu5010234.
Diet-microbiota interactions and their implications for healthy living.
Troppi fast food alimentano l'asma ?
Un elevato consumo di fast food potrebbe essere associato alla prevalenza dei sintomi di asma, rinocongiuntivite ed eczema.
In proposito, in Nuova Zelanda, nell’ambito dello studio ISAAC (Phase Three of the International Study of Asthma and Allergies in Childhood) sono stati indagati i consumi alimentari, nel corso degli ultimi 12 mesi, sui bambini di 6-7 anni e sugli adolescenti di 13-14-anni (utilizzando questionari FFQ).
Si è così in sostanza evidenziato che per gli adolescenti e per i bambini, un consumo di frutta ≥ 3 volte alla settimana era associato a un potenziale effetto protettivo sull’asma grave. Mentre un aumento del rischio di asma era associato a un consumo di fast food ≥ 3 volte alla settimana, e lo stesso si verificava per il rischio di eczema e rinocongiuntivite.
Gli autori ritengono dunque che se l'associazione tra fast food e la prevalenza dei sintomi di asma, rinocongiuntivite ed eczema è causale, questi risultati potrebbero avere importanti ripercussioni sulla salute pubblica mondiale, visto il crescente consumo di fast food nella maggior parte dei Paesi industrialia stile di vita occidentale.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23319429
Thorax. 2013 Jan 14. doi: 10.1136/thoraxjnl-2012-202285. [Epub ahead of print]
Do fast foods cause asthma, rhinoconjunctivitis and eczema? Global findings from the International Study of Asthma and Allergies in Childhood (ISAAC) Phase Three.
In proposito, in Nuova Zelanda, nell’ambito dello studio ISAAC (Phase Three of the International Study of Asthma and Allergies in Childhood) sono stati indagati i consumi alimentari, nel corso degli ultimi 12 mesi, sui bambini di 6-7 anni e sugli adolescenti di 13-14-anni (utilizzando questionari FFQ).
Si è così in sostanza evidenziato che per gli adolescenti e per i bambini, un consumo di frutta ≥ 3 volte alla settimana era associato a un potenziale effetto protettivo sull’asma grave. Mentre un aumento del rischio di asma era associato a un consumo di fast food ≥ 3 volte alla settimana, e lo stesso si verificava per il rischio di eczema e rinocongiuntivite.
Gli autori ritengono dunque che se l'associazione tra fast food e la prevalenza dei sintomi di asma, rinocongiuntivite ed eczema è causale, questi risultati potrebbero avere importanti ripercussioni sulla salute pubblica mondiale, visto il crescente consumo di fast food nella maggior parte dei Paesi industrialia stile di vita occidentale.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23319429
Thorax. 2013 Jan 14. doi: 10.1136/thoraxjnl-2012-202285. [Epub ahead of print]
Do fast foods cause asthma, rhinoconjunctivitis and eczema? Global findings from the International Study of Asthma and Allergies in Childhood (ISAAC) Phase Three.
Carboidrati in abbondanza ai calciatori
Per i professionisti del calcio, una dieta a elevato contenuto di carboidrati, qualche giorno prima della partita, può essere vincente.
Questo è quanto si evidenzia in uno studio condotto in Grecia che ha coinvolto giocatori di calcio professionisti. Sono stati selezionati 22 giocatori della stessa età, con caratteristiche ed esperienza di formazione comparabili.
Lo scopo primario era verificare le loro performance in partita, dopo una dieta ad alto contenuto di carboidrati (CHO) o una dieta povera di CHO. I giocatori sono stati così suddivisi in 2 squadre (A e B) che hanno giocato l’una contro l'altra due volte con un intervallo di una settimana tra la prima e la seconda partita.
Per 3 giorni e mezzo prima della prima partita i giocatori della squadra A hanno seguito una dieta ricca di CHO (8 g di CHO per kg di massa corporea - HC), mentre i giocatori della squadra B hanno seguito una dieta a basso contenuto di CHO (3 g CHO / Kg BM - LC) per lo stesso periodo di tempo. Prima della seconda partita, il trattamento dietetico è stato invertito. Si è così, in sintesi, dimostrato che i giocatori con dieta HC erano in grado di coprire maggiori distanze di corsa in partita, rispetto ai giocatori con dieta LC, vincendo la partita.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23168373 J Strength Cond Res. 2012 Nov 17. [Epub ahead of print] The effect of high vs. low carbohydrate diets on distances covered in soccer.
Questo è quanto si evidenzia in uno studio condotto in Grecia che ha coinvolto giocatori di calcio professionisti. Sono stati selezionati 22 giocatori della stessa età, con caratteristiche ed esperienza di formazione comparabili.
Lo scopo primario era verificare le loro performance in partita, dopo una dieta ad alto contenuto di carboidrati (CHO) o una dieta povera di CHO. I giocatori sono stati così suddivisi in 2 squadre (A e B) che hanno giocato l’una contro l'altra due volte con un intervallo di una settimana tra la prima e la seconda partita.
Per 3 giorni e mezzo prima della prima partita i giocatori della squadra A hanno seguito una dieta ricca di CHO (8 g di CHO per kg di massa corporea - HC), mentre i giocatori della squadra B hanno seguito una dieta a basso contenuto di CHO (3 g CHO / Kg BM - LC) per lo stesso periodo di tempo. Prima della seconda partita, il trattamento dietetico è stato invertito. Si è così, in sintesi, dimostrato che i giocatori con dieta HC erano in grado di coprire maggiori distanze di corsa in partita, rispetto ai giocatori con dieta LC, vincendo la partita.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23168373 J Strength Cond Res. 2012 Nov 17. [Epub ahead of print] The effect of high vs. low carbohydrate diets on distances covered in soccer.
Artrite reumatoide alcol e fumo
L’incidenza dell’artrite reumatoide (RA) sembra legata anche a fattori ambientali e allo stile di vita.
Questo è quanto hanno evidenziato alcuni ricercatori svedesi (Section of Rheumatology, Malmö, Sweden) con uno studio prospettico caso-controllo condotto su una coorte di 30447 persone già incluse nel Malmö Diet and Cancer Study (MDCS).
Elaborando i dati sullo stile di vita presenti nei registri del MDCS e aggiungendo i dati di nuovi iscritti, sono stati identificati 172 casi incidenti di RA [36 M/136F, età media alla diagnosi 63 anni, il 69% con fattore reumatoide (RF) positivo].
Nelle analisi dei dati sono stai considerati il fumo di sigaretta, i consumi di alcol e il livello d’istruzione. Si è così in sintesi dimostrato che il tabagismo e uno scarso livello d’istruzione erano marcatori predittivi indipendenti per il rischio di RA e che un moderato consumo di alcol potrebbe essere, invece, associato a una riduzione del rischio di RA. Non è da escludere, dunque, che diversi fattori dietetici possano concorrere nel ridurre il rischio di sviluppo di RA.
Fonte: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23126587 Scand J Rheumatol. 2012 Nov 6. [Epub ahead of print] Smoking, low formal level of education, alcohol consumption, and the risk of rheumatoid arthritis.
Questo è quanto hanno evidenziato alcuni ricercatori svedesi (Section of Rheumatology, Malmö, Sweden) con uno studio prospettico caso-controllo condotto su una coorte di 30447 persone già incluse nel Malmö Diet and Cancer Study (MDCS).
Elaborando i dati sullo stile di vita presenti nei registri del MDCS e aggiungendo i dati di nuovi iscritti, sono stati identificati 172 casi incidenti di RA [36 M/136F, età media alla diagnosi 63 anni, il 69% con fattore reumatoide (RF) positivo].
Nelle analisi dei dati sono stai considerati il fumo di sigaretta, i consumi di alcol e il livello d’istruzione. Si è così in sintesi dimostrato che il tabagismo e uno scarso livello d’istruzione erano marcatori predittivi indipendenti per il rischio di RA e che un moderato consumo di alcol potrebbe essere, invece, associato a una riduzione del rischio di RA. Non è da escludere, dunque, che diversi fattori dietetici possano concorrere nel ridurre il rischio di sviluppo di RA.
Fonte: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23126587 Scand J Rheumatol. 2012 Nov 6. [Epub ahead of print] Smoking, low formal level of education, alcohol consumption, and the risk of rheumatoid arthritis.
Artrite reumatoide e acidi grassi
L'assunzione di acidi grassi polinsaturi omega 3, grassi dal pesce e acidi grassi monoinsaturi sembra influenzare l'attività dell'AR, riducendo l'infiammazione.
Secondo i risultati di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori giapponesi su 37 pazienti con artrite reumatoide, l’attività della malattia potrebbe essere legata allo stato nutrizionale associato alle abitudini alimentari e allo stress ossidativo.
Tutti i partecipanti sono stati sottoposti a valutazione dello stato nutrizionale (parametri antropometrici e biochimici) dello stress ossidativo (nel siero e nella saliva) e dei consumi alimentari (FFQ – 3d/recall). Nel gruppo in cui la malattia era molto attiva, i livelli sierici di leptina e albumina erano significativamente scarsi, tuttavia i marcatori infiammatori erano aumentati.
Nello stesso gruppo, la valutazione delle abitudini alimentari ha mostrato un consumo minore di polinsaturi e monoinsaturi. Anche i marcatori di stress ossidativo e i livelli di adipochine e di albumina sierici concordavano con un deterioramento generale dello stato nutrizionale caratteristico dell’AR in fase attiva.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23044162 Nutrition. 2012 Nov;28(11-12):1109-14. doi: 10.1016/j.nut.2012.02.009. Nutritional status in relation to adipokines and oxidative stress is associated with disease activity in patients with rheumatoid arthritis.
Secondo i risultati di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori giapponesi su 37 pazienti con artrite reumatoide, l’attività della malattia potrebbe essere legata allo stato nutrizionale associato alle abitudini alimentari e allo stress ossidativo.
Tutti i partecipanti sono stati sottoposti a valutazione dello stato nutrizionale (parametri antropometrici e biochimici) dello stress ossidativo (nel siero e nella saliva) e dei consumi alimentari (FFQ – 3d/recall). Nel gruppo in cui la malattia era molto attiva, i livelli sierici di leptina e albumina erano significativamente scarsi, tuttavia i marcatori infiammatori erano aumentati.
Nello stesso gruppo, la valutazione delle abitudini alimentari ha mostrato un consumo minore di polinsaturi e monoinsaturi. Anche i marcatori di stress ossidativo e i livelli di adipochine e di albumina sierici concordavano con un deterioramento generale dello stato nutrizionale caratteristico dell’AR in fase attiva.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23044162 Nutrition. 2012 Nov;28(11-12):1109-14. doi: 10.1016/j.nut.2012.02.009. Nutritional status in relation to adipokines and oxidative stress is associated with disease activity in patients with rheumatoid arthritis.
Obesità e insufficienza renale: dubbi sull'efficacia dei trattamenti
La gestione ottimale del sovrappeso nei pazienti affetti da insufficienza renale cronica non è chiara, nuovi studi sono richiesti per stabilire le modalità più adatte.
Nel presente studio i ricercatori americani della Glickman Urological and Kidney Institute, Cleveland, hanno investigato quali siano i comportamenti, gli stili di vita e le modalità di riduzione del peso corporeo adottate dagli individui obesi e sovrappeso affetti e non da insufficienza renale cronica, valutando il loro impatto e il profilo di sicurezza.
L’analisi ha riguardato quasi 11.000 adulti partecipanti allo studio National Health and Nutrition Examination Surveys, condotto tra il 1999 e il 2006. Gli autori hanno osservati che l’assunzione giornaliera di calorie era inferiore nei pazienti affetti da insufficienza renale rispetto al coloro non affetti dal disordine (1987 kcal/die vs 2063 kcal die, P=0.02). L’energia derivata dalle proteine era invece simile tra i due gruppi. Almeno il 66% della popolazione affetta da insufficienza renale non rispettava i livelli di attività fisica raccomandati, mentre il 57% dei pazienti non affetti praticava sufficiente erano piuttosto simili, ad eccezione di un 8% degli individui affetti da insufficienza che ricorreva a farmaci per favorire la perdita di peso.
Quali informazioni ha fornito lo studio? Prima di tutto, le strategie perseguite dai pazienti sovrappeso e obesi sembrano essere identiche indipendentemente dalla presenza della patologia renale. Attualmente non esistono sufficienti dati per dimostrare un effetto benefico associato alla perdita intenzionale di peso nella patologia renale. Tuttavia, è emerso il rischio di un abuso di cibi proteici e farmaci per il trattamento dell’obesità da parte dei pazienti affetti da insufficienza renale. Secondo gli autori sono richiesti ulteriori studi per chiarire quali siano le modalità di intervento più adatte per trattare l’obesità in questa categoria di pazienti particolarmente a rischio.
Fonte: S D Navaneethan, J P Kirwan, S Arrigain et al. Overweight, obesity and intentional weight loss in chronic kidney disease: NHANES 1999–2006 International Journal of Obesity
Nel presente studio i ricercatori americani della Glickman Urological and Kidney Institute, Cleveland, hanno investigato quali siano i comportamenti, gli stili di vita e le modalità di riduzione del peso corporeo adottate dagli individui obesi e sovrappeso affetti e non da insufficienza renale cronica, valutando il loro impatto e il profilo di sicurezza.
L’analisi ha riguardato quasi 11.000 adulti partecipanti allo studio National Health and Nutrition Examination Surveys, condotto tra il 1999 e il 2006. Gli autori hanno osservati che l’assunzione giornaliera di calorie era inferiore nei pazienti affetti da insufficienza renale rispetto al coloro non affetti dal disordine (1987 kcal/die vs 2063 kcal die, P=0.02). L’energia derivata dalle proteine era invece simile tra i due gruppi. Almeno il 66% della popolazione affetta da insufficienza renale non rispettava i livelli di attività fisica raccomandati, mentre il 57% dei pazienti non affetti praticava sufficiente erano piuttosto simili, ad eccezione di un 8% degli individui affetti da insufficienza che ricorreva a farmaci per favorire la perdita di peso.
Quali informazioni ha fornito lo studio? Prima di tutto, le strategie perseguite dai pazienti sovrappeso e obesi sembrano essere identiche indipendentemente dalla presenza della patologia renale. Attualmente non esistono sufficienti dati per dimostrare un effetto benefico associato alla perdita intenzionale di peso nella patologia renale. Tuttavia, è emerso il rischio di un abuso di cibi proteici e farmaci per il trattamento dell’obesità da parte dei pazienti affetti da insufficienza renale. Secondo gli autori sono richiesti ulteriori studi per chiarire quali siano le modalità di intervento più adatte per trattare l’obesità in questa categoria di pazienti particolarmente a rischio.
Fonte: S D Navaneethan, J P Kirwan, S Arrigain et al. Overweight, obesity and intentional weight loss in chronic kidney disease: NHANES 1999–2006 International Journal of Obesity
Berberina: un rimedio naturale contro il diabete ?
l composto di origine naturale potrebbe proteggere contro la resistenza all'insulina. Così suggerisce un recente studio
L’assunzione dell’alcaloide berberina sembra esercitare un effetto protettivo contro la resistenza all’insulina. Questi i risultati di un recente studio condotto su modelli animali dai ricercatori cinesi della Sichuan University.
Gli autori della pubblicazione hanno descritto per la prima volta alla gli effetti biologici del composto estratto dalle radici di alcune specie di piante. La somministrazione di berberina sarebbe infatti in grado di agire sugli elementi cellulari ed extracellulari che mediano il segnale dell’ormone insulina sulle cellule β e α pancreatiche e sugli epatociti.
Per fare questo i ricercatori si sono serviti di ratti obesi i quali sono stati assegnati a un’alimentazione grassa, oppure una dieta grassa associata a 2 diversi dosaggi di berberina (100 oppure mg/kg/die).
La dieta grassa determinava un evidente aumento del peso corporeo, del grasso viscerale e dell’indice di resistenza all’insulina. I ricercatori hanno però osservato che entrambi i dosaggi di berberina riducevano gli effetti della dieta grassa. L’espressione del recettore dell’insulina e della molecola substrato del recettore dell’insulina, ad esempio, era decisamente inferiore negli animali destinati alla dieta grassa rispetto a coloro che avevano assunto il composto barberina.
La produzione di glucagone nelle cellule α era, invece, decisamente più elevata nel gruppo destinato ad una dieta grassa non supplementata con il composto. L’espressione del recettore dell’insulina era significativamente inferiore nelle cellule α negli animali destinati alla dieta grassa rispetto al gruppo trattato con il composto. Infine, anche a livello degli epatociti l’espressione del recettore era significativamente inferiore nel gruppo di dieta grassa ma non negli altri due gruppi.
Complessivamente lo studio ha confermato l’effetto della barberina nel mitigare la resistenza all’insulina, dimostrando il potenziale impiego farmacologico del composto per prevenire l’espressione alterata di alcuni recettori a livello delle cellule α e β pancreatiche e degli epatociti.
Fonte: Gu JJ, Gao FY, Zhao TY. A preliminary investigation of the mechanisms underlying the effect of berberine in preventing high-fat diet-induced insulin resistance in rats. J Physiol Pharmacol. 2012
L’assunzione dell’alcaloide berberina sembra esercitare un effetto protettivo contro la resistenza all’insulina. Questi i risultati di un recente studio condotto su modelli animali dai ricercatori cinesi della Sichuan University.
Gli autori della pubblicazione hanno descritto per la prima volta alla gli effetti biologici del composto estratto dalle radici di alcune specie di piante. La somministrazione di berberina sarebbe infatti in grado di agire sugli elementi cellulari ed extracellulari che mediano il segnale dell’ormone insulina sulle cellule β e α pancreatiche e sugli epatociti.
Per fare questo i ricercatori si sono serviti di ratti obesi i quali sono stati assegnati a un’alimentazione grassa, oppure una dieta grassa associata a 2 diversi dosaggi di berberina (100 oppure mg/kg/die).
La dieta grassa determinava un evidente aumento del peso corporeo, del grasso viscerale e dell’indice di resistenza all’insulina. I ricercatori hanno però osservato che entrambi i dosaggi di berberina riducevano gli effetti della dieta grassa. L’espressione del recettore dell’insulina e della molecola substrato del recettore dell’insulina, ad esempio, era decisamente inferiore negli animali destinati alla dieta grassa rispetto a coloro che avevano assunto il composto barberina.
La produzione di glucagone nelle cellule α era, invece, decisamente più elevata nel gruppo destinato ad una dieta grassa non supplementata con il composto. L’espressione del recettore dell’insulina era significativamente inferiore nelle cellule α negli animali destinati alla dieta grassa rispetto al gruppo trattato con il composto. Infine, anche a livello degli epatociti l’espressione del recettore era significativamente inferiore nel gruppo di dieta grassa ma non negli altri due gruppi.
Complessivamente lo studio ha confermato l’effetto della barberina nel mitigare la resistenza all’insulina, dimostrando il potenziale impiego farmacologico del composto per prevenire l’espressione alterata di alcuni recettori a livello delle cellule α e β pancreatiche e degli epatociti.
Fonte: Gu JJ, Gao FY, Zhao TY. A preliminary investigation of the mechanisms underlying the effect of berberine in preventing high-fat diet-induced insulin resistance in rats. J Physiol Pharmacol. 2012
Il peso di latte e derivati
È stata condotta una meta-analisi sugli effetti del consumo di prodotti lattiero-caseari su peso e composizione corporea negli adulti.
Tra gli studi pubblicati da gennaio 1960 a ottobre 2011, 16 sono stati selezionati per una revisione sistematica e 14 studi sono stati inclusi nella meta-analisi.
In particolare 14, 12, 6 e 8 studi clinici randomizzati sono stati reputati idonei avendo i dati su peso, massa grassa, massa magra e WC (circonferenza vita), rispettivamente. In sostanza si è complessivamente evidenziato che la differenza media per l'effetto dei prodotti lattiero-caseari sul peso era di -0,61Kg.
L'aumento dell’assunzione di prodotti lattiero-caseari ha comportato un aumento di peso pari in media a +0,72 kg con maggiore riduzione della massa grassa e aumento della massa magra e ulteriore riduzione di WC pari a 2,19 centimetri meno di quella osservata nei controlli. Infine, l'analisi per sottogruppi ha rivelato che l’aumento dell'assunzione di prodotti lattiero-caseari senza restrizione energetica, non influenza significativamente il peso, la massa grassa, massa magra e WC.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22249225
Int J Obes (Lond). 2012 Dec;36(12):1485-93. doi: 10.1038/ijo.2011.269. Epub 2012 Jan 17. Effect of dairy consumption on weight and body composition in adults: a systematic review and meta-analysis of randomized controlled clinical trials.
Tra gli studi pubblicati da gennaio 1960 a ottobre 2011, 16 sono stati selezionati per una revisione sistematica e 14 studi sono stati inclusi nella meta-analisi.
In particolare 14, 12, 6 e 8 studi clinici randomizzati sono stati reputati idonei avendo i dati su peso, massa grassa, massa magra e WC (circonferenza vita), rispettivamente. In sostanza si è complessivamente evidenziato che la differenza media per l'effetto dei prodotti lattiero-caseari sul peso era di -0,61Kg.
L'aumento dell’assunzione di prodotti lattiero-caseari ha comportato un aumento di peso pari in media a +0,72 kg con maggiore riduzione della massa grassa e aumento della massa magra e ulteriore riduzione di WC pari a 2,19 centimetri meno di quella osservata nei controlli. Infine, l'analisi per sottogruppi ha rivelato che l’aumento dell'assunzione di prodotti lattiero-caseari senza restrizione energetica, non influenza significativamente il peso, la massa grassa, massa magra e WC.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22249225
Int J Obes (Lond). 2012 Dec;36(12):1485-93. doi: 10.1038/ijo.2011.269. Epub 2012 Jan 17. Effect of dairy consumption on weight and body composition in adults: a systematic review and meta-analysis of randomized controlled clinical trials.
Col cavolo si può
Un abbondante consumo di crucifere (cruciferous vegetable CV) è risultato inversamente associato con il rischio di cancro al colon-retto (CRC).
Questo è quanto affermano alcuni ricercatori cinesi che hanno condotto uno studio osservazionale elaborando i dati dagli studi prospettici più rilevanti identificati in MEDLINE dei quali si considerava il rischio relativo (RR) di CRC.
Sono stati così selezionati 24 studi caso-controllo e 11 studi prospettici sui quali è stata condotta una metanalisi. Si è così, in sintesi, dimostrato che, considerando il pool dei dati di tutti gli studi, l’assunzione di CV era inversamente correlata al rischio di CRC.
E nello specifico, considerando solo il consumo di cavoli e broccoli, si ottenevano risultati simili. Una tendenza simile è stata dimostrata anche separando gli studi osservazionali uno per uno. Inoltre, una significativa associazione inversa è stata rilevata anche considerando le sedi secondarie del CRC.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23211939 Ann Oncol. 2012 Dec 4. [Epub ahead of print] Cruciferous vegetables intake and the risk of colorectal cancer: a meta-analysis of observational studies.
Questo è quanto affermano alcuni ricercatori cinesi che hanno condotto uno studio osservazionale elaborando i dati dagli studi prospettici più rilevanti identificati in MEDLINE dei quali si considerava il rischio relativo (RR) di CRC.
Sono stati così selezionati 24 studi caso-controllo e 11 studi prospettici sui quali è stata condotta una metanalisi. Si è così, in sintesi, dimostrato che, considerando il pool dei dati di tutti gli studi, l’assunzione di CV era inversamente correlata al rischio di CRC.
E nello specifico, considerando solo il consumo di cavoli e broccoli, si ottenevano risultati simili. Una tendenza simile è stata dimostrata anche separando gli studi osservazionali uno per uno. Inoltre, una significativa associazione inversa è stata rilevata anche considerando le sedi secondarie del CRC.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23211939 Ann Oncol. 2012 Dec 4. [Epub ahead of print] Cruciferous vegetables intake and the risk of colorectal cancer: a meta-analysis of observational studies.
Aminoacidi e sport
Quali e quanti aminoacidi (AA) vanno somministrati per massimizzare la risposta, in termini di sintesi proteica, a vari stimoli come l'esercizio fisico.
Alcuni ricercatori hanno analizzato, con 2 studi distinti, le risposte, in termini di qualità e quantità di AA circolanti nel plasma, dopo l’assunzione di 20 g di proteine. Nello studio 1, 15 soggetti, non allenati e dopo digiuno notturno, hanno consumato 20 g di proteine da latte scremato, latte di soia, bistecca, uova sode, e un supplemento pasto liquido.
Nello studio 2, 10 soggetti allenati agli sport di resistenza hanno consumato 20 g di proteine in forma solida (barretta ricca di proteine) e somministrata, sia a riposo, sia dopo 60 minuti di corsa. Le concentrazioni plasmatiche di AA sono state misurate istantaneamente, prima e dopo 180 min in entrambi gli studi. Si procedeva con un’analisi farmacocinetica (tramite cromatografia) per definire i profili delle concentrazioni plasmatiche di AA totali (TAA), AA essenziali, AA a catena ramificata (BCAA), e della leucina.
Si è così dimostrato che, sebbene le aree sottese della curva cromatografica TAA siano risultate simili, al confronto tra le fonti alimentari diverse di proteine, i profili dell’aminoacidemia hanno mostrato differenze sostanziali. E dopo l'ingestione di alimenti liquidi ricchi di proteine, il picco della massima concentrazione plasmatica di AA, veniva raggiunto due volte più rapidamente al confronto con l’ingestione di proteine da cibi solidi. In particolare, l’ingestione di latte scremato ha permesso di assicurare il picco di concentrazione di leucina con rapidità significativa rispetto a tutti gli altri alimenti.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23212318 Int J Sport Nutr Exerc Metab. 2012 Dec;22(6):452-62. Effect of intake of different dietary protein sources on plasma amino Acid profiles at rest and after exercise.
Alcuni ricercatori hanno analizzato, con 2 studi distinti, le risposte, in termini di qualità e quantità di AA circolanti nel plasma, dopo l’assunzione di 20 g di proteine. Nello studio 1, 15 soggetti, non allenati e dopo digiuno notturno, hanno consumato 20 g di proteine da latte scremato, latte di soia, bistecca, uova sode, e un supplemento pasto liquido.
Nello studio 2, 10 soggetti allenati agli sport di resistenza hanno consumato 20 g di proteine in forma solida (barretta ricca di proteine) e somministrata, sia a riposo, sia dopo 60 minuti di corsa. Le concentrazioni plasmatiche di AA sono state misurate istantaneamente, prima e dopo 180 min in entrambi gli studi. Si procedeva con un’analisi farmacocinetica (tramite cromatografia) per definire i profili delle concentrazioni plasmatiche di AA totali (TAA), AA essenziali, AA a catena ramificata (BCAA), e della leucina.
Si è così dimostrato che, sebbene le aree sottese della curva cromatografica TAA siano risultate simili, al confronto tra le fonti alimentari diverse di proteine, i profili dell’aminoacidemia hanno mostrato differenze sostanziali. E dopo l'ingestione di alimenti liquidi ricchi di proteine, il picco della massima concentrazione plasmatica di AA, veniva raggiunto due volte più rapidamente al confronto con l’ingestione di proteine da cibi solidi. In particolare, l’ingestione di latte scremato ha permesso di assicurare il picco di concentrazione di leucina con rapidità significativa rispetto a tutti gli altri alimenti.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23212318 Int J Sport Nutr Exerc Metab. 2012 Dec;22(6):452-62. Effect of intake of different dietary protein sources on plasma amino Acid profiles at rest and after exercise.
Più attenti al Crohn !
La diagnosi precoce e certa della malattia di Crohn, data l’interferenza di fattori etnici, dietetici e ambientali, presenta ancora molte difficoltà.
Un gruppo di ricercatori del Cile ha considerato le difficoltà che s’incontrano nella diagnosi certa della malattia di Crohn in fase iniziale, riassumendo l’esperienza di 41 anni di osservazioni e riportandola in una revisione. Nei Paesi in via di sviluppo, spiegano gli autori, il Crohn è sottostimato e spesso mal diagnosticato in base ai soli segni clinici.
In molti casi, il Crohn si può presentare, specie all’inizio, come una sindrome dell'intestino irritabile, come colite ulcerosa, colite infettiva o enterocolite, o linfoma intestinale, o celiachia. Pertanto, sembra opportuno caratterizzarne ulteriormente i segni clinici al fine di stabilire un chiaro concetto di malattia di Crohn aggiungendo e condividendo le varie esperienze provenienti da diversi centri di cura.
Sulla base dell'esperienza clinica maturata tra il 1963 e il 2004 e dai dati riportati nel documento, le principali caratteristiche cliniche della malattia sono: il dolore addominale persistente giorno e notte che diventa più intenso dopo mangiato e la diarrea, talvolta associata alla presenza di una massa nell'addome, senza trascurare le lesioni anali e altri segni aggiuntivi non necessariamente gastroenterici.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23213555 ISRN Gastroenterol. 2012;2012:285475. doi: 10.5402/2012/285475. Epub 2012 Nov 19. Clinical diagnostic clues in Crohn's disease: a 41-year experience.
Un gruppo di ricercatori del Cile ha considerato le difficoltà che s’incontrano nella diagnosi certa della malattia di Crohn in fase iniziale, riassumendo l’esperienza di 41 anni di osservazioni e riportandola in una revisione. Nei Paesi in via di sviluppo, spiegano gli autori, il Crohn è sottostimato e spesso mal diagnosticato in base ai soli segni clinici.
In molti casi, il Crohn si può presentare, specie all’inizio, come una sindrome dell'intestino irritabile, come colite ulcerosa, colite infettiva o enterocolite, o linfoma intestinale, o celiachia. Pertanto, sembra opportuno caratterizzarne ulteriormente i segni clinici al fine di stabilire un chiaro concetto di malattia di Crohn aggiungendo e condividendo le varie esperienze provenienti da diversi centri di cura.
Sulla base dell'esperienza clinica maturata tra il 1963 e il 2004 e dai dati riportati nel documento, le principali caratteristiche cliniche della malattia sono: il dolore addominale persistente giorno e notte che diventa più intenso dopo mangiato e la diarrea, talvolta associata alla presenza di una massa nell'addome, senza trascurare le lesioni anali e altri segni aggiuntivi non necessariamente gastroenterici.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23213555 ISRN Gastroenterol. 2012;2012:285475. doi: 10.5402/2012/285475. Epub 2012 Nov 19. Clinical diagnostic clues in Crohn's disease: a 41-year experience.
Masticare non solo aiuta la digestione
Una corretta masticazione permette di controllare l'assunzione di cibo e le sensazioni di sazietà.
Nella bocca avviene la prima digestione, questo è un dato indiscutibile noto al grande pubblico. La masticazione è infatti indispensabile per favorire la corretta assimilazione dei nutrienti contenuti nel cibo. Non altrettanto diffusa è invece la nozione che la masticazione svolge un importante ruolo nel regolare le sensazioni di sazietà che si accompagnano al consumo del cibo. Un recente studio ha dimostrato l’influenza della masticazione sulle sensazioni di sazietà post-prandiale e sulla risposta glicemica. La pubblicazione porta la firma dei ricercatori del dipartimento di scienze dell’alimentazione della Iowa State University.
Allo studio hanno partecipato 22 individui, alcuni dei quali sono stati istruiti a consumare un uguale porzione di cibo masticandola 15 in volte, altri in 40.
Gli autori hanno quindi valutato il senso di appetito dei partecipanti ad intervalli regolari per tre ore dopo il pasto. Allo stesso tempo, venivano misurate nel plasma le concentrazioni di alcuni indicatori biochimici dello stato di sazietà, tra cui alcuni ormoni, la glicemia, i livelli di insulina e il peptide insulinotropico dipendente dal glucosio (GIP). Subito dopo la serie di misurazioni, ai partecipanti veniva offerto un pasto ad libitum, e i ricercatori misuravano la quantità di cibo consumata dai partecipanti.
Ebbene, i soggetti che avevano consumato il primo pasto durante un numero superiore di cicli masticatori riportavano meno appetito, una minore preoccupazione e desiderio per il cibo rispetto a coloro che ne avevano impiegato un numero inferiore di cicli. Chi aveva masticato più a lungo presentava anche concentrazioni plasmatiche superiori di glucosio, insulina e GIP. Questi soggetti presentavano, infine, concentrazioni plasmatiche superiori di colecistochinina e inferiori dell’ormone grelina.
Lo studio ha chiaramente dimostrato che un numero elevato di cicli masticatori permette di raggiungere un maggiore senso di sazietà, limitando così la sovralimentazione, e può anche promuovere l’assorbimento del glucosio, prevenendo l’iperglicemia.
Fonte: Zhu Y, Hsu WH, Hollis JH. Increasing the number of masticatory cycles is associated with reduced appetite and altered postprandial plasma concentrations of gut hormones, insulin and glucose. Br J Nutr. 2012
Nella bocca avviene la prima digestione, questo è un dato indiscutibile noto al grande pubblico. La masticazione è infatti indispensabile per favorire la corretta assimilazione dei nutrienti contenuti nel cibo. Non altrettanto diffusa è invece la nozione che la masticazione svolge un importante ruolo nel regolare le sensazioni di sazietà che si accompagnano al consumo del cibo. Un recente studio ha dimostrato l’influenza della masticazione sulle sensazioni di sazietà post-prandiale e sulla risposta glicemica. La pubblicazione porta la firma dei ricercatori del dipartimento di scienze dell’alimentazione della Iowa State University.
Allo studio hanno partecipato 22 individui, alcuni dei quali sono stati istruiti a consumare un uguale porzione di cibo masticandola 15 in volte, altri in 40.
Gli autori hanno quindi valutato il senso di appetito dei partecipanti ad intervalli regolari per tre ore dopo il pasto. Allo stesso tempo, venivano misurate nel plasma le concentrazioni di alcuni indicatori biochimici dello stato di sazietà, tra cui alcuni ormoni, la glicemia, i livelli di insulina e il peptide insulinotropico dipendente dal glucosio (GIP). Subito dopo la serie di misurazioni, ai partecipanti veniva offerto un pasto ad libitum, e i ricercatori misuravano la quantità di cibo consumata dai partecipanti.
Ebbene, i soggetti che avevano consumato il primo pasto durante un numero superiore di cicli masticatori riportavano meno appetito, una minore preoccupazione e desiderio per il cibo rispetto a coloro che ne avevano impiegato un numero inferiore di cicli. Chi aveva masticato più a lungo presentava anche concentrazioni plasmatiche superiori di glucosio, insulina e GIP. Questi soggetti presentavano, infine, concentrazioni plasmatiche superiori di colecistochinina e inferiori dell’ormone grelina.
Lo studio ha chiaramente dimostrato che un numero elevato di cicli masticatori permette di raggiungere un maggiore senso di sazietà, limitando così la sovralimentazione, e può anche promuovere l’assorbimento del glucosio, prevenendo l’iperglicemia.
Fonte: Zhu Y, Hsu WH, Hollis JH. Increasing the number of masticatory cycles is associated with reduced appetite and altered postprandial plasma concentrations of gut hormones, insulin and glucose. Br J Nutr. 2012
Gestione della salute ossea nel morbo celiaco
Pubblicata una revisione della letteratura per la gestione della salute muscoloscheletrica nei pazienti affetti da celiachia.
Le raccomandazioni sullo screening, la diagnosi, il trattamento e il follow-up sono state fornite dai ricercatori del King Saudi University, in Arabia Sudita. Il gruppo di studio multi-disciplinario ha analizzato la produzione scientifica di articoli tra il 1996 e il 2010 radunando una serie di proposte destinate ad essere tradotte nella formulazione di nuove linee guida.
Dall’analisi è emerso che al momento della diagnosi almeno un terzo degli adulti affetti dal morbo celiaco presenta osteoporosi e un terzo di osteopenia. Anche i pazienti pediatrici presentano una bassa massa ossea al momento della diagnosi. Entrambi i gruppi di età sono infatti esposti ad un rischio elevato di frattura.
Secondo gli autori, al momento della diagnosi gli adulti dovrebbero essere sottoposti all’esame dei livelli sierici di calcio, di albumina, di vitamina D3, ormone paratiroide e del calcio nelle urine nelle 24 h. I pazienti che presentano una forma classica del morbo dovrebbero invece essere valutati mediante assorbimetria a doppio raggio X (DXA) e l’esame dovrebbe essere ripetuto dopo uno o due anni dall’inizio di una dieta senza glutine. Per i bambini, invece, la densità minerale ossea dovrebbe essere valutata un anno dopo. Il ricorso agli agenti anti-riassorbitivi orali può essere giustificato solamente nei casi che restano ad elevato rischio di frattura anche dopo l’implementazione della dieta senza glutine – donne in post-menopausa, uomini anziani.
In conclusione, le evidenze raccolte dai ricercatori non suggeriscono l’utilità dello screening nei pazienti diagnosticati con morbo celiaco. Tuttavia, il follow-up della densità minerale ossea dovrebbe essere condotto ogni uno o due anni dopo l’inizio di un’alimentazione speciale.
Fonte: Fouda MA, Khan AA, Sultan MS, Rios LP et al. Evaluation and management of skeletal health in celiac disease: position statement. Can J Gastroenterol. 2012
Le raccomandazioni sullo screening, la diagnosi, il trattamento e il follow-up sono state fornite dai ricercatori del King Saudi University, in Arabia Sudita. Il gruppo di studio multi-disciplinario ha analizzato la produzione scientifica di articoli tra il 1996 e il 2010 radunando una serie di proposte destinate ad essere tradotte nella formulazione di nuove linee guida.
Dall’analisi è emerso che al momento della diagnosi almeno un terzo degli adulti affetti dal morbo celiaco presenta osteoporosi e un terzo di osteopenia. Anche i pazienti pediatrici presentano una bassa massa ossea al momento della diagnosi. Entrambi i gruppi di età sono infatti esposti ad un rischio elevato di frattura.
Secondo gli autori, al momento della diagnosi gli adulti dovrebbero essere sottoposti all’esame dei livelli sierici di calcio, di albumina, di vitamina D3, ormone paratiroide e del calcio nelle urine nelle 24 h. I pazienti che presentano una forma classica del morbo dovrebbero invece essere valutati mediante assorbimetria a doppio raggio X (DXA) e l’esame dovrebbe essere ripetuto dopo uno o due anni dall’inizio di una dieta senza glutine. Per i bambini, invece, la densità minerale ossea dovrebbe essere valutata un anno dopo. Il ricorso agli agenti anti-riassorbitivi orali può essere giustificato solamente nei casi che restano ad elevato rischio di frattura anche dopo l’implementazione della dieta senza glutine – donne in post-menopausa, uomini anziani.
In conclusione, le evidenze raccolte dai ricercatori non suggeriscono l’utilità dello screening nei pazienti diagnosticati con morbo celiaco. Tuttavia, il follow-up della densità minerale ossea dovrebbe essere condotto ogni uno o due anni dopo l’inizio di un’alimentazione speciale.
Fonte: Fouda MA, Khan AA, Sultan MS, Rios LP et al. Evaluation and management of skeletal health in celiac disease: position statement. Can J Gastroenterol. 2012
Nefropatici a dieta
Nei pazienti con insufficienza renale grave e in attesa di dialisi il counselling nutrizionale intenso migliora l’aderenza alla dieta ipoproteica.
In uno studio condotto in Brasile sono stati inclusi pazienti adulti con un tasso stimato di filtrazione glomerulare (eGFR) <60 mL/min/1.73 m (2) in trattamento conservativo.
I pazienti sono stati randomizzati per ricevere una consulenza nutrizionale standard (incontro individuale con counselling sul programma della dieta: 6-0,75 g di proteine / kg / die o 0,6 e 0,8 g / kg / die per i pazienti affetti da diabete e da 25 a 35 kcal / kg / die con restrizione di sodio) o un counselling intenso di gruppo (con istruzioni specifiche sui nutrienti, sul contenuto di proteine e di sodio).
Entrambi i gruppi sono stati seguiti per mezzo di singole visite mensili per 4 mesi. Al termine degli incontri si è potuto dimostrare che il programma di counselling più intenso ha contribuito a ridurre ulteriormente l'assunzione di proteine da parte dei pazienti, al di là delle raccomandazioni ricevute.
Fonte
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23194841 J Ren Nutr. 2012 Nov 27. pii: S1051-2276(12)00203-8. doi: 10.1053/j.jrn.2012.10.004. [Epub ahead of print]
Can Renal Nutrition Education Improve Adherence to a Low-Protein Diet in Patients With Stages 3 to 5 Chronic Kidney Disease?
In uno studio condotto in Brasile sono stati inclusi pazienti adulti con un tasso stimato di filtrazione glomerulare (eGFR) <60 mL/min/1.73 m (2) in trattamento conservativo.
I pazienti sono stati randomizzati per ricevere una consulenza nutrizionale standard (incontro individuale con counselling sul programma della dieta: 6-0,75 g di proteine / kg / die o 0,6 e 0,8 g / kg / die per i pazienti affetti da diabete e da 25 a 35 kcal / kg / die con restrizione di sodio) o un counselling intenso di gruppo (con istruzioni specifiche sui nutrienti, sul contenuto di proteine e di sodio).
Entrambi i gruppi sono stati seguiti per mezzo di singole visite mensili per 4 mesi. Al termine degli incontri si è potuto dimostrare che il programma di counselling più intenso ha contribuito a ridurre ulteriormente l'assunzione di proteine da parte dei pazienti, al di là delle raccomandazioni ricevute.
Fonte
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23194841 J Ren Nutr. 2012 Nov 27. pii: S1051-2276(12)00203-8. doi: 10.1053/j.jrn.2012.10.004. [Epub ahead of print]
Can Renal Nutrition Education Improve Adherence to a Low-Protein Diet in Patients With Stages 3 to 5 Chronic Kidney Disease?
Prima la depressione e poi l'obesità?
La depressione e l’ansia sono spesso inizialmente associate a obesità addominale con dislipidemie e, successivamente, al rischio cardiovascolare.
Queste associazioni sono state indagate in 2126 soggetti inclusi nel Netherlands Study of Depression and Anxiety. Si procedeva considerando al basale l’eventuale associazione tra la gravità della depressione (Inventory of Depressive Symptoms) o dell’ansia (Beck Anxiety Inventory) al confronto con i cambiamenti dei lipidi plasmatici (colesterolemia totale HDL, LDL e trigliceridi) e la misura della circonferenza vita nel corso di 2 anni di follow-up.
E’ stata quindi condotta un’analisi multivariata eliminando i fattori confondenti come età, sesso, istruzione e tabagismo. Si è così, in sintesi, evidenziato che per la depressione grave, si confermavano le correlazioni negative con l’aumento del colesterolo totale e della circonferenza vita, ma la riduzione dei sintomi depressivi non sembrava coincidere con un miglioramento della misura della circonferenza vita, o dei livelli di colesterolo HDL e, nel tempo, un aumento dell’obesità addominale non corrispondeva a una potenziale riduzione della gravità dei sintomi depressivi.
Di conseguenza, queste persone sono a rischio prolungato e crescente per le dislipidemie e l'obesità, che, a loro volta, li predispongono a malattie cardiovascolari.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23197842 Psychosom Med. 2012 Nov 28. [Epub ahead of print] Longitudinal Relationship of Depressive and Anxiety Symptoms With Dyslipidemia and Abdominal Obesity.
Queste associazioni sono state indagate in 2126 soggetti inclusi nel Netherlands Study of Depression and Anxiety. Si procedeva considerando al basale l’eventuale associazione tra la gravità della depressione (Inventory of Depressive Symptoms) o dell’ansia (Beck Anxiety Inventory) al confronto con i cambiamenti dei lipidi plasmatici (colesterolemia totale HDL, LDL e trigliceridi) e la misura della circonferenza vita nel corso di 2 anni di follow-up.
E’ stata quindi condotta un’analisi multivariata eliminando i fattori confondenti come età, sesso, istruzione e tabagismo. Si è così, in sintesi, evidenziato che per la depressione grave, si confermavano le correlazioni negative con l’aumento del colesterolo totale e della circonferenza vita, ma la riduzione dei sintomi depressivi non sembrava coincidere con un miglioramento della misura della circonferenza vita, o dei livelli di colesterolo HDL e, nel tempo, un aumento dell’obesità addominale non corrispondeva a una potenziale riduzione della gravità dei sintomi depressivi.
Di conseguenza, queste persone sono a rischio prolungato e crescente per le dislipidemie e l'obesità, che, a loro volta, li predispongono a malattie cardiovascolari.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23197842 Psychosom Med. 2012 Nov 28. [Epub ahead of print] Longitudinal Relationship of Depressive and Anxiety Symptoms With Dyslipidemia and Abdominal Obesity.
Dieta, esercizio fisico e colesterolo
La dieta e l’esercizio fisico aerobico, da soli o insieme, potrebbero ridurre i livelli di colesterolemia non HDL; ma forse non sempre!
Alcuni ricercatori americani hanno condotto una metanalisi per verificare gli effetti della dieta e dell’esercizio fisico aerobico, sui livelli del colesterolo non HDL. Sono stati inclusi gli studi randomizzati controllati condotti sugli adulti (età ≥ 18 anni).
La significatività statistica è stata fissata a P ≤ 0,05, mentre una tendenza per la significatività statistica è stata fissata tra P> 0.05, e ≤ 0.10.
E’ stata dimostrata una correlazione negativa tra dieta abbinata all’esercizio e livelli di Colesterolo non-HDL, confrontando i soggetti che insieme alla dieta praticavano attività fisica (DE - 389 partecipanti).
Il gruppo D (soggetti sottoposti solo alla dieta - 402 partecipanti) confrontati coi controlli, mostravano una lieve tendenza alla riduzione del livelli del Colesterolo non-HDL. E il gruppo di soggetti che erano stati sottoposti al solo esercizio fisico (E - 387 partecipanti) non mostrava alcun cambiamento.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23198142
Cholesterol. 2012;2012:840935. doi: 10.1155/2012/840935. Epub 2012 Nov 8.
Effects of Diet, Aerobic Exercise, or Both on Non-HDL-C in Adults: A Meta-Analysis of Randomized Controlled Trials.
Alcuni ricercatori americani hanno condotto una metanalisi per verificare gli effetti della dieta e dell’esercizio fisico aerobico, sui livelli del colesterolo non HDL. Sono stati inclusi gli studi randomizzati controllati condotti sugli adulti (età ≥ 18 anni).
La significatività statistica è stata fissata a P ≤ 0,05, mentre una tendenza per la significatività statistica è stata fissata tra P> 0.05, e ≤ 0.10.
E’ stata dimostrata una correlazione negativa tra dieta abbinata all’esercizio e livelli di Colesterolo non-HDL, confrontando i soggetti che insieme alla dieta praticavano attività fisica (DE - 389 partecipanti).
Il gruppo D (soggetti sottoposti solo alla dieta - 402 partecipanti) confrontati coi controlli, mostravano una lieve tendenza alla riduzione del livelli del Colesterolo non-HDL. E il gruppo di soggetti che erano stati sottoposti al solo esercizio fisico (E - 387 partecipanti) non mostrava alcun cambiamento.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23198142
Cholesterol. 2012;2012:840935. doi: 10.1155/2012/840935. Epub 2012 Nov 8.
Effects of Diet, Aerobic Exercise, or Both on Non-HDL-C in Adults: A Meta-Analysis of Randomized Controlled Trials.
La Francia mette al bando il BISFENOLO A e altri paesi come Danimarca e Svezia ci stanno pensando
Il Senato francese ha approvato una norma che prevede il divieto di impiego del bisfenolo A (BPA) in tutti gli imballaggi per cibi e bevande a partire dal 2015, e già da inizio 2013 per i prodotti alimentari destinati ai bambini fino ai 3 anni. Prima che entri in vigore il divieto totale (1 luglio 2015), la normativa prevede anche un'apposita etichettatura per le confezioni contenenti BPA, destinati a donne in stato di gravidanza o bambini, i soggetti considerati più a rischio.
La proposta di divieto, già da tempo nell’aria, è stata ritardata di 18 mesi per consentire all’industria alimentare di trovare e sperimentare adeguate alternative agli imballaggi con bisfenolo.
Questa campagna ha permesso ad altri Stati membri dell’UE di avviare iniziative simili, perché «tutti dovrebbero essere consapevoli dei pericoli derivanti dall’utilizzo del BPA» come afferma la senatrice francese Patricia Schillinger. Ma tra i politici le opinioni non sono unanimi. Il Ministro della salute Marisol Touraine ha espresso la propria soddisfazione per l’esito del voto al Senato, affermando che non possono più esserci dubbi sui pericoli rappresentati dal BPA.
Una fetta del parlamento sostiene che servirebbe più tempo prima di introdurre il divieto, per avere la certezza che le alternative proposte dall’Autorità per la sicurezza alimentare francese siano valide e sicure (l’ANSES avrebbe individuato ben 73 potenziali alternative al BPA). Infatti anche per altre sostanze plastiche i dubbi sono molti.
Nonostante le forti pressioni delle industrie del settore packaging sulla Commissione Europea perché venga bloccato il divieto di impiego di bisfenolo A negli imballaggi, molti Stati stanno prendendo iniziative autonome simili a quella francese. In Danimarca la legge vieta il BPA nei prodotti destinati ai bambini fino ai tre anni di età, mentre in Belgio la proibizione partirà dal 1 gennaio 2013.
Anche la Svezia ha fatto sapere che presto si muoverà in questa direzione.
Ma resta un dubbio: come si comporteranno le aziende di fronte all’impossibilità di commercializzare i prodotti con BPA in alcuni Stati Europei? Cambieranno le produzioni su larga scala scegliendo di uniformarsi al veto o si creeranno diverse vie di mercato?
Fonte:
Il fatto Alimentare
http://www.ilfattoalimentare.it/bpa-francia-senato.html
La proposta di divieto, già da tempo nell’aria, è stata ritardata di 18 mesi per consentire all’industria alimentare di trovare e sperimentare adeguate alternative agli imballaggi con bisfenolo.
Questa campagna ha permesso ad altri Stati membri dell’UE di avviare iniziative simili, perché «tutti dovrebbero essere consapevoli dei pericoli derivanti dall’utilizzo del BPA» come afferma la senatrice francese Patricia Schillinger. Ma tra i politici le opinioni non sono unanimi. Il Ministro della salute Marisol Touraine ha espresso la propria soddisfazione per l’esito del voto al Senato, affermando che non possono più esserci dubbi sui pericoli rappresentati dal BPA.
Una fetta del parlamento sostiene che servirebbe più tempo prima di introdurre il divieto, per avere la certezza che le alternative proposte dall’Autorità per la sicurezza alimentare francese siano valide e sicure (l’ANSES avrebbe individuato ben 73 potenziali alternative al BPA). Infatti anche per altre sostanze plastiche i dubbi sono molti.
Nonostante le forti pressioni delle industrie del settore packaging sulla Commissione Europea perché venga bloccato il divieto di impiego di bisfenolo A negli imballaggi, molti Stati stanno prendendo iniziative autonome simili a quella francese. In Danimarca la legge vieta il BPA nei prodotti destinati ai bambini fino ai tre anni di età, mentre in Belgio la proibizione partirà dal 1 gennaio 2013.
Anche la Svezia ha fatto sapere che presto si muoverà in questa direzione.
Ma resta un dubbio: come si comporteranno le aziende di fronte all’impossibilità di commercializzare i prodotti con BPA in alcuni Stati Europei? Cambieranno le produzioni su larga scala scegliendo di uniformarsi al veto o si creeranno diverse vie di mercato?
Fonte:
Il fatto Alimentare
http://www.ilfattoalimentare.it/bpa-francia-senato.html
Ossa fragili dopo il By - Pass
Dopo un anno dall’intervento, la densità minerale ossea (BMD) appare diminuita, nelle donne sottoposte a by-pass gastrico (RYGB).
Lo confermano i risultati di uno studio condotto in Brasile che ha incluso 22 pazienti di sesso femminile e di età media 37,2 ± 9,6 anni, l’86% delle quali era di origine caucasica e il 77,2% era in premenopausa.
La media preoperatoria del valore di BMI era 44,4 ± 5,0 e dopo 1 anno di follow-up il decremento era notevole: 27,5 ± 4,5 kg / m (2). I livelli plasmatici di 25-OH-vitamina D erano simili in entrambi i periodi. I marcatori di riassorbimento osseo e l'ormone paratiroideo prima e dopo l’intervento misuravano rispettivamente 16,3 ± 3,4 vs 38,2 ± 7,0 nM – (N-telopeptide) e 45,4 ± 16,7 vs 62,7 ± 28,9 pg / mL (ormone paratiroideo) rimarcando un aumento del riassorbimento osseo.
Infatti, la BMD risultava diminuita dopo l'intervento di RYGB specie nella colonna lombare, nel collo del femore e nel femore in toto. Tutto ciò fa pensare a una carenza di vitamina D e a un aumento del riassorbimento osseo intervenuti dopo il by-pass.
Fonte: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22692668
Obes Surg. 2012 Jun 13. [Epub ahead of print] Changes in Bone Mineral Density in Women Following 1-Year Gastric Bypass Surgery.
Lo confermano i risultati di uno studio condotto in Brasile che ha incluso 22 pazienti di sesso femminile e di età media 37,2 ± 9,6 anni, l’86% delle quali era di origine caucasica e il 77,2% era in premenopausa.
La media preoperatoria del valore di BMI era 44,4 ± 5,0 e dopo 1 anno di follow-up il decremento era notevole: 27,5 ± 4,5 kg / m (2). I livelli plasmatici di 25-OH-vitamina D erano simili in entrambi i periodi. I marcatori di riassorbimento osseo e l'ormone paratiroideo prima e dopo l’intervento misuravano rispettivamente 16,3 ± 3,4 vs 38,2 ± 7,0 nM – (N-telopeptide) e 45,4 ± 16,7 vs 62,7 ± 28,9 pg / mL (ormone paratiroideo) rimarcando un aumento del riassorbimento osseo.
Infatti, la BMD risultava diminuita dopo l'intervento di RYGB specie nella colonna lombare, nel collo del femore e nel femore in toto. Tutto ciò fa pensare a una carenza di vitamina D e a un aumento del riassorbimento osseo intervenuti dopo il by-pass.
Fonte: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22692668
Obes Surg. 2012 Jun 13. [Epub ahead of print] Changes in Bone Mineral Density in Women Following 1-Year Gastric Bypass Surgery.
Donne in età critica
Le politiche di prevenzione contro l’aumento dell’obesità dovrebbero focalizzare gli interventi di risanamento sulle donne più giovani e socialmente svantaggiate.
Questo nella sostanza il suggerimento che viene da un’osservazione condotta in Canada che ha coinvolto le donne che hanno partorito in Nuova Scotia tra il 1988 e il 2006. Lo scopo primario era quello di definire un’eventuale età critica nella quale s’instaura l’obesità e valutarne le tendenze socioeconomiche, demografiche e temporali, utilizzando un’analisi di regressione lineare.
Nel periodo considerato ci sono stati 172.373 parti in una coorte di 110.743 donne. Si è poi evidenziato che il peso corporeo materno era aumentato in modo significativo (0,5 Kg/anno) nelle donne con residenza rurale e a reddito più basso. Una successiva stima del 2010 ha individuato un ulteriore incremento (82.000 in più) di donne obese o sovrappeso rispetto al numero previsto non più di 2 decenni prima. L'età critica per l'aumento di peso è stata, quindi, identificata tra i 20 ei 24 anni.
Questa è una fascia di età molto delicata e importante che indica, secondo gli autori, un periodo di transizione tra l'adolescenza e l'età adulta, nel quale è necessario intervenire sostenendo le giovani donne maggiormente esposte al rischio di obesità.
Fonte: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22518300
J Obes. 2012;2012:934895. Epub 2012 Feb 2. Targeting policy for obesity prevention: identifying the critical age for weight gain in women.
Questo nella sostanza il suggerimento che viene da un’osservazione condotta in Canada che ha coinvolto le donne che hanno partorito in Nuova Scotia tra il 1988 e il 2006. Lo scopo primario era quello di definire un’eventuale età critica nella quale s’instaura l’obesità e valutarne le tendenze socioeconomiche, demografiche e temporali, utilizzando un’analisi di regressione lineare.
Nel periodo considerato ci sono stati 172.373 parti in una coorte di 110.743 donne. Si è poi evidenziato che il peso corporeo materno era aumentato in modo significativo (0,5 Kg/anno) nelle donne con residenza rurale e a reddito più basso. Una successiva stima del 2010 ha individuato un ulteriore incremento (82.000 in più) di donne obese o sovrappeso rispetto al numero previsto non più di 2 decenni prima. L'età critica per l'aumento di peso è stata, quindi, identificata tra i 20 ei 24 anni.
Questa è una fascia di età molto delicata e importante che indica, secondo gli autori, un periodo di transizione tra l'adolescenza e l'età adulta, nel quale è necessario intervenire sostenendo le giovani donne maggiormente esposte al rischio di obesità.
Fonte: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22518300
J Obes. 2012;2012:934895. Epub 2012 Feb 2. Targeting policy for obesity prevention: identifying the critical age for weight gain in women.
BMI e fertilità maschile
Nei maschi di coppie scarsamente fertili, un elevato BMI accompagnato ad adiposità centrale, sembra associato a cattiva qualità dello sperma.
Questo è nella sostanza il risultato di una ricerca olandese nella quale sono stati coinvolti 450 uomini di coppie sub-fertili afferenti a un centro specialistico per l’assistenza di coppia.
L’ipotesi primaria era la verifica di eventuali correlazioni tra il BMI e la concentrazione di spermatozoi (milioni per ml), la percentuale di spermatozoi mobili e immobili, e numero totale di spermatozoi mobili (milioni).
Si è così dimostrato che il sovrappeso era negativamente associato con la percentuale di motilità progressiva degli spermatozoi e positivamente associato con la percentuale d’immobilità. L'obesità era negativamente associata con il volume dell’eiaculato, la concentrazione di spermatozoi e il numero totale di spermatozoi mobili.
Inoltre, una circonferenza vita ≥ 102 cm, che deponeva per adiposità centrale, era inversamente associata alla concentrazione dello sperma e al numero totale di spermatozoi mobili. Tutte le associazioni sono rimaste significative dopo aggiustamento per età, etnia, fumo attivo e passivo, consumo di alcol, uso di farmaci e status dei folati.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22693175
Hum Reprod. 2012 Jun 12. [Epub ahead of print]
Body mass index and central adiposity are associated with sperm quality in men of subfertile couples.
Questo è nella sostanza il risultato di una ricerca olandese nella quale sono stati coinvolti 450 uomini di coppie sub-fertili afferenti a un centro specialistico per l’assistenza di coppia.
L’ipotesi primaria era la verifica di eventuali correlazioni tra il BMI e la concentrazione di spermatozoi (milioni per ml), la percentuale di spermatozoi mobili e immobili, e numero totale di spermatozoi mobili (milioni).
Si è così dimostrato che il sovrappeso era negativamente associato con la percentuale di motilità progressiva degli spermatozoi e positivamente associato con la percentuale d’immobilità. L'obesità era negativamente associata con il volume dell’eiaculato, la concentrazione di spermatozoi e il numero totale di spermatozoi mobili.
Inoltre, una circonferenza vita ≥ 102 cm, che deponeva per adiposità centrale, era inversamente associata alla concentrazione dello sperma e al numero totale di spermatozoi mobili. Tutte le associazioni sono rimaste significative dopo aggiustamento per età, etnia, fumo attivo e passivo, consumo di alcol, uso di farmaci e status dei folati.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22693175
Hum Reprod. 2012 Jun 12. [Epub ahead of print]
Body mass index and central adiposity are associated with sperm quality in men of subfertile couples.
Obesi nel cuore
L’obesità e l’invecchiamento comportano cambiamenti del tessuto cardiaco a livello molecolare sulla via di segnalazione AMPK dipendente.
L'obesità è associata a un'aumentata incidenza di ipertrofia ventricolare sinistra, a disfunzione diastolica, insufficienza cardiaca, e a un invecchiamento cardiaco precoce. Nel cuore, l'attivazione intrinseca della proteina chimasi AMP-dipendente (AMPK) svolge un ruolo fondamentale nella risposta allo stress da ischemia e ipertrofia.
Inoltre, AMPK è un importante regolatore della biogenesi mitocondriale cardiaca. Partendo da questi presupposti 60 pazienti maschi sottoposti a chirurgia cardiaca sono stati osservati suddividendoli in 4 gruppi di 15 pazienti ciascuno (anziani peso normale: ON; anziani obesi: OO; giovani peso normale: YN, giovani obesi: YO) in base al BMI (18,5-25: normale peso o 30-35: obesi) e all’età (<55 anni: giovani o> 70: anziani).
Si procedeva analizzando l’espressione di adiponectina o di altri attivatori delle vie di segnale AMPK dipendenti nel tessuto atriale di destra. Gli autori hanno così dimostrato che l’obesità sommata all’invecchiamento cardiaco comporta cambiamenti molecolari nel tessuto cardiaco atriale di destra che potrebbero seguire direzioni diverse e opposte.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22546364 Exp Gerontol. 2012 Apr 23. [Epub ahead of print] Age and obesity-associated changes in the expression and activation of components of the AMPK signaling pathway in human right atrial tissue.
L'obesità è associata a un'aumentata incidenza di ipertrofia ventricolare sinistra, a disfunzione diastolica, insufficienza cardiaca, e a un invecchiamento cardiaco precoce. Nel cuore, l'attivazione intrinseca della proteina chimasi AMP-dipendente (AMPK) svolge un ruolo fondamentale nella risposta allo stress da ischemia e ipertrofia.
Inoltre, AMPK è un importante regolatore della biogenesi mitocondriale cardiaca. Partendo da questi presupposti 60 pazienti maschi sottoposti a chirurgia cardiaca sono stati osservati suddividendoli in 4 gruppi di 15 pazienti ciascuno (anziani peso normale: ON; anziani obesi: OO; giovani peso normale: YN, giovani obesi: YO) in base al BMI (18,5-25: normale peso o 30-35: obesi) e all’età (<55 anni: giovani o> 70: anziani).
Si procedeva analizzando l’espressione di adiponectina o di altri attivatori delle vie di segnale AMPK dipendenti nel tessuto atriale di destra. Gli autori hanno così dimostrato che l’obesità sommata all’invecchiamento cardiaco comporta cambiamenti molecolari nel tessuto cardiaco atriale di destra che potrebbero seguire direzioni diverse e opposte.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22546364 Exp Gerontol. 2012 Apr 23. [Epub ahead of print] Age and obesity-associated changes in the expression and activation of components of the AMPK signaling pathway in human right atrial tissue.
Liposuzione "6XL"
Interventi di liposuzione di ampia portata sugli obesi appaiono associati a miglioramento metabolico e utili nella prevenzione del diabete di tipo2.
Questi, in buona sostanza, sono i risultati preliminari di uno studio che ha coinvolto 31 pazienti con BMI superiore a 30 kg / m (2) con un follow-up di 1 anno. Più precisamente, 16 dei 31 soggetti arruolati sono stati controllati dopo 3 e 12 mesi dall’intervento rilevando la pressione arteriosa, la glicemia a digiuno, il livello plasmatico di emoglobina glicosilata (HbA1c), il peso, il BMI.
IL volume dell’aspirato era in media 8.455 ml senza dermolipectomia e 5795 ml con dermolipectomia. Tutti i parametri rilevati al tempo 0 prima dell’intervento e dopo 3-12 mesi dall’intervento evidenziavano un trend di miglioramento dei livelli di zucchero nel sangue associati alla perdita di peso.
Gli autori ipotizzano, dunque, che i miglioramenti ottenuti con l’intervento di liposuzione, possano rinfrancare la motivazione dei pazienti a continuare il loro percorso verso un’ulteriore perdita di peso.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21853402 Aesthetic Plast Surg. 2012 Apr;36(2):438-42. Epub 2011 Aug 19. Large-volume liposuction and prevention of type 2 diabetes: a preliminary report.
Questi, in buona sostanza, sono i risultati preliminari di uno studio che ha coinvolto 31 pazienti con BMI superiore a 30 kg / m (2) con un follow-up di 1 anno. Più precisamente, 16 dei 31 soggetti arruolati sono stati controllati dopo 3 e 12 mesi dall’intervento rilevando la pressione arteriosa, la glicemia a digiuno, il livello plasmatico di emoglobina glicosilata (HbA1c), il peso, il BMI.
IL volume dell’aspirato era in media 8.455 ml senza dermolipectomia e 5795 ml con dermolipectomia. Tutti i parametri rilevati al tempo 0 prima dell’intervento e dopo 3-12 mesi dall’intervento evidenziavano un trend di miglioramento dei livelli di zucchero nel sangue associati alla perdita di peso.
Gli autori ipotizzano, dunque, che i miglioramenti ottenuti con l’intervento di liposuzione, possano rinfrancare la motivazione dei pazienti a continuare il loro percorso verso un’ulteriore perdita di peso.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21853402 Aesthetic Plast Surg. 2012 Apr;36(2):438-42. Epub 2011 Aug 19. Large-volume liposuction and prevention of type 2 diabetes: a preliminary report.
Latticini magri prevengono l'ictus
I derivati del latte magri offrono protezione contro le patologie cardiovascolari e l’infarto cerebrale.
Questo è quanto emerge da una vasto studio prospettico condotto dai ricercatori svedesi del Karolisnka Institutet di Stoccolma. I benefici derivanti dal consumo di questi alimenti sarebbero attribuibili al loro contenuto in micronutrienti tra cui calcio, potassio e vitamina D.
E' infatti possibile, per quanto non definitivamente dimostrato, che la vitamina D, di cui sono ricchi i latticini, permetta di mantenere sotto controllo la pressione sanguigna. I derivati del latte grassi, invece, sembrano attenuare queste proprietà benefiche per via del loro effetto di innalzamento dei livelli di colesterolo ematico e di lipoproteine a bassa densità, creando così le condizioni favorevoli per la patogenesi dei disordini vascolari che conducono all’ictus.
I risultati, pubblicati sulla rivista Stroke, si riferiscono ad un campione di 74,961 di individui adulti monitorati per un periodo di dieci anni di cui erano disponibili informazioni individuali complete relative allo stile di vita e l’alimentazione. Durante il tempo di raccolta dei dati sono stati registrati in totale 4089 casi di ictus, dei quali 3159 infarti cerebrali, 583 ictus emorragici e 347 non specificati.
Dallo studio è emerso che gli individui che consumavano prevalentemente latticini magri presentavano un rischio di ictus inferiore a colore che consumavano principalmente derivati del latte grassi. Anche controllando per alcuni potenziali fattori di rischio come fumo, sedentarietà e ipertensione, l’effetto protettivo di questi alimenti persisteva ed era decisamente significativo.
Lo studio ha contribuito a rinforzare la nozione del ruolo protettivo che questi alimenti giocano nella prevenzione delle patologie cardiovascolari. Una ragione in più per includere nella dieta latte scremato, yogurt e formaggi magri in sostituzione dei prodotti grassi.
Fonte: Susanna C. Larsson, Jarmo Virtamo, Alicja Wolk, DMSc Dairy Consumption and Risk of Stroke in Swedish Women and Men Stroke 2012
Questo è quanto emerge da una vasto studio prospettico condotto dai ricercatori svedesi del Karolisnka Institutet di Stoccolma. I benefici derivanti dal consumo di questi alimenti sarebbero attribuibili al loro contenuto in micronutrienti tra cui calcio, potassio e vitamina D.
E' infatti possibile, per quanto non definitivamente dimostrato, che la vitamina D, di cui sono ricchi i latticini, permetta di mantenere sotto controllo la pressione sanguigna. I derivati del latte grassi, invece, sembrano attenuare queste proprietà benefiche per via del loro effetto di innalzamento dei livelli di colesterolo ematico e di lipoproteine a bassa densità, creando così le condizioni favorevoli per la patogenesi dei disordini vascolari che conducono all’ictus.
I risultati, pubblicati sulla rivista Stroke, si riferiscono ad un campione di 74,961 di individui adulti monitorati per un periodo di dieci anni di cui erano disponibili informazioni individuali complete relative allo stile di vita e l’alimentazione. Durante il tempo di raccolta dei dati sono stati registrati in totale 4089 casi di ictus, dei quali 3159 infarti cerebrali, 583 ictus emorragici e 347 non specificati.
Dallo studio è emerso che gli individui che consumavano prevalentemente latticini magri presentavano un rischio di ictus inferiore a colore che consumavano principalmente derivati del latte grassi. Anche controllando per alcuni potenziali fattori di rischio come fumo, sedentarietà e ipertensione, l’effetto protettivo di questi alimenti persisteva ed era decisamente significativo.
Lo studio ha contribuito a rinforzare la nozione del ruolo protettivo che questi alimenti giocano nella prevenzione delle patologie cardiovascolari. Una ragione in più per includere nella dieta latte scremato, yogurt e formaggi magri in sostituzione dei prodotti grassi.
Fonte: Susanna C. Larsson, Jarmo Virtamo, Alicja Wolk, DMSc Dairy Consumption and Risk of Stroke in Swedish Women and Men Stroke 2012
Cattive abitudini alimentari, possibile causa di disturbi depressivi
La depressione potrebbe nascondere un’origine alimentare
L’allarme sul cosiddetto “cibo spazzatura” giunge dai ricercatori spagnoli dell’Università di Las Palmas, Gran Canaria, i quali hanno dimostrato una maggiore predisposizione ai sintomi depressivi in coloro che consumano abitualmente cibi insalubri.
Cibi fast food e prodotti da forno confezionati sono il bersaglio di vere e proprie “crociate sanitarie” che promuovono il controllo dell’alimentazione per la prevenzione di patologie croniche tra cui diabete, disturbi cardiovascolari e cancro. Ultimamente si ritiene che il tipo di dieta possa influire anche sul benessere mentale.
Nello studio, i ricercatori hanno seguito per oltre sei anni circa 9,000 individui, registrando le abitudini alimentari e raccogliendo minuziose informazioni sullo stile di vita. Nessuno dei partecipanti presentava all’inizio dello studio sintomi riconducibili alla depressione o era in trattamento con farmaci psichiatrici. Durate il periodo di raccolta dei dati, 493 individui sono stati diagnosticati con depressione clinica.
I ricercatori hanno potuto constatare che coloro che consumavano maggiori quantità di cibo fast food e prodotti da forno confezionati erano più suscettibili allo sviluppo dei sintomi depressivi. Inoltre, l’entità del consumo di questi alimenti correlava con la severità dei sintomi.
I disturbi psciologici riconducibili alla depressione affliggono approssimativamente 120 milioni di persone nel mondo. Attualmente, poco si conosce sul ruolo dell’alimentazione nella patogenesi del disturbo, ad eccezione di un’associazione epidemiologica con il consumo di grassi di tipo trans. Al contrario, sono stati descritti possibili effetti protettivi esercitati dall’olio di oliva, le vitamine del grupppo B e gli acidi grassi omega-3.
I ricercatori hanno potuto osservare, parallelamente, che gli individui che consumavano maggiori quantità di cibo spazzatura praticavano in media minore attività fisica, erano fumatori, lavoravano più di 45 ore settimanali e consumavano meno frutta, verdure, pesce ed olio di oliva. Si tratta di associazioni fortuite, oppure queste osservazioni rivelano l’esistenza di un preciso quadro comportamentale?
Gli autori hanno ricordato che il campo di studio che analizza la relazione tra alimentazione e salute mentale è estremamente giovane e, forse per questo, la dieta non riceve ancora sufficiente attenzione nella psicologia clinica. Lo studio ha invece fornito evidenza riguardo il contributo dello stile di vita alla patogenesi del disturbo depressivo, indicando come l’alimentazione deve essere considerate un importante bersaglio di interventi correttivi per favorire il benessere psicologico.
Fonte: Almudena Sánchez-Villegas, Estefania Toledo, Jokin de Irala et al. Fast-food and commercial baked goods consumption and the risk of depression Public Health Nutrition
L’allarme sul cosiddetto “cibo spazzatura” giunge dai ricercatori spagnoli dell’Università di Las Palmas, Gran Canaria, i quali hanno dimostrato una maggiore predisposizione ai sintomi depressivi in coloro che consumano abitualmente cibi insalubri.
Cibi fast food e prodotti da forno confezionati sono il bersaglio di vere e proprie “crociate sanitarie” che promuovono il controllo dell’alimentazione per la prevenzione di patologie croniche tra cui diabete, disturbi cardiovascolari e cancro. Ultimamente si ritiene che il tipo di dieta possa influire anche sul benessere mentale.
Nello studio, i ricercatori hanno seguito per oltre sei anni circa 9,000 individui, registrando le abitudini alimentari e raccogliendo minuziose informazioni sullo stile di vita. Nessuno dei partecipanti presentava all’inizio dello studio sintomi riconducibili alla depressione o era in trattamento con farmaci psichiatrici. Durate il periodo di raccolta dei dati, 493 individui sono stati diagnosticati con depressione clinica.
I ricercatori hanno potuto constatare che coloro che consumavano maggiori quantità di cibo fast food e prodotti da forno confezionati erano più suscettibili allo sviluppo dei sintomi depressivi. Inoltre, l’entità del consumo di questi alimenti correlava con la severità dei sintomi.
I disturbi psciologici riconducibili alla depressione affliggono approssimativamente 120 milioni di persone nel mondo. Attualmente, poco si conosce sul ruolo dell’alimentazione nella patogenesi del disturbo, ad eccezione di un’associazione epidemiologica con il consumo di grassi di tipo trans. Al contrario, sono stati descritti possibili effetti protettivi esercitati dall’olio di oliva, le vitamine del grupppo B e gli acidi grassi omega-3.
I ricercatori hanno potuto osservare, parallelamente, che gli individui che consumavano maggiori quantità di cibo spazzatura praticavano in media minore attività fisica, erano fumatori, lavoravano più di 45 ore settimanali e consumavano meno frutta, verdure, pesce ed olio di oliva. Si tratta di associazioni fortuite, oppure queste osservazioni rivelano l’esistenza di un preciso quadro comportamentale?
Gli autori hanno ricordato che il campo di studio che analizza la relazione tra alimentazione e salute mentale è estremamente giovane e, forse per questo, la dieta non riceve ancora sufficiente attenzione nella psicologia clinica. Lo studio ha invece fornito evidenza riguardo il contributo dello stile di vita alla patogenesi del disturbo depressivo, indicando come l’alimentazione deve essere considerate un importante bersaglio di interventi correttivi per favorire il benessere psicologico.
Fonte: Almudena Sánchez-Villegas, Estefania Toledo, Jokin de Irala et al. Fast-food and commercial baked goods consumption and the risk of depression Public Health Nutrition
Cattiva qualità dell'acqua possibile causa di fratture
Alcuni fattori collegati al pH dell'acqua potabile possono aumentare il rischio di frattura ossea.
Lo studio è opera dei ricercatori norvegesi, paese che registra la più alta incidenza di fratture ossee in Europa. La predisposizione ai traumi scheletrici, oltre a possedere una forte componente genetica, può essere determinata da fattori di tipo ambientale in grado di compromettere la resistenza ossea.
Nel presente studio i ricercatori hanno dimostrato che la cattiva qualità dell’acqua potabile è un possibile fattore di rischio per le fratture scheletriche da debole trauma. In particolare, gli autori hanno evidenziato il ruolo del pH, un importante parametro dalla qualità degli alimenti. Le informazioni sulla qualità dell’acqua sono state recuperate dal sistema geografico nazionale, mentre i dati clinici relativi agli eventi di frattura provenivano da un database relativo al periodo 1994 - 2003.
Gli autori hanno potuto osservare che il rischio di frattura dell’avambraccio era massimo, sia negli uomini che nelle donne, attorno al pH 6.75 dell’acqua (debolmente acido), mentre si riduceva per valori più alti e bassi. La probabilità si attenuava, comunque, in seguito alla correzione statistica per altri fattori legati alla qualità dell’acqua come la presenza di batteri enterococco e clostridium.
Questi risultati stabiliscono dunque una possibile associazione tra l’acidità dell’acqua potabile e il rischio di frattura. Tuttavia, questo rischio non sembra dipendere dall’acidità in se, ma piuttosto da altri parametri della qualità dell’acqua legati al pH.
Fonte: Dahl C, Søgaard AJ, Tell GS et al. Is the quality of drinking water a risk factor for self-reported forearm fractures? Cohort of Norway. Osteoporos Int. 2012
Lo studio è opera dei ricercatori norvegesi, paese che registra la più alta incidenza di fratture ossee in Europa. La predisposizione ai traumi scheletrici, oltre a possedere una forte componente genetica, può essere determinata da fattori di tipo ambientale in grado di compromettere la resistenza ossea.
Nel presente studio i ricercatori hanno dimostrato che la cattiva qualità dell’acqua potabile è un possibile fattore di rischio per le fratture scheletriche da debole trauma. In particolare, gli autori hanno evidenziato il ruolo del pH, un importante parametro dalla qualità degli alimenti. Le informazioni sulla qualità dell’acqua sono state recuperate dal sistema geografico nazionale, mentre i dati clinici relativi agli eventi di frattura provenivano da un database relativo al periodo 1994 - 2003.
Gli autori hanno potuto osservare che il rischio di frattura dell’avambraccio era massimo, sia negli uomini che nelle donne, attorno al pH 6.75 dell’acqua (debolmente acido), mentre si riduceva per valori più alti e bassi. La probabilità si attenuava, comunque, in seguito alla correzione statistica per altri fattori legati alla qualità dell’acqua come la presenza di batteri enterococco e clostridium.
Questi risultati stabiliscono dunque una possibile associazione tra l’acidità dell’acqua potabile e il rischio di frattura. Tuttavia, questo rischio non sembra dipendere dall’acidità in se, ma piuttosto da altri parametri della qualità dell’acqua legati al pH.
Fonte: Dahl C, Søgaard AJ, Tell GS et al. Is the quality of drinking water a risk factor for self-reported forearm fractures? Cohort of Norway. Osteoporos Int. 2012
Dieta " portfolio" riduce colesterolo e rischio cardiaco
Fibre solubili, noci e proteine derivate della soia riducono i livelli di LDL e possono prevenire le malattie cardiovascolari.
La cosiddetta dieta portfoilio, basata sul consumo di alimenti ipocolesterolemizzanti, in grado cioè di abbassare i livelli di colesterolo nel sangue è, secondo alcune fonti, più efficace degli approcci alimentari privi di grassi nel prevenire l'aterosclerosi e le patologie cardiovascolari.
I benefici di questi alimenti sono stati testati dai ricercatori dell’Università di Toronto, Canada, in uno studio che ha coinvolto oltre 300 individui affetti da iperlipidemia, livello di lipoptoteine a bassa densità (LDL) medio 171 mg/dL. Gli autori hanno hanno confrontato l’effetto della dieta portfolio con un’alimentazione vegetariana a basso contenuti in grassi.
Un gruppo di patecipanti è stato casualmente assegnato al programma alimentare incentrato su fibre solubili - avena, orzo, melanzane - noci, prodotti a base di proteine della soia (latte di soia, tofu) e mragarine arricchite in steroli vegetali. Un secondo gruppo di uguale ampiezza è stato invece destinato ad una dieta vegetariana di controllo a base di latticini magri, prodotti di farina integrale, frutta e verdura.
Dopo sei mesi, i ricercatori canadesi hanno potuto osservare che nel gruppo portfolio i livelli di LDL si riducevano mediamente dal 13 al 14%, a fronte del 3% in quelli assegnati alla dieta controllo. Inoltre, il gruppo portfolio presentava una riduzione dell’11% del rischio cardiovascolare stimato a dieci anni.
I risultati dello studio, pubblicati su JAMA, forniscono prova scientifica dell’effetto protettivo promosso dalla combinazine di questi particolari alimenti, ciacuno dei quali agirebbe in modo distinto.
Fonte: DJA Jenkins et al.Effect of a Dietary Portfolio of Cholesterol-Lowering Foods Given at 2 Levels of Intensity of Dietary Advice on Serum Lipids in Hyperlipidema JAMA
La cosiddetta dieta portfoilio, basata sul consumo di alimenti ipocolesterolemizzanti, in grado cioè di abbassare i livelli di colesterolo nel sangue è, secondo alcune fonti, più efficace degli approcci alimentari privi di grassi nel prevenire l'aterosclerosi e le patologie cardiovascolari.
I benefici di questi alimenti sono stati testati dai ricercatori dell’Università di Toronto, Canada, in uno studio che ha coinvolto oltre 300 individui affetti da iperlipidemia, livello di lipoptoteine a bassa densità (LDL) medio 171 mg/dL. Gli autori hanno hanno confrontato l’effetto della dieta portfolio con un’alimentazione vegetariana a basso contenuti in grassi.
Un gruppo di patecipanti è stato casualmente assegnato al programma alimentare incentrato su fibre solubili - avena, orzo, melanzane - noci, prodotti a base di proteine della soia (latte di soia, tofu) e mragarine arricchite in steroli vegetali. Un secondo gruppo di uguale ampiezza è stato invece destinato ad una dieta vegetariana di controllo a base di latticini magri, prodotti di farina integrale, frutta e verdura.
Dopo sei mesi, i ricercatori canadesi hanno potuto osservare che nel gruppo portfolio i livelli di LDL si riducevano mediamente dal 13 al 14%, a fronte del 3% in quelli assegnati alla dieta controllo. Inoltre, il gruppo portfolio presentava una riduzione dell’11% del rischio cardiovascolare stimato a dieci anni.
I risultati dello studio, pubblicati su JAMA, forniscono prova scientifica dell’effetto protettivo promosso dalla combinazine di questi particolari alimenti, ciacuno dei quali agirebbe in modo distinto.
Fonte: DJA Jenkins et al.Effect of a Dietary Portfolio of Cholesterol-Lowering Foods Given at 2 Levels of Intensity of Dietary Advice on Serum Lipids in Hyperlipidema JAMA
Radiato dall'Ordine dei Medici Pierre Dukan
Accusato di violare il codice deontologico facendo uso della professione medica per avidità di denaro
Chi non ha sentito parlare della dieta Dukan?
I libri di questo Dottore francese sono diventati best sellers a livello internazionale.
In realtà la dieta Dukan, basata sull'abolizione di carboidrati e zuccheri, è sostanzialmente una dieta iperproteica che induce squilibri metabolici.
Numerose le campagne da lui organizzate per promuovere il suo business, ora pare che ci siano provvedimenti disciplinari in atto per aver fatto uso della professione medica come un mestiere.
Il Corriere della Sera di oggi dedica un articolo alla vicenda.
Clicca qui per leggere l'articolo
La terapia alimentare è una cosa seria, con il cibo ci si può fare male.
L'obesità è una patologia che può avere cause diverse e quindi trattamenti diversi.
Ecco che un approccio personalizzato, ma entro le indicazioni provenienti da linee guida internazionali e da anni e anni di studi clinici, è il sistema valido e validato.
Chi non ha sentito parlare della dieta Dukan?
I libri di questo Dottore francese sono diventati best sellers a livello internazionale.
In realtà la dieta Dukan, basata sull'abolizione di carboidrati e zuccheri, è sostanzialmente una dieta iperproteica che induce squilibri metabolici.
Numerose le campagne da lui organizzate per promuovere il suo business, ora pare che ci siano provvedimenti disciplinari in atto per aver fatto uso della professione medica come un mestiere.
Il Corriere della Sera di oggi dedica un articolo alla vicenda.
Clicca qui per leggere l'articolo
La terapia alimentare è una cosa seria, con il cibo ci si può fare male.
L'obesità è una patologia che può avere cause diverse e quindi trattamenti diversi.
Ecco che un approccio personalizzato, ma entro le indicazioni provenienti da linee guida internazionali e da anni e anni di studi clinici, è il sistema valido e validato.
Dieta acida e ipertensione
Negli anziani, l’acidosi metabolica lieve, che può essere causata dalla dieta, non appare correlata all’ipertensione arteriosa.
Nell’ambito dei dati forniti dallo studio Rotterdam sono stati selezionati 2241 partecipanti di età ≥ 55 anni, che erano liberi da ipertensione al basale (1990-1993) e per i quali erano disponibili i dati relativi alle abitudini alimentari (FFQ 170) e alla pressione arteriosa.
Sono state utilizzate due misure per caratterizzare il carico acido dietetico: 1) potenziale di carico acido renale (PRAL) utilizzando un algoritmo tra cui proteine, fosforo, potassio, calcio e magnesio, e 2) stima della produzione endogena netta di acido (NEAP) basata su proteine e potassio.
HR per 6-anni d’incidenza di ipertensione sono stati ottenuti in terzili del PRAL e NEAP con aggiustamenti per età, sesso, BMI, il fumo, l'istruzione e l'assunzione di alcool, fibre ed energia totale. Sono stati così identificati 1113 casi d’incidenza d’ipertensione durante 8707 anni-persona di follow-up. La media del carico acido dietetico variava da -14,6 a 19,9 mEq /die tra le diverse categorie PRAL. E, nella sostanza, il rischio d’ipertensione non è risultato significativamente associato al carico acido dietetico.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22552032
Am J Clin Nutr. 2012 May 2. [Epub ahead of print]
Dietary acid load and risk of hypertension: the Rotterdam Study.
Nell’ambito dei dati forniti dallo studio Rotterdam sono stati selezionati 2241 partecipanti di età ≥ 55 anni, che erano liberi da ipertensione al basale (1990-1993) e per i quali erano disponibili i dati relativi alle abitudini alimentari (FFQ 170) e alla pressione arteriosa.
Sono state utilizzate due misure per caratterizzare il carico acido dietetico: 1) potenziale di carico acido renale (PRAL) utilizzando un algoritmo tra cui proteine, fosforo, potassio, calcio e magnesio, e 2) stima della produzione endogena netta di acido (NEAP) basata su proteine e potassio.
HR per 6-anni d’incidenza di ipertensione sono stati ottenuti in terzili del PRAL e NEAP con aggiustamenti per età, sesso, BMI, il fumo, l'istruzione e l'assunzione di alcool, fibre ed energia totale. Sono stati così identificati 1113 casi d’incidenza d’ipertensione durante 8707 anni-persona di follow-up. La media del carico acido dietetico variava da -14,6 a 19,9 mEq /die tra le diverse categorie PRAL. E, nella sostanza, il rischio d’ipertensione non è risultato significativamente associato al carico acido dietetico.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22552032
Am J Clin Nutr. 2012 May 2. [Epub ahead of print]
Dietary acid load and risk of hypertension: the Rotterdam Study.
Supplementare con Omega - 3
Nelle ragazze obese la supplementazione con omega-3 LCPUFA (long-chain polyunsaturated fatty acids) migliora l’omeostasi del glucosio e dell’insulina.
Questo il risultato sostanziale di uno studio in doppio cieco incrociato e randomizzato che ha coinvolto 25adolescenti obesi (14-17 anni, 14 femmine) che per 3 mesi dovevano assumere 1.2 g di omega-3 LCPUFAs o placebo, in capsule, con un periodo di 6 settimane di wash out.
A tutti i partecipanti venivano misurati: glicemia a digiuno, insulinemia, leptina, adiponectina, e profilo lipidico. E al termine di ciascun periodo venivano eseguito il test per l’intolleranza al glucosio per via endovenosa (IVGTT) il clamp glicemia/insulina e le biopsie muscolari scheletriche.
Si è così evidenziato che le concentrazioni di EPA, DHA, e omega-3 PUFA totali erano aumentate in entrambi i sessi nei fosfolipidi muscolari. Tuttavia, solo nelle femmine, la supplementazione con omega-3 LCPUFA migliorava la tolleranza al glucosio del 39% e la concentrazione d’insulina durante IVGTT veniva ripristinata del 34% con un miglioramento della sensibilità all'insulina del 17%. E queste modificazioni non influenzavano il peso corporeo.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22523671 J Nutr Metab. 2012;2012:395757. Epub 2012 Feb 20. High physiological omega-3 Fatty Acid supplementation affects muscle Fatty Acidcomposition and glucose and insulin homeostasis in obese adolescents.
Questo il risultato sostanziale di uno studio in doppio cieco incrociato e randomizzato che ha coinvolto 25adolescenti obesi (14-17 anni, 14 femmine) che per 3 mesi dovevano assumere 1.2 g di omega-3 LCPUFAs o placebo, in capsule, con un periodo di 6 settimane di wash out.
A tutti i partecipanti venivano misurati: glicemia a digiuno, insulinemia, leptina, adiponectina, e profilo lipidico. E al termine di ciascun periodo venivano eseguito il test per l’intolleranza al glucosio per via endovenosa (IVGTT) il clamp glicemia/insulina e le biopsie muscolari scheletriche.
Si è così evidenziato che le concentrazioni di EPA, DHA, e omega-3 PUFA totali erano aumentate in entrambi i sessi nei fosfolipidi muscolari. Tuttavia, solo nelle femmine, la supplementazione con omega-3 LCPUFA migliorava la tolleranza al glucosio del 39% e la concentrazione d’insulina durante IVGTT veniva ripristinata del 34% con un miglioramento della sensibilità all'insulina del 17%. E queste modificazioni non influenzavano il peso corporeo.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22523671 J Nutr Metab. 2012;2012:395757. Epub 2012 Feb 20. High physiological omega-3 Fatty Acid supplementation affects muscle Fatty Acidcomposition and glucose and insulin homeostasis in obese adolescents.
Vitamina D3 più efficace della D2
La vitamina D3 (colecalciferolo) sembra possedere qualità biologiche superiori alla forma D2 in quanto presenterebbe una permanenza in circolo più prolungata.
La vitamina D è un pro-ormone assimilabile con l’alimentazione e prodotto mediante sintesi endogena. Esistono, infatti, due forme della vitamina: D2 (ergocalciferolo) e D3 (colecalciferolo), la prima di origine vegetale, la seconda sintetizzata a livello cutaneo per azione della luce ultravioletta a partire dalla molecola di deidrocolesterolo. Attualmente sono disponibili supplementi di entrambe le forme della vitamina.
I due composti presentano strutture molecolari pressoché identiche, eccetto per la presenza di ramificazioni laterali che, tuttavia, non incidono sulla funzione. Entrambe le molecole non possiedono di per sé attività biologica ma richiedono una serie di modificazioni enzimatiche per raggiungere la forma attiva.
La prima fase di modificazioni avviene nel fegato, dove le vitamine D2 e D3 sono convertite nel composto 25-idrossivitamina D (25(OH)D). Successivamente, nel rene un enzima simile converte la 25(OH)D in 1,25-diidrossivitamina D2 o D3 (calcitriolo). Questa è la forma attiva del composto, in grado di esercitare importanti effetti sistemici come la regolazione della concentrazione sierica di calcio e ione fosfato ottenuta mediante il controllo dell’assorbimento intestinale, escrezione renale e mobilitazione dal compartimento osseo.
Per quanto i due composti subiscano processi enzimatici simili si ipotizza una diversa efficacia per le due forme (D2 e D3) nel contribuire alla concentrazione di 25(OH)D nel circolo. Una spiegazione di questo fenomeno sembra dipendere dalla diversa affinità che le due forme possiedono per il recettore della vitamina, il cui legame è cruciale per prevenire l’inattivazione del composto. Inoltre, si ritiene che il colecalciferolo (D3) sia il substrato preferenziale dell’enzima epatico e quindi il principale precursore del composto biologicamente attivo.
Un recente studio ha cercato conferma di queste osservazioni analizzando una serie di pubblicazioni relative a trials controllati che comparavano direttamente l’efficacia delle due forme, D2 e D3.
Il team congiunto di ricercatori della University of Surrey, Guildford, UK, University College London, University of Manchester e University of Toronto hanno potuto osservare che, indipendentemente dalla dose di somministrata, la forma D3 (colecalciferolo) era più efficace nell’aumentare i livelli di calcitriolo. I supplementi di colecalciferolo (D3) determinavano inotre una risposta più rapida rispetto a quanto era ottenibile con la forma D2. Gli autori hanno anche notato che a distanza di 12 settimane dall’interruzione della supplementazione, la forma 25(OH)D2 (ergocalciferolo) veniva degradata più rapidamente rispetto alla forma 25(OH)D3 (colecalciferolo),
Queste differenze vengono spiegate in termini di metabolismo della vitamina, con particolare riferimento ai passaggi enzimatici di idrossilazione che convertono il pro-ormone nella forma biologicamente attiva.
Le differenze strutturali, per quanto minime, potrebbero infatti influenzare il tasso di conversione del composto e l’affinità per il recettore. L’idrossilazione renale sembra infatti favorire la forma D3 (colecalciferolo), la quale resterebbe attiva per un tempo superiore e contribuirebbe dunque in modo più significativo alla concentrazione della vitamina nel siero. La forma D2, invece, subirebbe un’inattivazione anticipata, prima ancora di raggiungere le successive modifiche enzimatiche.
Fonte: Laura Tripkovic, Helen Lambert, Kathryn Hart et al.Comparison of vitamin D2 and vitamin D3 supplementation in raising serum 25-hydroxyvitamin D status: a systematic review and meta-analysis 2012 American Society for Nutrition
La vitamina D è un pro-ormone assimilabile con l’alimentazione e prodotto mediante sintesi endogena. Esistono, infatti, due forme della vitamina: D2 (ergocalciferolo) e D3 (colecalciferolo), la prima di origine vegetale, la seconda sintetizzata a livello cutaneo per azione della luce ultravioletta a partire dalla molecola di deidrocolesterolo. Attualmente sono disponibili supplementi di entrambe le forme della vitamina.
I due composti presentano strutture molecolari pressoché identiche, eccetto per la presenza di ramificazioni laterali che, tuttavia, non incidono sulla funzione. Entrambe le molecole non possiedono di per sé attività biologica ma richiedono una serie di modificazioni enzimatiche per raggiungere la forma attiva.
La prima fase di modificazioni avviene nel fegato, dove le vitamine D2 e D3 sono convertite nel composto 25-idrossivitamina D (25(OH)D). Successivamente, nel rene un enzima simile converte la 25(OH)D in 1,25-diidrossivitamina D2 o D3 (calcitriolo). Questa è la forma attiva del composto, in grado di esercitare importanti effetti sistemici come la regolazione della concentrazione sierica di calcio e ione fosfato ottenuta mediante il controllo dell’assorbimento intestinale, escrezione renale e mobilitazione dal compartimento osseo.
Per quanto i due composti subiscano processi enzimatici simili si ipotizza una diversa efficacia per le due forme (D2 e D3) nel contribuire alla concentrazione di 25(OH)D nel circolo. Una spiegazione di questo fenomeno sembra dipendere dalla diversa affinità che le due forme possiedono per il recettore della vitamina, il cui legame è cruciale per prevenire l’inattivazione del composto. Inoltre, si ritiene che il colecalciferolo (D3) sia il substrato preferenziale dell’enzima epatico e quindi il principale precursore del composto biologicamente attivo.
Un recente studio ha cercato conferma di queste osservazioni analizzando una serie di pubblicazioni relative a trials controllati che comparavano direttamente l’efficacia delle due forme, D2 e D3.
Il team congiunto di ricercatori della University of Surrey, Guildford, UK, University College London, University of Manchester e University of Toronto hanno potuto osservare che, indipendentemente dalla dose di somministrata, la forma D3 (colecalciferolo) era più efficace nell’aumentare i livelli di calcitriolo. I supplementi di colecalciferolo (D3) determinavano inotre una risposta più rapida rispetto a quanto era ottenibile con la forma D2. Gli autori hanno anche notato che a distanza di 12 settimane dall’interruzione della supplementazione, la forma 25(OH)D2 (ergocalciferolo) veniva degradata più rapidamente rispetto alla forma 25(OH)D3 (colecalciferolo),
Queste differenze vengono spiegate in termini di metabolismo della vitamina, con particolare riferimento ai passaggi enzimatici di idrossilazione che convertono il pro-ormone nella forma biologicamente attiva.
Le differenze strutturali, per quanto minime, potrebbero infatti influenzare il tasso di conversione del composto e l’affinità per il recettore. L’idrossilazione renale sembra infatti favorire la forma D3 (colecalciferolo), la quale resterebbe attiva per un tempo superiore e contribuirebbe dunque in modo più significativo alla concentrazione della vitamina nel siero. La forma D2, invece, subirebbe un’inattivazione anticipata, prima ancora di raggiungere le successive modifiche enzimatiche.
Fonte: Laura Tripkovic, Helen Lambert, Kathryn Hart et al.Comparison of vitamin D2 and vitamin D3 supplementation in raising serum 25-hydroxyvitamin D status: a systematic review and meta-analysis 2012 American Society for Nutrition
Alimentazione e carcinoma vescicale : quali pro, quali rischi ?
La patologia può essere favorita da un consumo eccessivo di carne processata, mentre le vitamine del gruppo B sembrano proteggere.
Alimentazione e cancro. Molti studi, alcune certezze e altrettante perplessità. Se è vero che determinati alimenti possono favorire e, addirittura, accelerare la crescita di alcune forme tumorali, poco si conosce se esistono prodotti in grado di proteggere dal cancro.
Nel caso del carcinoma vescicale la dieta potrebbe rivestire un ruolo nello sviluppo del tumore in quanto numerosi metaboliti potenzialmente cancerogeni transitano e sostano nel tratto urinario.
Secondo una recente review della letteratura pubblicata sulla rivista British Journal of Cancer, il consumo eccessivo di carne processata potrebbe favorire la patologia. In base al confronto di una vasta corte di pazienti e individui controllo gli autori hanno infatti individuato la carne processata come elemento della dieta più fortemente associato al rischio di sviluppo del tumore urologico.
Diversamente da precedenti osservzioni, il consumo di frutta e verdura non sembrava fornire una significativa protezione contro il tumore. Per quanto riguarda il consumo di micronutrienti, i ricercatori hanno rilevato un’associazione inversa tra la vitamina B12 e il rischio della patologia.
Fonte: J W Wu, A J Cross, D Baris et al. Dietary intake of meat, fruits, vegetables, and selective micronutrients and risk of bladder cancer in the New England region of the United States British Journal of Cancer (2012)
Alimentazione e cancro. Molti studi, alcune certezze e altrettante perplessità. Se è vero che determinati alimenti possono favorire e, addirittura, accelerare la crescita di alcune forme tumorali, poco si conosce se esistono prodotti in grado di proteggere dal cancro.
Nel caso del carcinoma vescicale la dieta potrebbe rivestire un ruolo nello sviluppo del tumore in quanto numerosi metaboliti potenzialmente cancerogeni transitano e sostano nel tratto urinario.
Secondo una recente review della letteratura pubblicata sulla rivista British Journal of Cancer, il consumo eccessivo di carne processata potrebbe favorire la patologia. In base al confronto di una vasta corte di pazienti e individui controllo gli autori hanno infatti individuato la carne processata come elemento della dieta più fortemente associato al rischio di sviluppo del tumore urologico.
Diversamente da precedenti osservzioni, il consumo di frutta e verdura non sembrava fornire una significativa protezione contro il tumore. Per quanto riguarda il consumo di micronutrienti, i ricercatori hanno rilevato un’associazione inversa tra la vitamina B12 e il rischio della patologia.
Fonte: J W Wu, A J Cross, D Baris et al. Dietary intake of meat, fruits, vegetables, and selective micronutrients and risk of bladder cancer in the New England region of the United States British Journal of Cancer (2012)
Meglio educati per perdere peso
Una sistematica educazione alimentare potrebbe essere la via giusta per ottenere una perdita di peso e mantenerla nel tempo.
Questo è quanto si è evidenziato in uno studio condotto in Polonia nel quale sono stati coinvolti 30 donne (età media 48 + / - 12,5 anni - range 31-72 anni), e 30 uomini (età media 51 + / - 13.2 anni - range 23-70 anni) obesi che avevano dichiarato l'intenzione di perdere peso.
Tramite un questionario appositamente studiato, all’incontro di arruolamento e dopo un anno, sono state indagate le frequenze di consumo di alcuni prodotti e sono stati misurati alcuni parametri ematochimici.
Tutti i partecipanti sono stati sottoposti a una dietoterapia basata su una sistematica educazione alimentare, nella quale si consigliava, in sintesi, una restrizione della dieta specie per gli alimenti ipercalorici.
Dopo un anno le donne avevano significativamente ridotto i consumi di: pasta, succhi di frutta e verdura, patate, formaggi stagionati, zucchero, carne, pancetta e lardo, burro e panna, a vantaggio del consumo di pane integrale, semola, riso, verdure e frutta, ricotta, olio di pesce e vegetale.
E lo stesso avveniva anche per gli uomini con dati meno significativi. La diminuzione del peso corporeo è stata del 2,8 +/- 7,1 kg nelle donne e 1.4 +/- 3,2 kg negli uomini.
La riduzione media della circonferenza vita è stata di 3,6 +/- 6,5 cm nelle donne e 3.6 +/- 4,8 cm negli uomini. Il colesterolo HDL era aumentato significativamente nelle donne e in modo non significativo negli uomini, mentre il colesterolo LDL e i livelli di trigliceridi sono diminuiti significativamente in entrambi i gruppi. Anche la pressione arteriosa subiva un decremento in entrambi i gruppi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22642074 Rocz Panstw Zakl Hig. 2012;63(1):83-90. [Effects of dietary habits modifications on selected metabolic parameters during weight loss in obese persons].
Questo è quanto si è evidenziato in uno studio condotto in Polonia nel quale sono stati coinvolti 30 donne (età media 48 + / - 12,5 anni - range 31-72 anni), e 30 uomini (età media 51 + / - 13.2 anni - range 23-70 anni) obesi che avevano dichiarato l'intenzione di perdere peso.
Tramite un questionario appositamente studiato, all’incontro di arruolamento e dopo un anno, sono state indagate le frequenze di consumo di alcuni prodotti e sono stati misurati alcuni parametri ematochimici.
Tutti i partecipanti sono stati sottoposti a una dietoterapia basata su una sistematica educazione alimentare, nella quale si consigliava, in sintesi, una restrizione della dieta specie per gli alimenti ipercalorici.
Dopo un anno le donne avevano significativamente ridotto i consumi di: pasta, succhi di frutta e verdura, patate, formaggi stagionati, zucchero, carne, pancetta e lardo, burro e panna, a vantaggio del consumo di pane integrale, semola, riso, verdure e frutta, ricotta, olio di pesce e vegetale.
E lo stesso avveniva anche per gli uomini con dati meno significativi. La diminuzione del peso corporeo è stata del 2,8 +/- 7,1 kg nelle donne e 1.4 +/- 3,2 kg negli uomini.
La riduzione media della circonferenza vita è stata di 3,6 +/- 6,5 cm nelle donne e 3.6 +/- 4,8 cm negli uomini. Il colesterolo HDL era aumentato significativamente nelle donne e in modo non significativo negli uomini, mentre il colesterolo LDL e i livelli di trigliceridi sono diminuiti significativamente in entrambi i gruppi. Anche la pressione arteriosa subiva un decremento in entrambi i gruppi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22642074 Rocz Panstw Zakl Hig. 2012;63(1):83-90. [Effects of dietary habits modifications on selected metabolic parameters during weight loss in obese persons].
Gravidanza e xantine
L'assunzione di caffeina e cacao al 70% nelle donne in gravidanza sembra avere un'azione stimolante sulla reattività fetale.
Ne sono convinti i ricercatori dell’Università Politecnica di Ancona (Marche) che hanno misurato, prima e dopo assunzione di caffè o di cioccolata (70% di cacao) il numero di picchi della contrazione uterina, il numero di accelerazioni piccole e grandi (10 e 15 battiti al minuto per 15 secondi), la durata degli episodi di variazione elevata e la variazione a breve termine della frequenza cardiaca fetale in un gruppo di donne in gravidanza.
Si è così evidenziato che tutti i parametri considerati erano significativamente superiori dopo l’assunzione di caffè. Dopo l’assunzione di cioccolata, il numero di accelerazioni di grandi dimensioni, la durata degli episodi di variazione alta e a breve termine della frequenza cardiaca fetale erano significativamente più alti, mentre nessun effetto è stato trovato sulle contrazioni uterine.
Queste evidenze sono probabilmente da imputare alle attività farmacologiche della caffeina sul muscolo cardiaco e della teobromina sulla muscolatura uterina. Le donne in gravidanza vanno dunque opportunamente istruite sul consumo di bevande che contengono le xantine.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22502981 J Matern Fetal Neonatal Med. 2012 May;25(5):528-30. The effects of maternal caffeine and chocolate intake on fetal heart rate.
Ne sono convinti i ricercatori dell’Università Politecnica di Ancona (Marche) che hanno misurato, prima e dopo assunzione di caffè o di cioccolata (70% di cacao) il numero di picchi della contrazione uterina, il numero di accelerazioni piccole e grandi (10 e 15 battiti al minuto per 15 secondi), la durata degli episodi di variazione elevata e la variazione a breve termine della frequenza cardiaca fetale in un gruppo di donne in gravidanza.
Si è così evidenziato che tutti i parametri considerati erano significativamente superiori dopo l’assunzione di caffè. Dopo l’assunzione di cioccolata, il numero di accelerazioni di grandi dimensioni, la durata degli episodi di variazione alta e a breve termine della frequenza cardiaca fetale erano significativamente più alti, mentre nessun effetto è stato trovato sulle contrazioni uterine.
Queste evidenze sono probabilmente da imputare alle attività farmacologiche della caffeina sul muscolo cardiaco e della teobromina sulla muscolatura uterina. Le donne in gravidanza vanno dunque opportunamente istruite sul consumo di bevande che contengono le xantine.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22502981 J Matern Fetal Neonatal Med. 2012 May;25(5):528-30. The effects of maternal caffeine and chocolate intake on fetal heart rate.
Nutrizione artificiale nell'insufficienza epatica, molti dubbi
Gli interventi di nutrizione artificiale non sembrano efficaci nei pazienti in fase terminale e potrebbero avere effetti avversi.
Il calo ponderale e l’indebolimento muscolare sono condizioni frequenti nei pazienti con insufficienza epatica in fase terminale. Di fronte al rischio di grave malnutrizione spesso viene fatto il ricorso alla nutrizione artificiale per via parenterale, enterale o mediante supplementi orali.
Tuttavia, persistono forti dubbi riguardo la reale efficacia di questi interventi e sul possibile di rischio di mortalità, anche in considerazione degli ingenti costi che questi trattamenti richiedono.
Un recente review ha investigato l’efficacia di questi interventi valutando gli effetti benefici e quelli avversi nelle diverse categorie di pazienti. La ricerca è stata condotta sui principali database di letteratura scientifica Cochrane Hepato-Biliary Group Controlled Trials Register, Cochrane Central Register of Controlled Trials (CENTRAL) (The Cochrane Library), MEDLINE, EMBASE e Science Citation Index Expanded. Gli autori hanno così recuperato un totale di 37 pubblicazioni, principalmente studi clinici paralleli e cross-over che riportavano dettagliate informazioni sul tipo di supporto nutrizionale impiegato, la formulazione alimentare, la durata del trattamento, l’esistenza di altri interventi istituiti e il tipo di trattamento destinato agli individui controllo.
I ricercatori hanno potuto osservare che la maggior parte delle analisi non riportavano differenze significative in termini di miglioramento clinico e della qualità di vita tra gli individui trattati e i controlli. Gli unici effetti benefici riguardavano il recupero del bilancio dell’azoto e una modesta riduzione delle concentrazioni di birilubina nei pazienti ittetrici sottoposti a nutrizione parenterale. L’intervento parenterale preveniva l’incidenza di asciti post-operatorie nei pazienti chirurgici e, in misura limitata, le infezioni post-operatorie (pneumonia). La nutrizione enterale permetteva anch’essa di migliorare il bilancio dell’azoto e nei pazienti chirurgici attenuava le complicazioni post-operatorie.
Infine, gli interventi nutrizionali orali promuovevano una serie di effetti benefici tra cui la riduzione dell’incidenza di asciti, di infezioni post-operatorie e promuovevano il recupero dall’encefalopatia epatica. Anche se non era possibile stabilire con certezza gli effetti dei supplementi orali, uno studio indicava un rischio di mortalità addirittura superiore nei pazienti che li ricevevano.
Gli autori hanno così concluso che non vi sarebbero sufficienti evidenze per giustificare il ricorso all’alimentazione artificiale nei pazienti con insufficienza epatica in fase terminale, tuttavia sono necessari ulteriori studi per accertare l’utilità di queste strategie in situazioni particolari.
Fonte: Koretz RL, Avenell A, Lipman TO. Nutritional support for liver disease. Cochrane Database Syst Rev. 2012
Il calo ponderale e l’indebolimento muscolare sono condizioni frequenti nei pazienti con insufficienza epatica in fase terminale. Di fronte al rischio di grave malnutrizione spesso viene fatto il ricorso alla nutrizione artificiale per via parenterale, enterale o mediante supplementi orali.
Tuttavia, persistono forti dubbi riguardo la reale efficacia di questi interventi e sul possibile di rischio di mortalità, anche in considerazione degli ingenti costi che questi trattamenti richiedono.
Un recente review ha investigato l’efficacia di questi interventi valutando gli effetti benefici e quelli avversi nelle diverse categorie di pazienti. La ricerca è stata condotta sui principali database di letteratura scientifica Cochrane Hepato-Biliary Group Controlled Trials Register, Cochrane Central Register of Controlled Trials (CENTRAL) (The Cochrane Library), MEDLINE, EMBASE e Science Citation Index Expanded. Gli autori hanno così recuperato un totale di 37 pubblicazioni, principalmente studi clinici paralleli e cross-over che riportavano dettagliate informazioni sul tipo di supporto nutrizionale impiegato, la formulazione alimentare, la durata del trattamento, l’esistenza di altri interventi istituiti e il tipo di trattamento destinato agli individui controllo.
I ricercatori hanno potuto osservare che la maggior parte delle analisi non riportavano differenze significative in termini di miglioramento clinico e della qualità di vita tra gli individui trattati e i controlli. Gli unici effetti benefici riguardavano il recupero del bilancio dell’azoto e una modesta riduzione delle concentrazioni di birilubina nei pazienti ittetrici sottoposti a nutrizione parenterale. L’intervento parenterale preveniva l’incidenza di asciti post-operatorie nei pazienti chirurgici e, in misura limitata, le infezioni post-operatorie (pneumonia). La nutrizione enterale permetteva anch’essa di migliorare il bilancio dell’azoto e nei pazienti chirurgici attenuava le complicazioni post-operatorie.
Infine, gli interventi nutrizionali orali promuovevano una serie di effetti benefici tra cui la riduzione dell’incidenza di asciti, di infezioni post-operatorie e promuovevano il recupero dall’encefalopatia epatica. Anche se non era possibile stabilire con certezza gli effetti dei supplementi orali, uno studio indicava un rischio di mortalità addirittura superiore nei pazienti che li ricevevano.
Gli autori hanno così concluso che non vi sarebbero sufficienti evidenze per giustificare il ricorso all’alimentazione artificiale nei pazienti con insufficienza epatica in fase terminale, tuttavia sono necessari ulteriori studi per accertare l’utilità di queste strategie in situazioni particolari.
Fonte: Koretz RL, Avenell A, Lipman TO. Nutritional support for liver disease. Cochrane Database Syst Rev. 2012
Grana padano, un'alleato per il cuore
Ricercatori italiani dimostrano le proprietà anti-ipertensive di un composto contenuto nel prodotto caseario.
Il consumo giornaliero di Grana Padano permette di ridurre significativamente la pressione sanguigna in soggetti debolmente ipertensivi. Lo conferma uno studio condotto da Giuseppe Crippa, medico dell’ospedale Guglielmo da Saliceto di Piacenza.
L’effetto è comparabile a quello esercitato dai comuni farmaci anti-ipertensivi. Tuttavia, sottolineano gli autori, se già si assumono farmaci non si avrebbe alcun effetto addizionale.
I risultati, presentati all’European Meeting on Hypertension 2012, sono importanti perchè, oltre a dimostrare un effetto equivalente a quello farmacologico, l’entità della riduzione supera quella ottenibile attraverso la restrizione del sodio alimentare. Per quanto ritenuto erroneamente, infatti, questo latticino presenta un contenuto in sodio e grassi inferiore ad altri comuni alimenti. 30 g di grana padano contengono infatti dai 128 a 189 mg di sodio e non più di 6 g di grassi.
Nello studio i ricercatori hanno reclutato 29 individui affetti da ipertensione debole sottoponendoli ad una dieta che prevedeva il consumo giornaliero di 30g di grana padano per due mesi, senza tuttavia modificare il normale pattern alimentare. La pressione sanguigna è stata quindi misurata prima e dopo l’intervento.
Gli autori hanno potuto osservare che, indipendentemente dal valore inziale, i soggetti destinati al programma alimentare presentavano una riduzione media di 7-8 mmHG della pressione sanguigna. Questo effetto non era invece registrabile in un gruppo di controllo.
Le proprietà di questo formaggio semisolido sono attribuibili all’elevata concentrazione di un particolare tripeptide che si produce naturalmente durante il processo di fermentazione ad opera degli enzimi proteinasi del batterio Lactobacillus helveticus.
Gli autori hanno fatti notare che il contenuto del tripeptide sarebbe più elevato quando la stagionatura del formaggio raggiunge i nove o dodici mesi. Altri latticini contengono, comunque, specifici tripeptidi con azione anti-ipertensiva, tra cui formaggi svedesi e olandesi, anche se la concentrazione è decisamente inferiore.
Fonte : European Society of Hypertension (ESH) 2012: 22nd European Meeting on Hypertension and Cardiovascular Protection
Il consumo giornaliero di Grana Padano permette di ridurre significativamente la pressione sanguigna in soggetti debolmente ipertensivi. Lo conferma uno studio condotto da Giuseppe Crippa, medico dell’ospedale Guglielmo da Saliceto di Piacenza.
L’effetto è comparabile a quello esercitato dai comuni farmaci anti-ipertensivi. Tuttavia, sottolineano gli autori, se già si assumono farmaci non si avrebbe alcun effetto addizionale.
I risultati, presentati all’European Meeting on Hypertension 2012, sono importanti perchè, oltre a dimostrare un effetto equivalente a quello farmacologico, l’entità della riduzione supera quella ottenibile attraverso la restrizione del sodio alimentare. Per quanto ritenuto erroneamente, infatti, questo latticino presenta un contenuto in sodio e grassi inferiore ad altri comuni alimenti. 30 g di grana padano contengono infatti dai 128 a 189 mg di sodio e non più di 6 g di grassi.
Nello studio i ricercatori hanno reclutato 29 individui affetti da ipertensione debole sottoponendoli ad una dieta che prevedeva il consumo giornaliero di 30g di grana padano per due mesi, senza tuttavia modificare il normale pattern alimentare. La pressione sanguigna è stata quindi misurata prima e dopo l’intervento.
Gli autori hanno potuto osservare che, indipendentemente dal valore inziale, i soggetti destinati al programma alimentare presentavano una riduzione media di 7-8 mmHG della pressione sanguigna. Questo effetto non era invece registrabile in un gruppo di controllo.
Le proprietà di questo formaggio semisolido sono attribuibili all’elevata concentrazione di un particolare tripeptide che si produce naturalmente durante il processo di fermentazione ad opera degli enzimi proteinasi del batterio Lactobacillus helveticus.
Gli autori hanno fatti notare che il contenuto del tripeptide sarebbe più elevato quando la stagionatura del formaggio raggiunge i nove o dodici mesi. Altri latticini contengono, comunque, specifici tripeptidi con azione anti-ipertensiva, tra cui formaggi svedesi e olandesi, anche se la concentrazione è decisamente inferiore.
Fonte : European Society of Hypertension (ESH) 2012: 22nd European Meeting on Hypertension and Cardiovascular Protection
Interventi in gravidanza giovano alla madre e al bambino
Dieta e attività fisica riducono le complicanze della gestazione a carico della madre e del nascituro
La cura dell’alimentazione e la pratica dell’attività fisica sono strategie indispensabili per prevenire alcune comuni condizioni che interessano la madre e il figlio.
Il sovrappeso materno rappresenta infatti un pericolo in quanto può favorire l’obesità infantile e la sua persistenza durante l’età adulta.
Il periodo prenatale costituisce dunque un momento estremamente favorevole per intervenire, soprattutto poichè le madri sono particolarmente predisposte ad adottare comportamenti che possono beneficiare loro stesse e la salute del nascituro.
La conferma giunge da una vasta review condotta su oltre 40 pubblicazioni scientifiche che ha analizzato i dati relativi a quasi 7300 donne. I ricercatori della Queen Mary University hanno potuto dimostrare che la dieta, l’esercizio fisico e la combinazione delle due strategie possono prevenire l’aumento di peso gestazionale e alcune comune complicanze legate al sovrappeso materno.
Dallo studio è emerso che tutti e tre i tipi di intervento determinavano, in media, una riduzione di 1,42 kg del peso in gravidanza. Inoltre, gli interventi comportamentali, e specialmente quelli alimentari, riducevano l’incidenza di diabete e dell'ipertensione gestazionale dei casi di parto pretermine e morte intrauterina.
Gli interventi alimentari più efficaci erano quelli a basso indice glicemico che comprendevano prodotti integrali non processati, frutta, verdura, legumi, e le diete a base di un 30% massimo di grassi, 15-20% dei proteine e 50-55% di carboidrati.
Tuttavia, nessuno degli interventi influenzava in modo significativo l’incidenza di macrosomia, anche se, in generale l’attività fisica correlava con un peso più salutare alla nascita.
Fonte: S Thangaratinam, E Rogoziska, K Jolly et al. Effects of interventions in pregnancy on maternal weight and obstetric outcomes: meta-analysis of randomised evidence BMJ 2012
La cura dell’alimentazione e la pratica dell’attività fisica sono strategie indispensabili per prevenire alcune comuni condizioni che interessano la madre e il figlio.
Il sovrappeso materno rappresenta infatti un pericolo in quanto può favorire l’obesità infantile e la sua persistenza durante l’età adulta.
Il periodo prenatale costituisce dunque un momento estremamente favorevole per intervenire, soprattutto poichè le madri sono particolarmente predisposte ad adottare comportamenti che possono beneficiare loro stesse e la salute del nascituro.
La conferma giunge da una vasta review condotta su oltre 40 pubblicazioni scientifiche che ha analizzato i dati relativi a quasi 7300 donne. I ricercatori della Queen Mary University hanno potuto dimostrare che la dieta, l’esercizio fisico e la combinazione delle due strategie possono prevenire l’aumento di peso gestazionale e alcune comune complicanze legate al sovrappeso materno.
Dallo studio è emerso che tutti e tre i tipi di intervento determinavano, in media, una riduzione di 1,42 kg del peso in gravidanza. Inoltre, gli interventi comportamentali, e specialmente quelli alimentari, riducevano l’incidenza di diabete e dell'ipertensione gestazionale dei casi di parto pretermine e morte intrauterina.
Gli interventi alimentari più efficaci erano quelli a basso indice glicemico che comprendevano prodotti integrali non processati, frutta, verdura, legumi, e le diete a base di un 30% massimo di grassi, 15-20% dei proteine e 50-55% di carboidrati.
Tuttavia, nessuno degli interventi influenzava in modo significativo l’incidenza di macrosomia, anche se, in generale l’attività fisica correlava con un peso più salutare alla nascita.
Fonte: S Thangaratinam, E Rogoziska, K Jolly et al. Effects of interventions in pregnancy on maternal weight and obstetric outcomes: meta-analysis of randomised evidence BMJ 2012
Grassi saturi e rischio cardiovascolare
Il consumo di grassi saturi (SF) appare correlato a un aumento dei livelli plasmatici del colesterolo LDL e del rischio di sviluppo di malattia cardiovascolare (CVD).
Questo legame, però, è ancora poco chiarito, come si rileva in una revisione centrata sui prodotti lattiero-caseari. Recenti scoperte hanno indicato che il legame tra CVD e SF può essere meno semplice di quanto si pensasse inizialmente. Ciò può essere dovuto al fatto che alcune fonti alimentari di SF contengono una miscela di acidi grassi saturi e insaturi, ciascuno dei quali può influenzare il metabolismo delle lipoproteine in maniera differente.
I risultati pubblicati indicano, in sostanza, che indipendentemente dai livelli di grasso del latte, la maggior parte degli studi osservazionali non dimostrano un'associazione tra l'assunzione di prodotti caseari e l’aumento del rischio di malattia cardiovascolare, coronarica e ictus.
I risultati di altri studi d’intervento a breve termine, sui biomarcatori cardiovascolari hanno indicato che una dieta a più elevato tenore in SF da latte intero e burro aumenterebbe il colesterolo LDL quando si sostituiscono i grassi saturi con i carboidrati o con gli acidi grassi insaturi, tuttavia, anche la frazione HDL può aumentare senza che il colesterolo totale ne risenta.
Tra l’altro anche il consumo di formaggi appare diminuire il colesterolo LDL al confronto con il burro con un contenuto uguale grassi del latte. Insomma, la revisione mette in luce alcune lacune significative della ricerca, indicando la necessità di studi più approfonditi e nel lungo termine.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22585901 Adv Nutr. 2012 May 1;3(3):266-85. doi: 10.3945/an.112.002030. Influence of dairy product and milk fat consumption on cardiovascular disease risk: a review of the evidence.
Questo legame, però, è ancora poco chiarito, come si rileva in una revisione centrata sui prodotti lattiero-caseari. Recenti scoperte hanno indicato che il legame tra CVD e SF può essere meno semplice di quanto si pensasse inizialmente. Ciò può essere dovuto al fatto che alcune fonti alimentari di SF contengono una miscela di acidi grassi saturi e insaturi, ciascuno dei quali può influenzare il metabolismo delle lipoproteine in maniera differente.
I risultati pubblicati indicano, in sostanza, che indipendentemente dai livelli di grasso del latte, la maggior parte degli studi osservazionali non dimostrano un'associazione tra l'assunzione di prodotti caseari e l’aumento del rischio di malattia cardiovascolare, coronarica e ictus.
I risultati di altri studi d’intervento a breve termine, sui biomarcatori cardiovascolari hanno indicato che una dieta a più elevato tenore in SF da latte intero e burro aumenterebbe il colesterolo LDL quando si sostituiscono i grassi saturi con i carboidrati o con gli acidi grassi insaturi, tuttavia, anche la frazione HDL può aumentare senza che il colesterolo totale ne risenta.
Tra l’altro anche il consumo di formaggi appare diminuire il colesterolo LDL al confronto con il burro con un contenuto uguale grassi del latte. Insomma, la revisione mette in luce alcune lacune significative della ricerca, indicando la necessità di studi più approfonditi e nel lungo termine.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22585901 Adv Nutr. 2012 May 1;3(3):266-85. doi: 10.3945/an.112.002030. Influence of dairy product and milk fat consumption on cardiovascular disease risk: a review of the evidence.
Visti e mangiati
Le scelte alimentari dei ragazzi con diabete di tipo 1 appaiono associate alla disponibilità di vari cibi, piuttosto che alla preferenza.
Questo è quanto, nella sostanza, è stato dimostrato da uno studio condotto in America che ha coinvolto un gruppo di ragazzi diabetici di tipo 1 (n = 252, età 13,2 ± 2.8y, durata del diabete 6,3 ± 3.4 anni) che sono stati invitati a riportare le loro preferenze per 61 prodotti alimentari raggruppati in 6 categorie: frutta, verdura, cereali integrali, cereali raffinati e grassi/dolci.
Si procedeva calcolando i consumi abituali tramite un FFQ (recall 3 giorni) e confrontando le scelte dei ragazzi con le disponibilità in casa di vari alimenti dichiarata dai genitori. Si è così potuto dimostrare che l’assunzione di frutta e cereali integrali sono risultati positivamente associati alla preferenza che corrispondeva anche alla disponibilità. Invece per il grano intero e i cereali raffinati l’assunzione era inversamente proporzionale alla disponibilità.
Verdura, cereali raffinati e grassi/dolci di aspirazione sono stati estranei a preferenza e disponibilità. Inoltre, la verdura, i cereali raffinati e cibi grassi/dolciumi erano sostanzialmente estranei a preferenza e disponibilità. Le misure complessive della qualità della dieta erano positivamente correlate alla preferenza per la frutta e alla disponibilità per il grano intero, ma inversamente correlate alla disponibilità di cereali raffinati.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22595289 Appetite. 2012 May 14. [Epub ahead of print] Associations of food preferences and household food availability with dietaryintake and quality in youth with type 1 diabetes.
Questo è quanto, nella sostanza, è stato dimostrato da uno studio condotto in America che ha coinvolto un gruppo di ragazzi diabetici di tipo 1 (n = 252, età 13,2 ± 2.8y, durata del diabete 6,3 ± 3.4 anni) che sono stati invitati a riportare le loro preferenze per 61 prodotti alimentari raggruppati in 6 categorie: frutta, verdura, cereali integrali, cereali raffinati e grassi/dolci.
Si procedeva calcolando i consumi abituali tramite un FFQ (recall 3 giorni) e confrontando le scelte dei ragazzi con le disponibilità in casa di vari alimenti dichiarata dai genitori. Si è così potuto dimostrare che l’assunzione di frutta e cereali integrali sono risultati positivamente associati alla preferenza che corrispondeva anche alla disponibilità. Invece per il grano intero e i cereali raffinati l’assunzione era inversamente proporzionale alla disponibilità.
Verdura, cereali raffinati e grassi/dolci di aspirazione sono stati estranei a preferenza e disponibilità. Inoltre, la verdura, i cereali raffinati e cibi grassi/dolciumi erano sostanzialmente estranei a preferenza e disponibilità. Le misure complessive della qualità della dieta erano positivamente correlate alla preferenza per la frutta e alla disponibilità per il grano intero, ma inversamente correlate alla disponibilità di cereali raffinati.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22595289 Appetite. 2012 May 14. [Epub ahead of print] Associations of food preferences and household food availability with dietaryintake and quality in youth with type 1 diabetes.
Prima colazione per il cuore
E’ stata dimostrata un’associazione positiva tra consumo abituale della prima colazione e riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare.
Nell’ambito dello studio HELENA (Healthy Lifestyle in Europe by Nutrition in Adolescence) finanziato dall’Unione Europea condotto su adolescenti europei di età compresa tra 12,50 -17,49 anni, provenienti da dieci città (n 2929, n 925, 53% femmine) è stato indagato il consumo regolare della prima colazione.
Dalle risposte alla domanda “Mi capita spesso di saltare la prima colazione” i giovani arruolati sono stati suddivisi in 3 gruppi: consumatori, consumatori occasionali e skipper. Venivano valutati anche: pressione arteriosa, peso, altezza, circonferenza vita, plicometria, colesterolo totale (TC), colesterolo HDL (HDL-C), colesterolo LDL (LDL-C), trigliceridi, insulinemia, glicemia, e calcolati BMI e indice d’insulino-resistenza (HOMA-IR). Si sono così in sostanza evidenziate differenze significative tra i ragazzi consumatori regolari e gli skipper.
In particolare, gli adolescenti che consumano regolarmente la prima colazione hanno una massa grassa inferiore rispetto agli skipper e ai consumatori occasionali. Inoltre al consumo regolare della prima colazione era associata una maggiore fitness cardiorespiratoria e un profilo del rischio cardiovascolare più sano, specie nei maschi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22494882 Public Health Nutr. 2012 Apr 12:1-10. [Epub ahead of print]
Breakfast consumption and CVD risk factors in European adolescents: the HELENA (Healthy Lifestyle in Europe by Nutrition in Adolescence) Study.
Nell’ambito dello studio HELENA (Healthy Lifestyle in Europe by Nutrition in Adolescence) finanziato dall’Unione Europea condotto su adolescenti europei di età compresa tra 12,50 -17,49 anni, provenienti da dieci città (n 2929, n 925, 53% femmine) è stato indagato il consumo regolare della prima colazione.
Dalle risposte alla domanda “Mi capita spesso di saltare la prima colazione” i giovani arruolati sono stati suddivisi in 3 gruppi: consumatori, consumatori occasionali e skipper. Venivano valutati anche: pressione arteriosa, peso, altezza, circonferenza vita, plicometria, colesterolo totale (TC), colesterolo HDL (HDL-C), colesterolo LDL (LDL-C), trigliceridi, insulinemia, glicemia, e calcolati BMI e indice d’insulino-resistenza (HOMA-IR). Si sono così in sostanza evidenziate differenze significative tra i ragazzi consumatori regolari e gli skipper.
In particolare, gli adolescenti che consumano regolarmente la prima colazione hanno una massa grassa inferiore rispetto agli skipper e ai consumatori occasionali. Inoltre al consumo regolare della prima colazione era associata una maggiore fitness cardiorespiratoria e un profilo del rischio cardiovascolare più sano, specie nei maschi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22494882 Public Health Nutr. 2012 Apr 12:1-10. [Epub ahead of print]
Breakfast consumption and CVD risk factors in European adolescents: the HELENA (Healthy Lifestyle in Europe by Nutrition in Adolescence) Study.
Da madri obese figli complicati
L’obesità abbinata a disordini metabolici, in gravidanza, sembra favorire un ritardo nello sviluppo neurologico (DD) e disordini dello spettro autistico (ASD) nella prole.
In proposito è stato condotto uno studio caso-controllo su un gruppo di bambini di età compresa tra 2 e 5 anni (517 ASD, 172 DD, e 315 controlli) tutti nati in California nel periodo tra gennaio 2003 e giugno 2010 inseriti nello studio CHARGE(ChildhoodAutism Risks from Genetics and the Environment).
Si procedeva esaminando i dati sulle condizioni metaboliche delle madri riportate in documentazioni mediche e sulle risposte delle stesse alle domande incluse in un’intervista strutturata. Le diagnosi dei disordini dei bambini sono state confermate mediante valutazioni standardizzate. Si è così nella sostanza evidenziato che tutti i disordini metabolici come diabete, ipertensione e obesità, osservati durante la gravidanza, erano associati con una maggiore probabilità di riscontrare ASD e DD nei bambini, rispetto a ciò che si verificava nel gruppo dei bambini di controllo.
Gli autori ritengono, dunque, che una condizione di obesità associata a disordini metabolici della donna riscontrata durante la gravidanza, sia fortemente associata a un ritardo dello sviluppo neurologico della prole. E data la tendenza all’aumento dell’obesità, questa evidenza potrebbe avere implicazioni gravi nei problemi di salute pubblica.
Fonte:
http://www.medscape.com/viewarticle/762002
Pediatrics. 2012 Apr 9. [Epub ahead of print]
Maternal Metabolic Conditions and Risk for Autism and Other NeurodevelopmentalDisorders.
In proposito è stato condotto uno studio caso-controllo su un gruppo di bambini di età compresa tra 2 e 5 anni (517 ASD, 172 DD, e 315 controlli) tutti nati in California nel periodo tra gennaio 2003 e giugno 2010 inseriti nello studio CHARGE(ChildhoodAutism Risks from Genetics and the Environment).
Si procedeva esaminando i dati sulle condizioni metaboliche delle madri riportate in documentazioni mediche e sulle risposte delle stesse alle domande incluse in un’intervista strutturata. Le diagnosi dei disordini dei bambini sono state confermate mediante valutazioni standardizzate. Si è così nella sostanza evidenziato che tutti i disordini metabolici come diabete, ipertensione e obesità, osservati durante la gravidanza, erano associati con una maggiore probabilità di riscontrare ASD e DD nei bambini, rispetto a ciò che si verificava nel gruppo dei bambini di controllo.
Gli autori ritengono, dunque, che una condizione di obesità associata a disordini metabolici della donna riscontrata durante la gravidanza, sia fortemente associata a un ritardo dello sviluppo neurologico della prole. E data la tendenza all’aumento dell’obesità, questa evidenza potrebbe avere implicazioni gravi nei problemi di salute pubblica.
Fonte:
http://www.medscape.com/viewarticle/762002
Pediatrics. 2012 Apr 9. [Epub ahead of print]
Maternal Metabolic Conditions and Risk for Autism and Other NeurodevelopmentalDisorders.
Genitori inconsapevoli
I genitori dei piccoli, che in età prescolare sono sovrappeso o obesi, appaiono inconsapevoli degli effetti deleteri della sedentarietà sui propri figli.
Questo è quanto risulta da un’indagine che ha coinvolto i genitori di 150 bambini da 2 a 5 anni ponendo a confronto i genitori di bambini normopeso con quelli di bambini sovrappeso o obesi.
Dei 150 genitori partecipanti, pochi (7,4%) mostravano di percepire l’inattività fisica dei loro piccoli come un fattore dominate sul controllo del peso rispetto ad altri rischi più conosciuti. Il 34% dei genitori dichiarava l’incapacità di controllare le scelte alimentari dei piccoli come il maggiore ostacolo nel raggiungimento di un peso percepito come sano.
Dunque gli autori concludono allertando gli operatori sanitari sulla necessità di efficaci e innovativi interventi correttivi e informativi sui genitori riguardo l’importanza dell’aumento dell’attività fisica.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22496175
Clin Pediatr (Phila). 2012 Apr 11. [Epub ahead of print] Early-Childhood Obesity: How Do Low-Income Parents of Preschoolers Rank Known Risk Factors?
Questo è quanto risulta da un’indagine che ha coinvolto i genitori di 150 bambini da 2 a 5 anni ponendo a confronto i genitori di bambini normopeso con quelli di bambini sovrappeso o obesi.
Dei 150 genitori partecipanti, pochi (7,4%) mostravano di percepire l’inattività fisica dei loro piccoli come un fattore dominate sul controllo del peso rispetto ad altri rischi più conosciuti. Il 34% dei genitori dichiarava l’incapacità di controllare le scelte alimentari dei piccoli come il maggiore ostacolo nel raggiungimento di un peso percepito come sano.
Dunque gli autori concludono allertando gli operatori sanitari sulla necessità di efficaci e innovativi interventi correttivi e informativi sui genitori riguardo l’importanza dell’aumento dell’attività fisica.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22496175
Clin Pediatr (Phila). 2012 Apr 11. [Epub ahead of print] Early-Childhood Obesity: How Do Low-Income Parents of Preschoolers Rank Known Risk Factors?
Dieta e rischio diabete 2
Un intake superiore di carboidrati al posto di proteine, o grassi sembra ridurre il rischio di diabete 2, indipendentemente dall’indice glicemico dei carboidrati consumati.
In proposito è stato condotto uno studio in Finlandia che ha osservato una coorte di oltre 25.900 soggetti di sesso maschile tutti fumatori. Analizzando i dati provenienti dal registro nazionale in 12 anni di follow-up sono stati identificati 1098 casi di diabete. La dieta veniva valutata mediante un FFQ già validato.
Si è così in sostanza dimostrato che il rischio di diabete era inferiore quando i grassi e le proteine venivano sostituiti con una quota isoenergetica di carboidrati. Inoltre, a sorpresa, si è dimostrato che la sostituzione delle proteine da carni e latte con carboidrati a basso, medio o elevato indice glicemico, era correlata al rischio diabete con associazioni inverse del tutto simili.
Dunque gli autori ritengono che una sostituzione dei grassi, specie per i grassi trans, e delle proteine della dieta, possa avere un effetto benefico nei confronti del rischio d’insorgenza del diabete 2, tuttavia l’indice glicemico dei carboidrati sembra non influire su questo potenziale effetto preventivo.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22378225
Eur J Clin Nutr. 2012 Feb 29. doi: 10.1038/ejcn.2012.24. [Epub ahead of print]
Carbohydrate substitution for fat or protein and risk of type 2 diabetes in male smokers.
In proposito è stato condotto uno studio in Finlandia che ha osservato una coorte di oltre 25.900 soggetti di sesso maschile tutti fumatori. Analizzando i dati provenienti dal registro nazionale in 12 anni di follow-up sono stati identificati 1098 casi di diabete. La dieta veniva valutata mediante un FFQ già validato.
Si è così in sostanza dimostrato che il rischio di diabete era inferiore quando i grassi e le proteine venivano sostituiti con una quota isoenergetica di carboidrati. Inoltre, a sorpresa, si è dimostrato che la sostituzione delle proteine da carni e latte con carboidrati a basso, medio o elevato indice glicemico, era correlata al rischio diabete con associazioni inverse del tutto simili.
Dunque gli autori ritengono che una sostituzione dei grassi, specie per i grassi trans, e delle proteine della dieta, possa avere un effetto benefico nei confronti del rischio d’insorgenza del diabete 2, tuttavia l’indice glicemico dei carboidrati sembra non influire su questo potenziale effetto preventivo.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22378225
Eur J Clin Nutr. 2012 Feb 29. doi: 10.1038/ejcn.2012.24. [Epub ahead of print]
Carbohydrate substitution for fat or protein and risk of type 2 diabetes in male smokers.
I latticini vanno rivalutati
I prodotti lattiero-caseari, nelle versioni magre, possono essere introdotti anche nelle diete restrittive, senza alterare i marcatori di rischio cardiometabolico.
Questo è quanto viene confermato da uno studio che ha coinvolto 61 adulti sovrappeso o obesi che sono stati randomizzati, in un primo tempo, per ricevere una dieta ricca di latticini magri (HD - 4 porzioni di latticini magri al giorno) o una dieta di controllo a basso contenuto di latticini (LD - al massimo 1 porzione al giorno) per 6 mesi.
Successivamente venivano incrociati i 2 gruppi ciascuno dei quali riceveva la dieta alternativa per altri 6 mesi. A tutti i partecipanti sono stati valutati: la composizione corporea, il metabolismo basale, il quadro lipidico, la pressione arteriosa e la compliance arteriosa, al termine di ogni fase di dieta.
Si è così evidenziato un lieve aumento di peso nella fase di dieta con elevato apporto di latticini, poiché l’apporto energetico totale era superiore di circa 268 Kcal/die, tuttavia, non vi erano differenze significative tra HD e LD nelle misure assolute di circonferenza vita, peso corporeo, massa grassa o qualsiasi altro parametro cardiometabolico.
Queste evidenze rivalutano l’opzione dei latticini anche nelle diete restrittive, purché assunti nelle versioni delipidate e in dosi adeguate, anche nell’ottica della prevenzione dell’osteoporosi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22433747
Nutr Metab (Lond). 2012 Mar 20;9(1):19. [Epub ahead of print] Dairy consumption and cardiometabolic health: outcomes of a 12-month crossover trial.
Questo è quanto viene confermato da uno studio che ha coinvolto 61 adulti sovrappeso o obesi che sono stati randomizzati, in un primo tempo, per ricevere una dieta ricca di latticini magri (HD - 4 porzioni di latticini magri al giorno) o una dieta di controllo a basso contenuto di latticini (LD - al massimo 1 porzione al giorno) per 6 mesi.
Successivamente venivano incrociati i 2 gruppi ciascuno dei quali riceveva la dieta alternativa per altri 6 mesi. A tutti i partecipanti sono stati valutati: la composizione corporea, il metabolismo basale, il quadro lipidico, la pressione arteriosa e la compliance arteriosa, al termine di ogni fase di dieta.
Si è così evidenziato un lieve aumento di peso nella fase di dieta con elevato apporto di latticini, poiché l’apporto energetico totale era superiore di circa 268 Kcal/die, tuttavia, non vi erano differenze significative tra HD e LD nelle misure assolute di circonferenza vita, peso corporeo, massa grassa o qualsiasi altro parametro cardiometabolico.
Queste evidenze rivalutano l’opzione dei latticini anche nelle diete restrittive, purché assunti nelle versioni delipidate e in dosi adeguate, anche nell’ottica della prevenzione dell’osteoporosi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22433747
Nutr Metab (Lond). 2012 Mar 20;9(1):19. [Epub ahead of print] Dairy consumption and cardiometabolic health: outcomes of a 12-month crossover trial.
Alimentazione mediterranea contro il declino cognitivo
L’alimentazione mediterranea protegge dai danni ossidativi e può prevenire il declino cognitivo negli anziani.
Olio di oliva, noci e vino possono ritardare l’insorgenza anticipata dei sintomi tipici della malattia di Alzheimer.
I risultati provengono dallo studio spagnolo PREDIMED, una vasta indagine epidemiologica sviluppata per analizzare il ruolo dell’alimentazione mediterranea nella prevenzione delle patologie cardiovascolari.
Numerosi composti e nutrienti contenuti nell’alimentazione mediterranea esercitano effetti protettivi contro lo sviluppo di patologie cardiovascolari, cancro e sono associati ad una maggiore longevità. Inoltre, alcuni nutrienti possono contrastare i meccanismi infiammatori e ossidativi alla base della patogenesi delle malattie neurodegenerative tipiche all’invecchiamento, tra cui la demenza senile e la malattia di Alzheimer.
La dieta rappresenta una preziosa fonte di sostanze antiossidanti ed anti-infiammatorie, in grado di proteggere dall’insorgenza dei sintomi tipici dell’invecchiamento cerebrale.
L’olio d’oliva, ad esempio, possiede importanti proprietà antiossidanti. Questo ”elemento portante” dell’alimentazione mediterranea contiene infatti abbondanti acidi grassi polinsaturi - principalmente acido oleico - e, a seconda della sua lavorazione, altri micronutrienti come fitosteroli, vitamina E e composti fenolici.
Le noci sono invece gli alimenti a più elevato contenuto di acido alfa-linoleico, un composto dotato di proprietà antiossidanti e potenzialmente attivo sui lipidi plasmatici, in grado quindi di prevenire il danno vascolare e l’infiammazione.
Il vino, infine, è ricco in flavonoidi, una classe di polifenoli dotati di proprietà antiossidanti che potrebbero favorire la performance cognitiva.
Nello studio è stata condotta una valutazione neuro-psicologica delle capacità intellettive di soggetti ad elevato rischio cardiovascolare di età compresa tra 50 ed 80 anni, valutandone la relazione con le abitudini alimentari.
I ricercatori hanno inoltre misurato il livello di polifenoli contenuti nelle urine.
Dall’analisi sono emerse alcune associazioni specifiche tra i nutrienti e le capacità intellettive: il consumo di olio d’oliva e noci correlava con la memoria verbale a breve termine mentre l’assunzione regolare di moderate quantità di vino era associato ad una migliore lucidità mentale, come dimostrato dai punteggi del test Mini-Mental State Examination.
Anche la concentrazione di polifenoli nelle urine correlava con il livello di memoria verbale.
Il consumo di questi alimenti e una moderata assunzione di vino possono essere quindi raccomandati per prevenire il lento declino intellettivo nelle persone anziane, specialmente nei soggetti ad elevato rischio cardiovascolare.
Fonte: Valls-Pedret C, Lamuela-Raventós RM, Medina-Remón A et al. Polyphenol-Rich Foods in the Mediterranean Diet are Associated with Better Cognitive Function in Elderly Subjects at High Cardiovascular Risk. J Alzheimers Dis. 2012 Feb 20.
Olio di oliva, noci e vino possono ritardare l’insorgenza anticipata dei sintomi tipici della malattia di Alzheimer.
I risultati provengono dallo studio spagnolo PREDIMED, una vasta indagine epidemiologica sviluppata per analizzare il ruolo dell’alimentazione mediterranea nella prevenzione delle patologie cardiovascolari.
Numerosi composti e nutrienti contenuti nell’alimentazione mediterranea esercitano effetti protettivi contro lo sviluppo di patologie cardiovascolari, cancro e sono associati ad una maggiore longevità. Inoltre, alcuni nutrienti possono contrastare i meccanismi infiammatori e ossidativi alla base della patogenesi delle malattie neurodegenerative tipiche all’invecchiamento, tra cui la demenza senile e la malattia di Alzheimer.
La dieta rappresenta una preziosa fonte di sostanze antiossidanti ed anti-infiammatorie, in grado di proteggere dall’insorgenza dei sintomi tipici dell’invecchiamento cerebrale.
L’olio d’oliva, ad esempio, possiede importanti proprietà antiossidanti. Questo ”elemento portante” dell’alimentazione mediterranea contiene infatti abbondanti acidi grassi polinsaturi - principalmente acido oleico - e, a seconda della sua lavorazione, altri micronutrienti come fitosteroli, vitamina E e composti fenolici.
Le noci sono invece gli alimenti a più elevato contenuto di acido alfa-linoleico, un composto dotato di proprietà antiossidanti e potenzialmente attivo sui lipidi plasmatici, in grado quindi di prevenire il danno vascolare e l’infiammazione.
Il vino, infine, è ricco in flavonoidi, una classe di polifenoli dotati di proprietà antiossidanti che potrebbero favorire la performance cognitiva.
Nello studio è stata condotta una valutazione neuro-psicologica delle capacità intellettive di soggetti ad elevato rischio cardiovascolare di età compresa tra 50 ed 80 anni, valutandone la relazione con le abitudini alimentari.
I ricercatori hanno inoltre misurato il livello di polifenoli contenuti nelle urine.
Dall’analisi sono emerse alcune associazioni specifiche tra i nutrienti e le capacità intellettive: il consumo di olio d’oliva e noci correlava con la memoria verbale a breve termine mentre l’assunzione regolare di moderate quantità di vino era associato ad una migliore lucidità mentale, come dimostrato dai punteggi del test Mini-Mental State Examination.
Anche la concentrazione di polifenoli nelle urine correlava con il livello di memoria verbale.
Il consumo di questi alimenti e una moderata assunzione di vino possono essere quindi raccomandati per prevenire il lento declino intellettivo nelle persone anziane, specialmente nei soggetti ad elevato rischio cardiovascolare.
Fonte: Valls-Pedret C, Lamuela-Raventós RM, Medina-Remón A et al. Polyphenol-Rich Foods in the Mediterranean Diet are Associated with Better Cognitive Function in Elderly Subjects at High Cardiovascular Risk. J Alzheimers Dis. 2012 Feb 20.
Micronutrienti e salute mentale
Il deficit nutrizionale cronico di zinco, magnesio e folati potrebbe determinare l'insorgenza di sintomi depressivi.
Sempre più numerose evidenze sottolineano l'importanza della corretta alimentazione per il mantenimento della salute mentale.
Il cervello è un organo ad elevato consumo energetico e la carenza calorica prolungata può provocare alterazioni biochimiche che inficiano il corretto funzionamento dei circuiti nervosi.
L’apporto di carboidrati, proteine e grassi è infatti indispensabile per la produzione continua di neurotrasmettitori, i mediatori chimici rilasciati durante la trasmissione degli impulsi nervosi che sostengono le attività cerebrali come il sonno, il pensiero e l’elaborazione delle emozioni.
La presenza di sintomi depressivi è spesso osservata negli individui cronicamente in deficit calorico. I carboidrati e gli amminoacidi essenziali sono infatti necessari per la sintesi del principale neurotrasmettitore con effetto sedativo, la serotonina.
La carenza di particolari vitamine e minerali sembra anch’essa implicata nell’insorgenza di alcuni disturbi delle facoltà intellettive, tra cui la perdita di memoria, l’instabilità emotiva e l’irritabilità.
Le vitamine introdotte con la dieta (tiamina, folati, niacina, vitamina B6, E e A) sono infatti richieste sia per la produzione di neurotrasmettitori che per il mantenimento dell’integrità strutturale della membrana neuronale.
I folati sono importanti cofattori enzimatici coinvolti nel metabolismo degli amminoacidi, in particolare della metionina. La deficienza cronica di folato può infatti, oltre a causare l’accumulo del metabolita omocisteina, dannoso per il sistema cardiovascolare, determinare l’insorgenza di sintomi psicologici tipici della depressione, probabilmente attraverso una riduzione dei livelli di serotonina.
Le carenze di ferro, magnesio, manganese, rame, zinco e selenio possono invece provocare difetti nell’ossigenazione cerebrale e dell'eccitabilità nervosa, causando una serie di disturbi mentali.
Il magnesio, le cui fonti principali sono frutta e verdura, è infatti necessario per la corretta trasmissione degli impulsi nervosi e la sua deficienza può determinare irritabilità, instabilità mentale e difficoltà di concentrazione.
Lo zinco, principalmente contenuto nelle carni rosse e nei latticini, è invece richiesto per l’integrità della membrana neuronale e la sua carenza può tradursi in disturbi neurologici che si manifestano sia a livello sensoriale che nella facilità di affaticamento e agitazione.
Di fronte a queste carenze nutrizionali l’organismo può arrestare alcune funzioni fisiologiche non essenziali, influenzando indirettamente l’attività cerebrale.
Nel presente studio, i ricercatori del dipartimento di psichiatria della Deakin University, Australia, hanno analizzato un ampio campione di donne, ricercando una possibile relazione tra l’apporto giornaliero di alcuni micronutrienti e l’incidenza di disordini depressivi e ansia.
In particolare, gli autori hanno esaminato l’apporto giornaliero di magnesio, folati e zinco, attraverso questionari alimentari auto-somministrati, parallelamente alla valutazione dello stato di salute mentale delle partecipanti, quest’ultimo esplorato mediante un questionario standardizzato per riconoscere la presenza di disturbi psicologici (General Health Questionnaire-12).
Dopo la correzione dei dati per le calorie giornaliere, i risultati hanno dimostrato che per ogni aumento della deviazione standard relativa all’apporto dei tre micronutrienti la probabilità di sviluppare i sintomi tipici della depressione cronica si riduceva in modo significativo.
Questa associazione veniva confermata dalla relazione di tipo inverso tra i livelli dei micronutrienti e i punteggi ottenuti attraverso il questionario alimentare. Diversamente, l’analisi non ha dimostrato alcuna associazione tra i micronutrienti e i sintomi dell’ansia.
Spesso, la deficienza, anche multipla, di questi micronutrienti può passare inosservata e la situazione può essere ulteriormente aggravata dalla presenza di patologie che ostacolano l’assorbimento dei nutrienti o ne aumentano la richiesta.
Occorre infine ricordare che l’alcolismo, oltre ad influenzare il sonno e l’umore, rappresenta una delle principali cause di deficienza nutrizionali, in quanto le bevande alcoliche forniscono calorie in eccesso senza tuttavia alcun minerale o vitamina.
Fonte: Jacka FN, Maes M, Pasco JA, Williams LJ Nutrient intakes and the common mental disorders in women. J Affect Disord. 2012 Mar 5.
Sempre più numerose evidenze sottolineano l'importanza della corretta alimentazione per il mantenimento della salute mentale.
Il cervello è un organo ad elevato consumo energetico e la carenza calorica prolungata può provocare alterazioni biochimiche che inficiano il corretto funzionamento dei circuiti nervosi.
L’apporto di carboidrati, proteine e grassi è infatti indispensabile per la produzione continua di neurotrasmettitori, i mediatori chimici rilasciati durante la trasmissione degli impulsi nervosi che sostengono le attività cerebrali come il sonno, il pensiero e l’elaborazione delle emozioni.
La presenza di sintomi depressivi è spesso osservata negli individui cronicamente in deficit calorico. I carboidrati e gli amminoacidi essenziali sono infatti necessari per la sintesi del principale neurotrasmettitore con effetto sedativo, la serotonina.
La carenza di particolari vitamine e minerali sembra anch’essa implicata nell’insorgenza di alcuni disturbi delle facoltà intellettive, tra cui la perdita di memoria, l’instabilità emotiva e l’irritabilità.
Le vitamine introdotte con la dieta (tiamina, folati, niacina, vitamina B6, E e A) sono infatti richieste sia per la produzione di neurotrasmettitori che per il mantenimento dell’integrità strutturale della membrana neuronale.
I folati sono importanti cofattori enzimatici coinvolti nel metabolismo degli amminoacidi, in particolare della metionina. La deficienza cronica di folato può infatti, oltre a causare l’accumulo del metabolita omocisteina, dannoso per il sistema cardiovascolare, determinare l’insorgenza di sintomi psicologici tipici della depressione, probabilmente attraverso una riduzione dei livelli di serotonina.
Le carenze di ferro, magnesio, manganese, rame, zinco e selenio possono invece provocare difetti nell’ossigenazione cerebrale e dell'eccitabilità nervosa, causando una serie di disturbi mentali.
Il magnesio, le cui fonti principali sono frutta e verdura, è infatti necessario per la corretta trasmissione degli impulsi nervosi e la sua deficienza può determinare irritabilità, instabilità mentale e difficoltà di concentrazione.
Lo zinco, principalmente contenuto nelle carni rosse e nei latticini, è invece richiesto per l’integrità della membrana neuronale e la sua carenza può tradursi in disturbi neurologici che si manifestano sia a livello sensoriale che nella facilità di affaticamento e agitazione.
Di fronte a queste carenze nutrizionali l’organismo può arrestare alcune funzioni fisiologiche non essenziali, influenzando indirettamente l’attività cerebrale.
Nel presente studio, i ricercatori del dipartimento di psichiatria della Deakin University, Australia, hanno analizzato un ampio campione di donne, ricercando una possibile relazione tra l’apporto giornaliero di alcuni micronutrienti e l’incidenza di disordini depressivi e ansia.
In particolare, gli autori hanno esaminato l’apporto giornaliero di magnesio, folati e zinco, attraverso questionari alimentari auto-somministrati, parallelamente alla valutazione dello stato di salute mentale delle partecipanti, quest’ultimo esplorato mediante un questionario standardizzato per riconoscere la presenza di disturbi psicologici (General Health Questionnaire-12).
Dopo la correzione dei dati per le calorie giornaliere, i risultati hanno dimostrato che per ogni aumento della deviazione standard relativa all’apporto dei tre micronutrienti la probabilità di sviluppare i sintomi tipici della depressione cronica si riduceva in modo significativo.
Questa associazione veniva confermata dalla relazione di tipo inverso tra i livelli dei micronutrienti e i punteggi ottenuti attraverso il questionario alimentare. Diversamente, l’analisi non ha dimostrato alcuna associazione tra i micronutrienti e i sintomi dell’ansia.
Spesso, la deficienza, anche multipla, di questi micronutrienti può passare inosservata e la situazione può essere ulteriormente aggravata dalla presenza di patologie che ostacolano l’assorbimento dei nutrienti o ne aumentano la richiesta.
Occorre infine ricordare che l’alcolismo, oltre ad influenzare il sonno e l’umore, rappresenta una delle principali cause di deficienza nutrizionali, in quanto le bevande alcoliche forniscono calorie in eccesso senza tuttavia alcun minerale o vitamina.
Fonte: Jacka FN, Maes M, Pasco JA, Williams LJ Nutrient intakes and the common mental disorders in women. J Affect Disord. 2012 Mar 5.
Acidi grassi a confronto
Gli effetti negativi degli acidi grassi trans presenti in molti alimenti di produzione industriale sono stati revisionati e precisati.
Alcuni ricercatori dell’Università di Palermo hanno approfondito l’argomento puntando l’indice sull’industria alimentare che ha promosso una fornitura massiccia, ad un prezzo relativamente basso, di una grande varietà di alimenti preconfezionati e prodotti da forno, con contenuto energetico molto elevato.
La maggior parte di questi alimenti contiene elevate quantità di acidi grassi saturi (SFA) e idrogenati, cioè acidi grassi trans (TFA), che rappresentano un fattore di rischio importante nella dieta. Nella revisione si evidenzia l’impatto sulla salute di tali molecole, con particolare riferimento alle malattie coronariche, all’insulino-resistenza, alla sindrome metabolica e al diabete.
Vengono approfonditi i meccanismi cellulari e molecolari che sottendono l’attività degli acidi grassi in generale, sulla promozione di patologie diverse e sulla prevenzione della salute. Basta ricordare che gli acidi grassi liberi (FFA) non sono solo i combustibili essenziali per l'organismo, ma interagiscono come ligandi di recettori di membrana o nucleari coinvolti in diverse vie di segnale, alcune di queste sarebbero coinvolte nello stress e nella apoptosi cellulare.
Infine, ma non per ultimo, gli FFA possono influire sulla secrezione (glucosio-indotta) di insulina e attivare la morte delle β-cellule. Tali eventi possono essere almeno in parte contrastati dagli acidi grassi polinsaturi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22414056
Curr Diabetes Rev. 2012 Jan 1;8(1):2-17.
Dietary Fatty acids in metabolic syndrome, diabetes and cardiovascular diseases.
Alcuni ricercatori dell’Università di Palermo hanno approfondito l’argomento puntando l’indice sull’industria alimentare che ha promosso una fornitura massiccia, ad un prezzo relativamente basso, di una grande varietà di alimenti preconfezionati e prodotti da forno, con contenuto energetico molto elevato.
La maggior parte di questi alimenti contiene elevate quantità di acidi grassi saturi (SFA) e idrogenati, cioè acidi grassi trans (TFA), che rappresentano un fattore di rischio importante nella dieta. Nella revisione si evidenzia l’impatto sulla salute di tali molecole, con particolare riferimento alle malattie coronariche, all’insulino-resistenza, alla sindrome metabolica e al diabete.
Vengono approfonditi i meccanismi cellulari e molecolari che sottendono l’attività degli acidi grassi in generale, sulla promozione di patologie diverse e sulla prevenzione della salute. Basta ricordare che gli acidi grassi liberi (FFA) non sono solo i combustibili essenziali per l'organismo, ma interagiscono come ligandi di recettori di membrana o nucleari coinvolti in diverse vie di segnale, alcune di queste sarebbero coinvolte nello stress e nella apoptosi cellulare.
Infine, ma non per ultimo, gli FFA possono influire sulla secrezione (glucosio-indotta) di insulina e attivare la morte delle β-cellule. Tali eventi possono essere almeno in parte contrastati dagli acidi grassi polinsaturi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22414056
Curr Diabetes Rev. 2012 Jan 1;8(1):2-17.
Dietary Fatty acids in metabolic syndrome, diabetes and cardiovascular diseases.
Il rischio di dislipidemia
Una proteina degli adipociti (FABP4 - adipocyte fatty acid-binding protein 4) è stata associata alla previsione di rischio per la dislipidemia aterogena (AD).
Nell’ambito dello studio multicentrico noto con l’acronimo PREDIMED (Mediterranean Diet In The Primary Prevention Of Cardiovascular Disease) sono stati misurati i dati relativi alla concentrazione plasmatica di FABP4 le cui concentrazioni plasmatiche sono state associate ad alterazioni metaboliche accompagnate da adiposità.
Sono stati così analizzati con metodo prospettico i livelli plasmatici di FABP4 di 587 volontari che hanno consultato i loro medici di medicina generale a causa dei loro fattori di rischio cardiovascolare nel corso di un periodo di follow-up di 6 anni. Lo scopo primario era quello di analizzare l’incidenza di AD in relazione ai livelli plasmatici di FABP4. Nel corso del follow-up 103 partecipanti hanno sviluppato AD.
Si è così evidenziato che al basale i livelli plasmatici più elevati di FABP4 erano associati con AD di nuova insorgenza nelle donne ma lo stesso non si è verificato negli uomini. Dunque la misura dei livelli di FABP4 potrebbe avere un significato predittivo limitato alle donne.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22420890
Atherosclerosis. 2012 Feb 24. [Epub ahead of print]
FABP4 predicts atherogenic dyslipidemia development. The PREDIMED study.
Nell’ambito dello studio multicentrico noto con l’acronimo PREDIMED (Mediterranean Diet In The Primary Prevention Of Cardiovascular Disease) sono stati misurati i dati relativi alla concentrazione plasmatica di FABP4 le cui concentrazioni plasmatiche sono state associate ad alterazioni metaboliche accompagnate da adiposità.
Sono stati così analizzati con metodo prospettico i livelli plasmatici di FABP4 di 587 volontari che hanno consultato i loro medici di medicina generale a causa dei loro fattori di rischio cardiovascolare nel corso di un periodo di follow-up di 6 anni. Lo scopo primario era quello di analizzare l’incidenza di AD in relazione ai livelli plasmatici di FABP4. Nel corso del follow-up 103 partecipanti hanno sviluppato AD.
Si è così evidenziato che al basale i livelli plasmatici più elevati di FABP4 erano associati con AD di nuova insorgenza nelle donne ma lo stesso non si è verificato negli uomini. Dunque la misura dei livelli di FABP4 potrebbe avere un significato predittivo limitato alle donne.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22420890
Atherosclerosis. 2012 Feb 24. [Epub ahead of print]
FABP4 predicts atherogenic dyslipidemia development. The PREDIMED study.
Indice glicemico, leptina e adiponectina
Le diete a elevato indice glicemico (GI) o elevato carico glicemico sembrano modulare le concentrazioni plasmatiche di leptina e adiponectina.
Nell’ambito dello studio multicentrico noto con l’acronimo PREDIMED (Mediterranean Diet In The Primary Prevention Of Cardiovascular Disease) sono stati raccolti al basale dopo un anno di follow-up, i dati relativi alle abitudini alimentari di 511 anziani (uomini e donne con elevato rischio cardiovascolare) residenti in comunità.
In tutti i soggetti selezionati sono stati misurati i livelli plasmatici di leptina e adiponectina, e altri markers di rischio cardiometabolico, al basale e dopo 1 anno. Si procedeva calcolando il GI e il GL della dieta che veniva poi posto in relazione alle misure di laboratorio. Si è così evidenziato che al basale, i soggetti nei quartili più elevati di GI mostravano livelli significativamente più elevati di TNF e di IL-6 rispetto a quelli nei quartili inferiori.
Inoltre il GI era negativamente correlato ai livelli plasmatici di leptina e adiponectina. Dopo 1 anno di follow-up, i soggetti con un incremento più elevato di GI o GL hanno mostrato una maggiore riduzione dei livelli plasmatici di leptina e adiponectina. Non è stata, invece, trovata alcuna associazione tra GI o GL e gli altri marcatori metabolici misurati.
Fonte:http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22209741
Nutr Metab Cardiovasc Dis. 2011 Dec 30. [Epub ahead of print]
Dietary glycemic index/load and peripheral adipokines and inflammatory markers in elderly subjects at high cardiovascular risk.
Nell’ambito dello studio multicentrico noto con l’acronimo PREDIMED (Mediterranean Diet In The Primary Prevention Of Cardiovascular Disease) sono stati raccolti al basale dopo un anno di follow-up, i dati relativi alle abitudini alimentari di 511 anziani (uomini e donne con elevato rischio cardiovascolare) residenti in comunità.
In tutti i soggetti selezionati sono stati misurati i livelli plasmatici di leptina e adiponectina, e altri markers di rischio cardiometabolico, al basale e dopo 1 anno. Si procedeva calcolando il GI e il GL della dieta che veniva poi posto in relazione alle misure di laboratorio. Si è così evidenziato che al basale, i soggetti nei quartili più elevati di GI mostravano livelli significativamente più elevati di TNF e di IL-6 rispetto a quelli nei quartili inferiori.
Inoltre il GI era negativamente correlato ai livelli plasmatici di leptina e adiponectina. Dopo 1 anno di follow-up, i soggetti con un incremento più elevato di GI o GL hanno mostrato una maggiore riduzione dei livelli plasmatici di leptina e adiponectina. Non è stata, invece, trovata alcuna associazione tra GI o GL e gli altri marcatori metabolici misurati.
Fonte:http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22209741
Nutr Metab Cardiovasc Dis. 2011 Dec 30. [Epub ahead of print]
Dietary glycemic index/load and peripheral adipokines and inflammatory markers in elderly subjects at high cardiovascular risk.
Vitamina K: non solo coagulazione
La vitamina K, storicamente nota per il suo ruolo nella coagulazione del sangue, sembra avere importanti implicazioni in alcune funzioni del sistema nervoso centrale.
Secondo un’aggiornata revisione la vitamina K contribuisce all’attivazione biologica delle proteine Gas6 e S (ligandi per i recettori tirosin-chinasi della famiglia TAM - Tyro3, Axl, e Mer) come cofattore unico dell’enzima γ-glutamil carbossilasi.
Funzionalmente, la Gas6 è stata coinvolta in una vasta gamma di processi cellulari che includono la crescita cellulare, la sopravvivenza e l'apoptosi. Nel cervello, la vitamina K partecipa anche alla sintesi di sfingolipidi presenti in elevate concentrazioni nelle membrane cellulari dei tessuti cerebrali.
Oltre al loro ruolo strutturale, gli sfingolipidi sono ormai noti per la partecipazione a importanti processi quali la proliferazione, la differenziazione, senescenza e alle interazioni cellula-cellula. Negli ultimi anni, numerose evidenze hanno mostrato l’associazione tra alcune alterazioni del metabolismo degli sfingolipidi e l’età, probabilmente correlata anche al declino cognitivo e alle malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer (AD).
I dati emersi utlimamente sottolineano inoltre le attività del vitamer menachinone K-4 (MK-4) contro lo stress ossidativo e l'infiammazione. Infine, esistono oggi evidenze che suggeriscono che la vitamina K potrebbe avere un ruolo potenziale sul comportamento psicomotorio e cognitivo.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22419547
Biofactors. 2012 Mar 15. doi: 10.1002/biof.1004. [Epub ahead of print]
Vitamin K, an emerging nutrient in brain function.
Secondo un’aggiornata revisione la vitamina K contribuisce all’attivazione biologica delle proteine Gas6 e S (ligandi per i recettori tirosin-chinasi della famiglia TAM - Tyro3, Axl, e Mer) come cofattore unico dell’enzima γ-glutamil carbossilasi.
Funzionalmente, la Gas6 è stata coinvolta in una vasta gamma di processi cellulari che includono la crescita cellulare, la sopravvivenza e l'apoptosi. Nel cervello, la vitamina K partecipa anche alla sintesi di sfingolipidi presenti in elevate concentrazioni nelle membrane cellulari dei tessuti cerebrali.
Oltre al loro ruolo strutturale, gli sfingolipidi sono ormai noti per la partecipazione a importanti processi quali la proliferazione, la differenziazione, senescenza e alle interazioni cellula-cellula. Negli ultimi anni, numerose evidenze hanno mostrato l’associazione tra alcune alterazioni del metabolismo degli sfingolipidi e l’età, probabilmente correlata anche al declino cognitivo e alle malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer (AD).
I dati emersi utlimamente sottolineano inoltre le attività del vitamer menachinone K-4 (MK-4) contro lo stress ossidativo e l'infiammazione. Infine, esistono oggi evidenze che suggeriscono che la vitamina K potrebbe avere un ruolo potenziale sul comportamento psicomotorio e cognitivo.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22419547
Biofactors. 2012 Mar 15. doi: 10.1002/biof.1004. [Epub ahead of print]
Vitamin K, an emerging nutrient in brain function.
Artrite reumatoide: Frutta e Verdura proteggono dal danno alle arterie
Il consumo regolare di frutta e verdura rappresenta una misura preventiva indispensabile per arginare il rischio di patologie cardiovascolari.
L’artrite reumatoide è una patologia autoimmune ad eziologia sconosciuta che colpisce numerosi tessuti e in particolare le articolazioni. Nei pazienti affetti da artrite reumatoide è anche comune un danno al sistema cardiovascolare, secondario a processi infiammatori, che può favorire l’aterosclerosi.
L’interessamento vascolare in questa patologia è inoltre osservabile a livello del microcircolo cutaneo, dove si assiste ad una scompaginazione dell’architettura microvascolare tipicamente rilevata attraverso l’esame capillaroscopico.
Il consumo regolare di frutta e verdura rappresenta una misura preventiva indispensabile per arginare il rischio di patologie cardiovascolari.
Nel presente studio i ricercatori dell’Università di Aberdeen hanno analizzato in quale misura il consumo regolare di frutta e verdura potesse limitare il danno alle arterie nei pazienti affetti da artrite reumatoide.
Lo studio di casi consecutivi ha coinvolto pazienti di età compresa tra 40 e 65 anni, senza evidente patologia cardiovascolare.
La valutazione clinica ha previsto l’analisi dell’onda di polso con il sistema di tonometria radiale SphygmoCor (un marker indicativo della rigidità arteriosa dell’aumento e del rischio di eventi cardiovascolari), l’esame del sangue a digiuno ed un controllo della cartella clinica del paziente. L’analisi multivariata ha permesso di correggere i dati per le variabili età, sesso, livello di colesterolo, pressione arteriosa media, fumo e consumo di alcol, attività fisica, stato infiammatorio generale, presenza di noduli reumatoidi e disabilità.
I partecipanti, in totale 114 di cui l’81% donne di età media 54 anni, presentavano una durata media della malattia di 10 anni e valore medio di onda di polso, indice AIX, 31,5. Dall’analisi non corretta per i parametri confondenti è emerso che il consumo di frutta e verdura correlava con valori più bassi dell’indice AIX.
L’analisi corretta ha invece dimostrato che solo il consumo di verdura, e non quello di frutta, correlava con uno stato vascolare più salutare.
Nei pazienti affetti da artrite reumatoide il consumo quotidiano di verdura sembra dunque offrire una consistente protezione verso i processi infiammatori che interessano i vasi di calibro maggiore e che possono favorire incidenti cardio e cerebro-vascolari. Questi risultati sono inoltre coerenti con l’effetto protettivo sulle arterie esercitato dai nitrati organici, la cui concentrazione nella circolazione enterosalivare è favorita dal consumo di cui frutta e verdura.
Fonte: M A Crilly and G McNeill Arterial dysfunction in patients with rheumatoid arthritis and the consumption of daily fruits and daily vegetables European Journal of Clinical Nutrition (2012)
L’artrite reumatoide è una patologia autoimmune ad eziologia sconosciuta che colpisce numerosi tessuti e in particolare le articolazioni. Nei pazienti affetti da artrite reumatoide è anche comune un danno al sistema cardiovascolare, secondario a processi infiammatori, che può favorire l’aterosclerosi.
L’interessamento vascolare in questa patologia è inoltre osservabile a livello del microcircolo cutaneo, dove si assiste ad una scompaginazione dell’architettura microvascolare tipicamente rilevata attraverso l’esame capillaroscopico.
Il consumo regolare di frutta e verdura rappresenta una misura preventiva indispensabile per arginare il rischio di patologie cardiovascolari.
Nel presente studio i ricercatori dell’Università di Aberdeen hanno analizzato in quale misura il consumo regolare di frutta e verdura potesse limitare il danno alle arterie nei pazienti affetti da artrite reumatoide.
Lo studio di casi consecutivi ha coinvolto pazienti di età compresa tra 40 e 65 anni, senza evidente patologia cardiovascolare.
La valutazione clinica ha previsto l’analisi dell’onda di polso con il sistema di tonometria radiale SphygmoCor (un marker indicativo della rigidità arteriosa dell’aumento e del rischio di eventi cardiovascolari), l’esame del sangue a digiuno ed un controllo della cartella clinica del paziente. L’analisi multivariata ha permesso di correggere i dati per le variabili età, sesso, livello di colesterolo, pressione arteriosa media, fumo e consumo di alcol, attività fisica, stato infiammatorio generale, presenza di noduli reumatoidi e disabilità.
I partecipanti, in totale 114 di cui l’81% donne di età media 54 anni, presentavano una durata media della malattia di 10 anni e valore medio di onda di polso, indice AIX, 31,5. Dall’analisi non corretta per i parametri confondenti è emerso che il consumo di frutta e verdura correlava con valori più bassi dell’indice AIX.
L’analisi corretta ha invece dimostrato che solo il consumo di verdura, e non quello di frutta, correlava con uno stato vascolare più salutare.
Nei pazienti affetti da artrite reumatoide il consumo quotidiano di verdura sembra dunque offrire una consistente protezione verso i processi infiammatori che interessano i vasi di calibro maggiore e che possono favorire incidenti cardio e cerebro-vascolari. Questi risultati sono inoltre coerenti con l’effetto protettivo sulle arterie esercitato dai nitrati organici, la cui concentrazione nella circolazione enterosalivare è favorita dal consumo di cui frutta e verdura.
Fonte: M A Crilly and G McNeill Arterial dysfunction in patients with rheumatoid arthritis and the consumption of daily fruits and daily vegetables European Journal of Clinical Nutrition (2012)
Carenze di magnesio sottostimate
Secondo gli americani, gli studi sul magnesio sono ancora insufficienti e le eventuali carenze sottostimate, al contrario di ciò che avviene per il calcio.
Tuttavia, una scarsa assunzione con la dieta e bassi livelli di magnesio nel sangue sono stati associati con diabete di tipo 2, sindrome metabolica, aumento della proteina C-reattiva, ipertensione, vasculopatia aterosclerotica, morte cardiaca improvvisa, osteoporosi , emicrania, asma e cancro del colon. Quasi la metà (48%) della popolazione degli Stati Uniti consumava meno della quantità necessaria di magnesio dal cibo nel periodo 2005-2006, seppure con un aumento rispetto al 56% che si verificava nel 2001-2002.
I dati degli ultimi 30 anni indicano una risalita del rapporto calcio/magnesio assunto dagli alimenti a favore del calcio, negli adulti e negli anziani, escludendo l'assunzione di integratori di calcio. La prevalenza e l'incidenza di diabete di tipo 2 negli Stati Uniti sono in netto aumento tra il 1994 e il 2001 come il rapporto tra calcio e magnesio con l'assunzione di cibo è aumentato da <3.0 a> 3.0.
Secondo diversi gruppi di ricercatori americani, dunque, sono necessarie ulteriori ricerche approfondite riguardo le stime dell’intake alimentare di magnesio, rispetto a quello del calcio, per rivedere eventualmente i livelli d’assunzione raccomandati che attualmente sarebbero sottostimati, poiché i livelli di riferimento sono calcolati in campioni di popolazione apparentemente sani con un deficit d’assunzione di magnesio cronico.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22364157
Nutr Rev. 2012 Mar;70(3):153-64. doi: 10.1111/j.1753-4887.2011.00465.x. Epub 2012 Feb 15.
Suboptimal magnesium status in the United States: are the health consequences underestimated?
Tuttavia, una scarsa assunzione con la dieta e bassi livelli di magnesio nel sangue sono stati associati con diabete di tipo 2, sindrome metabolica, aumento della proteina C-reattiva, ipertensione, vasculopatia aterosclerotica, morte cardiaca improvvisa, osteoporosi , emicrania, asma e cancro del colon. Quasi la metà (48%) della popolazione degli Stati Uniti consumava meno della quantità necessaria di magnesio dal cibo nel periodo 2005-2006, seppure con un aumento rispetto al 56% che si verificava nel 2001-2002.
I dati degli ultimi 30 anni indicano una risalita del rapporto calcio/magnesio assunto dagli alimenti a favore del calcio, negli adulti e negli anziani, escludendo l'assunzione di integratori di calcio. La prevalenza e l'incidenza di diabete di tipo 2 negli Stati Uniti sono in netto aumento tra il 1994 e il 2001 come il rapporto tra calcio e magnesio con l'assunzione di cibo è aumentato da <3.0 a> 3.0.
Secondo diversi gruppi di ricercatori americani, dunque, sono necessarie ulteriori ricerche approfondite riguardo le stime dell’intake alimentare di magnesio, rispetto a quello del calcio, per rivedere eventualmente i livelli d’assunzione raccomandati che attualmente sarebbero sottostimati, poiché i livelli di riferimento sono calcolati in campioni di popolazione apparentemente sani con un deficit d’assunzione di magnesio cronico.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22364157
Nutr Rev. 2012 Mar;70(3):153-64. doi: 10.1111/j.1753-4887.2011.00465.x. Epub 2012 Feb 15.
Suboptimal magnesium status in the United States: are the health consequences underestimated?
Può la dieta proteggere dall'inquinamento ?
L’alimentazione potrebbe limitare i fenomeni infiammatori e ossidativi responsabili dei danni agli organi.
Con l’aumentare della contaminazione ambientale da parte di sostanze provenienti da fonti industriali cresce anche l’esposizione cronica a pericolose combinazioni di composti tossici.
Sostanze come i policlorobifenili, i ritardanti di fiamma bromurati ed altre molecole organometalliche sono solo alcuni dei composti dispersi nell’ambiente che si accumulano nei tessuti scatenando potenti reazioni infiammatorie e favorendo patologie come l’aterosclerosi e il diabete.
Non solo, è anche accertata l’esistenza di composti “obesogeni”, sostanze contenute nei materiali plastici di uso quotidiano in grado di interferire nella fisiologia del tessuto adiposo favorendo il sovrappeso. L’interazione chimica tra questi composti avviene nei tessuti ed è spesso causa di danni irreversibili agli organi.
È un dato tristemente accertato il fatto che le popolazioni che abitano nelle vicinanze di siti contaminati presentano una maggiore incidenza di disturbi cardiovascolari e metabolici come l’ipertensione e la resistenza ad insulina. Di fronte a questa minaccia che riguarda interamente la società, lo stile di vita assume dunque un’importanza vitale.
L’idea è infatti che l’alimentazione, innanzitutto, ma anche l’attività fisica, siano importanti mediatori degli effetti dell’inquinamento ambientale sulla salute.
L’alimentazione assume, del resto, un duplice ruolo, potendo sia esacerbare che attenuare l’infiammazione e lo stress ossidativo.
Vi sono infatti abitudini alimentari che proteggono l’organismo mentre altre, meno salutari, aumentano la vulnerabilità agli insulti. Esattamente, in quale misura gli alimenti possono contrastare gli effetti tossici ambientali non è noto, ed è attualmente oggetto di investigazione.
Numerosi studi hanno dimostrato inequivocabilmente che i grassi saturi cooperano con diversi composti tossici nei processi ossidativi e infiammatori accelerando il danno endoteliale.
La pericolosa sinergia tra il cloruro di vinile e il fruttosio è invece osservata nella progressione della steatosi epatica non-alcolica. Queste osservazioni non stupiscono di certo. Le cattive abitudini alimentari costituiscono infatti il principale fattore di rischio per le più comuni patologie non trasmissibili – malattie cardiovascolari, cancro e diabete.
Fortunatamente, esistono nutrienti dotati di proprietà “detossificanti” e favorenti la stabilità metabolica, necessari quindi per proteggere l’organismo dagli insulti ambientali.
Tra questi, i grassi polinsaturi della classe omega 3 e, più in generale, gli alimenti dotati di proprietà anti-infiammatorie ed antiossidanti come i flavonoidi vegetali possono contrastare il danno tissutale. I grassi omega 3 sembrano inoltre proteggere dagli effetti che alcune sostanze esercitano sul sistema endocannabinoide, il cui disturbo è alla base di comportamenti alimentari che predispongono alla sovralimentazione.
Secondo una libera interpretazione della teoria evoluzionistica, il rapido sviluppo industriale e la conseguente contaminazione dell’ambiente non avrebbero lasciato un tempo necessario all’uomo per sviluppare sistemi endogeni di disintossicazione e risposte fisiologiche adatte a contrastare gli effetti dell’inquinamento. Per questo, l’intervento nutrizionale rappresenta un’importante strategia di prevenzione primaria necessario ad arginare gli insulti tossici ambientali.
La maggior parte di queste conclusioni è, tuttavia, tratta da osservazioni sperimentali e la loro applicabilità all’uomo desta ancora perplessità. La strada della ricerca nutrigenetica e nutrigenomica ha comunque di fronte a sè interessanti spunti per investigare la variabilità individuale nella riposta agli inquinanti e l’effetto protettivo offerto dai nutrienti.
Fonte: Hennig B, Ormsbee L, McClain CJ, Watkins BA, Blumberg B, Bachas LG, et al. 2012. Nutrition Can Modulate the Toxicity of Environmental Pollutants: Implications in Risk Assessment and Human Health. Environ Health Perspect
Con l’aumentare della contaminazione ambientale da parte di sostanze provenienti da fonti industriali cresce anche l’esposizione cronica a pericolose combinazioni di composti tossici.
Sostanze come i policlorobifenili, i ritardanti di fiamma bromurati ed altre molecole organometalliche sono solo alcuni dei composti dispersi nell’ambiente che si accumulano nei tessuti scatenando potenti reazioni infiammatorie e favorendo patologie come l’aterosclerosi e il diabete.
Non solo, è anche accertata l’esistenza di composti “obesogeni”, sostanze contenute nei materiali plastici di uso quotidiano in grado di interferire nella fisiologia del tessuto adiposo favorendo il sovrappeso. L’interazione chimica tra questi composti avviene nei tessuti ed è spesso causa di danni irreversibili agli organi.
È un dato tristemente accertato il fatto che le popolazioni che abitano nelle vicinanze di siti contaminati presentano una maggiore incidenza di disturbi cardiovascolari e metabolici come l’ipertensione e la resistenza ad insulina. Di fronte a questa minaccia che riguarda interamente la società, lo stile di vita assume dunque un’importanza vitale.
L’idea è infatti che l’alimentazione, innanzitutto, ma anche l’attività fisica, siano importanti mediatori degli effetti dell’inquinamento ambientale sulla salute.
L’alimentazione assume, del resto, un duplice ruolo, potendo sia esacerbare che attenuare l’infiammazione e lo stress ossidativo.
Vi sono infatti abitudini alimentari che proteggono l’organismo mentre altre, meno salutari, aumentano la vulnerabilità agli insulti. Esattamente, in quale misura gli alimenti possono contrastare gli effetti tossici ambientali non è noto, ed è attualmente oggetto di investigazione.
Numerosi studi hanno dimostrato inequivocabilmente che i grassi saturi cooperano con diversi composti tossici nei processi ossidativi e infiammatori accelerando il danno endoteliale.
La pericolosa sinergia tra il cloruro di vinile e il fruttosio è invece osservata nella progressione della steatosi epatica non-alcolica. Queste osservazioni non stupiscono di certo. Le cattive abitudini alimentari costituiscono infatti il principale fattore di rischio per le più comuni patologie non trasmissibili – malattie cardiovascolari, cancro e diabete.
Fortunatamente, esistono nutrienti dotati di proprietà “detossificanti” e favorenti la stabilità metabolica, necessari quindi per proteggere l’organismo dagli insulti ambientali.
Tra questi, i grassi polinsaturi della classe omega 3 e, più in generale, gli alimenti dotati di proprietà anti-infiammatorie ed antiossidanti come i flavonoidi vegetali possono contrastare il danno tissutale. I grassi omega 3 sembrano inoltre proteggere dagli effetti che alcune sostanze esercitano sul sistema endocannabinoide, il cui disturbo è alla base di comportamenti alimentari che predispongono alla sovralimentazione.
Secondo una libera interpretazione della teoria evoluzionistica, il rapido sviluppo industriale e la conseguente contaminazione dell’ambiente non avrebbero lasciato un tempo necessario all’uomo per sviluppare sistemi endogeni di disintossicazione e risposte fisiologiche adatte a contrastare gli effetti dell’inquinamento. Per questo, l’intervento nutrizionale rappresenta un’importante strategia di prevenzione primaria necessario ad arginare gli insulti tossici ambientali.
La maggior parte di queste conclusioni è, tuttavia, tratta da osservazioni sperimentali e la loro applicabilità all’uomo desta ancora perplessità. La strada della ricerca nutrigenetica e nutrigenomica ha comunque di fronte a sè interessanti spunti per investigare la variabilità individuale nella riposta agli inquinanti e l’effetto protettivo offerto dai nutrienti.
Fonte: Hennig B, Ormsbee L, McClain CJ, Watkins BA, Blumberg B, Bachas LG, et al. 2012. Nutrition Can Modulate the Toxicity of Environmental Pollutants: Implications in Risk Assessment and Human Health. Environ Health Perspect
La Vit. D protegge dalle fratture ossee nelle giovani atlete
Non il consumo di calcio e neppure quello di latticini protegge dalle fratture da trauma nelle adolescenti, ma l’apporto alimentare di vitamina D.
A questa conclusione sono giunti i ricercatori del Children's Hospital di Boston, i quali hanno potuto dimostrare che il principale fattore alimentare in grado di offrire protezione contro le fratture da trauma è unicamente il consumo di vitamina D.
L’analisi ha coinvolto 6712 giovani ragazze di età compresa tra 9 e 15 anni le quali hanno riferito, per un periodo compreso tra il 1997 e il 2004, il proprio consumo giornaliero di latticini, calcio e vitamina D.
Gli autori hanno quindi investigato in quale misura il consumo dei tre nutrienti influisse sull’incidenza di fratture da trauma sportivo.
Durante i 7 anni di follow-up, il 3,9% delle giovani atlete ha sofferto una frattura da trauma, principalmente praticando attività “violente” come basket e calcio.
Dall’analisi statistica dei dati è emerso che il consumo di latticini e calcio non correlava in alcun modo con il rischio di frattura. Diversamente, i livelli di vitamina D erano associati alla probabilità di frattura durante lo sport secondo una correlazione inversa.
I ricercatori hanno infatti suddiviso le ragazze in cinque gruppi secondo i livelli di consumo medio giornaliero della vitamina. L’analisi multivariata, corretta per età, indice di massa corporea, età al menarca e storia familiare materna di ridotta densità ossea o osteoporosi, ha rivelato che le ragazze incluse nella categoria a più elevato consumo presentavano un rischio di frattura dimezzato rispetto al gruppo più basso. Questa associazione era ancora più forte per le ragazze che praticavano più di un’ora al giorno di attività fisica intensa.
Al contrario, quando le ragazze venivano suddivise in categorie per i consumo di latticini e calcio non emergeva alcuna relazione con la probabilità di frattura.
Attualmente il consumo raccomandato di calcio e vitamina D, nelle bambine e ragazze di età compresa tra 9 e 18 anni, è di 1300 mg e 600 IU giornalieri rispettivamente. Secondo questo studio un piano alimentare per le giovani sportive dovrebbe porre l'accento sul consumo di Vitamina D.
Resta invece da chiarire se l’assunzione di Vitamina D in forma di supplementi offra una protezione simile alle fonti alimentari.
Fonte: Kendrin R. Sonneville, ScD, RD; Catherine M. Gordon, MD, MSc; Mininder S. Kocher, MD, MPH et al. Vitamin D, Calcium, and Dairy Intakes and Stress Fractures Among Female Adolescents Arch Pediatr Adolesc Med.
A questa conclusione sono giunti i ricercatori del Children's Hospital di Boston, i quali hanno potuto dimostrare che il principale fattore alimentare in grado di offrire protezione contro le fratture da trauma è unicamente il consumo di vitamina D.
L’analisi ha coinvolto 6712 giovani ragazze di età compresa tra 9 e 15 anni le quali hanno riferito, per un periodo compreso tra il 1997 e il 2004, il proprio consumo giornaliero di latticini, calcio e vitamina D.
Gli autori hanno quindi investigato in quale misura il consumo dei tre nutrienti influisse sull’incidenza di fratture da trauma sportivo.
Durante i 7 anni di follow-up, il 3,9% delle giovani atlete ha sofferto una frattura da trauma, principalmente praticando attività “violente” come basket e calcio.
Dall’analisi statistica dei dati è emerso che il consumo di latticini e calcio non correlava in alcun modo con il rischio di frattura. Diversamente, i livelli di vitamina D erano associati alla probabilità di frattura durante lo sport secondo una correlazione inversa.
I ricercatori hanno infatti suddiviso le ragazze in cinque gruppi secondo i livelli di consumo medio giornaliero della vitamina. L’analisi multivariata, corretta per età, indice di massa corporea, età al menarca e storia familiare materna di ridotta densità ossea o osteoporosi, ha rivelato che le ragazze incluse nella categoria a più elevato consumo presentavano un rischio di frattura dimezzato rispetto al gruppo più basso. Questa associazione era ancora più forte per le ragazze che praticavano più di un’ora al giorno di attività fisica intensa.
Al contrario, quando le ragazze venivano suddivise in categorie per i consumo di latticini e calcio non emergeva alcuna relazione con la probabilità di frattura.
Attualmente il consumo raccomandato di calcio e vitamina D, nelle bambine e ragazze di età compresa tra 9 e 18 anni, è di 1300 mg e 600 IU giornalieri rispettivamente. Secondo questo studio un piano alimentare per le giovani sportive dovrebbe porre l'accento sul consumo di Vitamina D.
Resta invece da chiarire se l’assunzione di Vitamina D in forma di supplementi offra una protezione simile alle fonti alimentari.
Fonte: Kendrin R. Sonneville, ScD, RD; Catherine M. Gordon, MD, MSc; Mininder S. Kocher, MD, MPH et al. Vitamin D, Calcium, and Dairy Intakes and Stress Fractures Among Female Adolescents Arch Pediatr Adolesc Med.
Dolci: più dolci e più pesanti
E’ probabile che, nelle donne, la preferenza per il gusto dolce sia associata a un BMI elevato e a un aumento della massa grassa. O forse viceversa.
Questo è quanto sostengono in sostanza i ricercatori dell’università di Guelph in Canada che hanno posto in relazione le misure antropometriche (plicometria e BMI) con la preferenza per il gusto dolce reclutando 72 donne. Venivano definite normali le donne con BMI compreso tra 18.5 e 24.9 kg/m2 e normali o in sovrappeso le donne che mostravano alla plicometria una percentuale di grasso rispettivamente ≤ a 26%.
A tutte le donne venivano proposti quattro campioni di creme che variavano in dolcezza per la diversa concentrazione di saccarosio contenuta. Si è così dimostrato, in sintesi, che le donne con percentuali più elevate di grassi corporei e BMI più elevato erano quelle con la preferenza per le creme più dolci.
Gli autori ritengono che ulteriori ricerche che confermeranno questi risultati potrebbero essere utilizzate a scopo predittivo riguardo le preferenze delle persone in sovrappeso. E questo potrebbe essere utile nella pianificazione di terapie alimentari mirate.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22397966 Can J Diet Pract Res. 2012 Spring;73(1):45-8.
Body fat, sweetness sensitivity, and preference: determining the relationship.
Questo è quanto sostengono in sostanza i ricercatori dell’università di Guelph in Canada che hanno posto in relazione le misure antropometriche (plicometria e BMI) con la preferenza per il gusto dolce reclutando 72 donne. Venivano definite normali le donne con BMI compreso tra 18.5 e 24.9 kg/m2 e normali o in sovrappeso le donne che mostravano alla plicometria una percentuale di grasso rispettivamente ≤ a 26%.
A tutte le donne venivano proposti quattro campioni di creme che variavano in dolcezza per la diversa concentrazione di saccarosio contenuta. Si è così dimostrato, in sintesi, che le donne con percentuali più elevate di grassi corporei e BMI più elevato erano quelle con la preferenza per le creme più dolci.
Gli autori ritengono che ulteriori ricerche che confermeranno questi risultati potrebbero essere utilizzate a scopo predittivo riguardo le preferenze delle persone in sovrappeso. E questo potrebbe essere utile nella pianificazione di terapie alimentari mirate.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22397966 Can J Diet Pract Res. 2012 Spring;73(1):45-8.
Body fat, sweetness sensitivity, and preference: determining the relationship.
Le calorie del fruttosio non sono più pericolose delle altre per il peso corporeo
Il consumo di quantità moderate di fruttosio non costituisce un rischio per l'aumento di peso corporeo
Il fruttosio è un monosaccaride altamente solubile contenuto in natura in numerosi frutti come l’uva e nel miele. Questo zucchero è comunemente utilizzato come additivo alimentare in quanto possiede una dolcezza superiore ad altri zuccheri a parità di contenuto.
Proprio a causa dell’estrema diffusione del fruttosio nelle diete vi sono preoccupazioni che questo zucchero predisponga al sovrappeso, anche se nessuno studio ha direttamente dimostrato il suo contributo all’obesità.
Un recente studio canadese, pubblicato sulla rivista Annals of Internal Medicine, ha cercato di rispondere a queste perplessità attraverso lo strumento investigativo della meta analisi. Gli autori hanno selezionato dai principali database di letteratura scientifica (MEDLINE, EMBASE, CINAHL e the Cochrane Library) trial clinici pubblicati fino al 2011 sull’alimentazione controllata in cui venisse confrontato l’effetto sul peso corporeo tra diete isocaloriche contenenti fruttosio o carboidrati non-fruttosio.
L’analisi dei dati relativi a 41 studi clinici, per un totale di 637 partecipanti, ha dimostrato che il consumo di fruttosio non ha di per sè un effetto sul peso corporeo diverso da quello di altri comuni carboidrati. Solo le diete ipercaloriche a base di fruttosio determinavano un modesto aumento ponderale.
I ricercatori hanno potuto concludere che le calorie del fruttosio non fanno ingrassare più di quanto facciano quelle di altri carboidrati. Ne consegue che bisogna comunque fare attenzione al consumo di frutta molto dolce in caso di terapia dell'obesità.
Solo quando il suo consumo è eccessivo si può verificare un aumento di peso, ma l’effetto è attribuibile alle calorie extra e non al fruttosio stesso.
Fonte: Sievenpiper JL, de Souza RJ, Mirrahimi A et al. Effect of Fructose on Body Weight in Controlled Feeding Trials: A Systematic Review and Meta-analysis. Ann Intern Med. 2012
Il fruttosio è un monosaccaride altamente solubile contenuto in natura in numerosi frutti come l’uva e nel miele. Questo zucchero è comunemente utilizzato come additivo alimentare in quanto possiede una dolcezza superiore ad altri zuccheri a parità di contenuto.
Proprio a causa dell’estrema diffusione del fruttosio nelle diete vi sono preoccupazioni che questo zucchero predisponga al sovrappeso, anche se nessuno studio ha direttamente dimostrato il suo contributo all’obesità.
Un recente studio canadese, pubblicato sulla rivista Annals of Internal Medicine, ha cercato di rispondere a queste perplessità attraverso lo strumento investigativo della meta analisi. Gli autori hanno selezionato dai principali database di letteratura scientifica (MEDLINE, EMBASE, CINAHL e the Cochrane Library) trial clinici pubblicati fino al 2011 sull’alimentazione controllata in cui venisse confrontato l’effetto sul peso corporeo tra diete isocaloriche contenenti fruttosio o carboidrati non-fruttosio.
L’analisi dei dati relativi a 41 studi clinici, per un totale di 637 partecipanti, ha dimostrato che il consumo di fruttosio non ha di per sè un effetto sul peso corporeo diverso da quello di altri comuni carboidrati. Solo le diete ipercaloriche a base di fruttosio determinavano un modesto aumento ponderale.
I ricercatori hanno potuto concludere che le calorie del fruttosio non fanno ingrassare più di quanto facciano quelle di altri carboidrati. Ne consegue che bisogna comunque fare attenzione al consumo di frutta molto dolce in caso di terapia dell'obesità.
Solo quando il suo consumo è eccessivo si può verificare un aumento di peso, ma l’effetto è attribuibile alle calorie extra e non al fruttosio stesso.
Fonte: Sievenpiper JL, de Souza RJ, Mirrahimi A et al. Effect of Fructose on Body Weight in Controlled Feeding Trials: A Systematic Review and Meta-analysis. Ann Intern Med. 2012
Ossa più dense, ma poco sane
Si studiano generalmente gli aspetti patologici relativi a una diminuzione della densità minerale ossea, ma altrettanto importante è la condizione opposta.
La salute dell’osso dipende da diversi fattori fisiologici atti a mantenere in equilibrio i processi di rimaneggiamento e di deposizione dei minerali. La maggior parte degli studi dimostrano che il sovrappeso, il sesso maschile, l’etnia nera, l’attività fisica, l’assunzione di calcio e fluoro e l'uso di farmaci come le statine e i diuretici tiazidici possono giocare un ruolo rilevante e positivo sulla densità minerale ossea.
Inoltre, è noto che le persone con alcune malattie come l'obesità, il diabete, il cancro al seno e all’endometrio, hanno una densità ossea maggiore rispetto agli individui sani, così come gli atleti che hanno densità ossea maggiore rispetto ai non atleti, ma questo non significa necessariamente che hanno ossa sane.
È dunque necessario intervenire sui soggetti con elevato rischio di fragilità ossea, e non solo su quelli con una densità minerale inferiore, puntando per esempio sulla correzione della dieta e dello stile di vita.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22325788
Endocrinol Nutr. 2012 Feb 8. [Epub ahead of print]
High bone density and bone health.
La salute dell’osso dipende da diversi fattori fisiologici atti a mantenere in equilibrio i processi di rimaneggiamento e di deposizione dei minerali. La maggior parte degli studi dimostrano che il sovrappeso, il sesso maschile, l’etnia nera, l’attività fisica, l’assunzione di calcio e fluoro e l'uso di farmaci come le statine e i diuretici tiazidici possono giocare un ruolo rilevante e positivo sulla densità minerale ossea.
Inoltre, è noto che le persone con alcune malattie come l'obesità, il diabete, il cancro al seno e all’endometrio, hanno una densità ossea maggiore rispetto agli individui sani, così come gli atleti che hanno densità ossea maggiore rispetto ai non atleti, ma questo non significa necessariamente che hanno ossa sane.
È dunque necessario intervenire sui soggetti con elevato rischio di fragilità ossea, e non solo su quelli con una densità minerale inferiore, puntando per esempio sulla correzione della dieta e dello stile di vita.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22325788
Endocrinol Nutr. 2012 Feb 8. [Epub ahead of print]
High bone density and bone health.
Cushing prima e dopo
Nella fase acuta del morbo di Cushing (CD) si verificano alterazioni della composizione corporea e del profilo metabolico. Ma cosa avviene nella fasi di remissione?
In uno studio prospettico sono stati coinvolti 14 pazienti con CD osservati prima (fase acuta attiva) e 6 mesi dopo l’intervento chirurgico alla sospensione dei glucorticoidi. Si procedeva misurando la composizione corporea e i fattori plasmatici di rischio cardiovascolare (livelli di insulina, glucosio , leptina, adiponectina, proteina C-reattiva, profilo lipidico) sia nella fase attiva sia durante il periodo di remissione (in media fino a 20 mesi dopo l'intervento chirurgico).
Si è così dimostrato, in sintesi, che nella fase di remissione risultavano ridotti quasi tutti i depositi viscerali di grasso, che riprendevano una distribuzione più favorevole per quanto riguarda il rischio cardiovascolare e anche la massa muscolare risultava ridotta. Meno significativi erano i cambiamenti plasmatici, persistendo l’alterazione del profilo lipidico della proteina C-reattiva e dell’adiponectina.
Dunque, secondo gli autori, la composizione corporea subisce cambiamenti positivi nella fase di remissione, ma il rischio cardiovascolare persiste almeno in parte.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22419708
J Clin Endocrinol Metab. 2012 Mar 14. [Epub ahead of print]
Body Composition and Cardiovascular Risk Markers after Remission of Cushing's Disease: A Prospective Study Using Whole-Body MRI.
In uno studio prospettico sono stati coinvolti 14 pazienti con CD osservati prima (fase acuta attiva) e 6 mesi dopo l’intervento chirurgico alla sospensione dei glucorticoidi. Si procedeva misurando la composizione corporea e i fattori plasmatici di rischio cardiovascolare (livelli di insulina, glucosio , leptina, adiponectina, proteina C-reattiva, profilo lipidico) sia nella fase attiva sia durante il periodo di remissione (in media fino a 20 mesi dopo l'intervento chirurgico).
Si è così dimostrato, in sintesi, che nella fase di remissione risultavano ridotti quasi tutti i depositi viscerali di grasso, che riprendevano una distribuzione più favorevole per quanto riguarda il rischio cardiovascolare e anche la massa muscolare risultava ridotta. Meno significativi erano i cambiamenti plasmatici, persistendo l’alterazione del profilo lipidico della proteina C-reattiva e dell’adiponectina.
Dunque, secondo gli autori, la composizione corporea subisce cambiamenti positivi nella fase di remissione, ma il rischio cardiovascolare persiste almeno in parte.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22419708
J Clin Endocrinol Metab. 2012 Mar 14. [Epub ahead of print]
Body Composition and Cardiovascular Risk Markers after Remission of Cushing's Disease: A Prospective Study Using Whole-Body MRI.
Attività fisica e composizione corporea dopo bypass
Dopo un intervento di bypass gastrico (GBP), l’aumento dell’attività fisica sembra migliorare la composizione corporea.
In altri termini, la chirurgia bariatrica favorisce cambiamenti positivi dello stile di vita in una direzione dinamica con aumento dell’attività fisica che si correla con l’aumento della massa magra.
Tutto questo risulta da uno studio francese nel quale sono stati coinvolti 86 pazienti obesi (67 donne, 24-66 anni, con BMI da 41,3 a 53,5 kg / m2). In tutti gli arruolati sono stati indagati l’attività fisica, il tempo trascorso a guardare la TV (self-report), e la composizione corporea (DXA) sia prima che dopo 6 e 12 mesi dall’intervento di GBP.
Un anno dopo GBP (in media la perdita di peso -37,1 kg, -25.7 kg massa grassa, massa magra del corpo -9,4 kg), l'attività fisica nel tempo libero (LTPA) era aumentata significativamente dal 2,0 (SD 3,7) a 3,8 (5,4) h/settimana e da 7.2 (12.5) al 14.1 (20.1) MET-h/settimana (MET: attività metabolica equivalente), e il tempo davanti la TV ridotto da 3,0 (1,6 ) a 2,4 (1,4) h/giorno (tutti p <0,05).
In sintesi, associazioni positive sono state osservate tra l'aumento della massa magra e l'aumento di LTPA abbinati alla riduzione del tempo trascorso a guardare la TV. Al contrario, relazioni inverse sono state osservate nei cambiamenti della massa grassa.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22351039
Obes Surg. 2012 Feb 19. [Epub ahead of print]
Dynamic Relations Between Sedentary Behavior, Physical Activity, and Body Composition After Bariatric Surgery.
In altri termini, la chirurgia bariatrica favorisce cambiamenti positivi dello stile di vita in una direzione dinamica con aumento dell’attività fisica che si correla con l’aumento della massa magra.
Tutto questo risulta da uno studio francese nel quale sono stati coinvolti 86 pazienti obesi (67 donne, 24-66 anni, con BMI da 41,3 a 53,5 kg / m2). In tutti gli arruolati sono stati indagati l’attività fisica, il tempo trascorso a guardare la TV (self-report), e la composizione corporea (DXA) sia prima che dopo 6 e 12 mesi dall’intervento di GBP.
Un anno dopo GBP (in media la perdita di peso -37,1 kg, -25.7 kg massa grassa, massa magra del corpo -9,4 kg), l'attività fisica nel tempo libero (LTPA) era aumentata significativamente dal 2,0 (SD 3,7) a 3,8 (5,4) h/settimana e da 7.2 (12.5) al 14.1 (20.1) MET-h/settimana (MET: attività metabolica equivalente), e il tempo davanti la TV ridotto da 3,0 (1,6 ) a 2,4 (1,4) h/giorno (tutti p <0,05).
In sintesi, associazioni positive sono state osservate tra l'aumento della massa magra e l'aumento di LTPA abbinati alla riduzione del tempo trascorso a guardare la TV. Al contrario, relazioni inverse sono state osservate nei cambiamenti della massa grassa.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22351039
Obes Surg. 2012 Feb 19. [Epub ahead of print]
Dynamic Relations Between Sedentary Behavior, Physical Activity, and Body Composition After Bariatric Surgery.
I prematuri avranno più massa grassa
I neonati prematuri potrebbero essere maggiormente esposti al rischio di malattie cardiovascolari in età più avanzata.
Alcuni ricercatori olandesi hanno evidenziato che l’effetto della prematurità alla nascita potrebbe influire nel lungo termine sul rischio d’insorgenza di alcune patologie. In particolare, hanno condotto uno studio su un totale di 455 soggetti sani dai 18 ai 24 anni. Di questi 167 erano nati pretermine e 288 a termine.
In tutti i giovani partecipanti venivano rilevati la massa magra, la massa grassa totale e del tronco (DEXA) e il quadro lipidico plasmatico (colesterolo totale, LDL, trigliceridi, apolipoproteina B, lipoproteina (a), HDL, e l'apolipoproteina A-I). Si è così dimostrato che i soggetti nati pretermine, mostravano, in percentuale, una massa grassa totale, del tronco e degli arti, significativamente più elevata rispetto ai nati a termine.
Inoltre, sempre i soggetti nati prematuri mostravano livelli più bassi della lipoproteina (a) e più elevati apolipoproteina A-I rispetto ai soggetti nati a termine. Gli autori ritengono, dunque, che in questa coorte di 455 giovani adulti, la nascita pretermine sia risultata associata a un complessivo aumento della massa grassa anche se il profilo lipidico era relativamente favorevole.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22399507
J Clin Endocrinol Metab. 2012 Mar 7. [Epub ahead of print]
Fat Mass and Lipid Profile in Young Adults Born Preterm.
Alcuni ricercatori olandesi hanno evidenziato che l’effetto della prematurità alla nascita potrebbe influire nel lungo termine sul rischio d’insorgenza di alcune patologie. In particolare, hanno condotto uno studio su un totale di 455 soggetti sani dai 18 ai 24 anni. Di questi 167 erano nati pretermine e 288 a termine.
In tutti i giovani partecipanti venivano rilevati la massa magra, la massa grassa totale e del tronco (DEXA) e il quadro lipidico plasmatico (colesterolo totale, LDL, trigliceridi, apolipoproteina B, lipoproteina (a), HDL, e l'apolipoproteina A-I). Si è così dimostrato che i soggetti nati pretermine, mostravano, in percentuale, una massa grassa totale, del tronco e degli arti, significativamente più elevata rispetto ai nati a termine.
Inoltre, sempre i soggetti nati prematuri mostravano livelli più bassi della lipoproteina (a) e più elevati apolipoproteina A-I rispetto ai soggetti nati a termine. Gli autori ritengono, dunque, che in questa coorte di 455 giovani adulti, la nascita pretermine sia risultata associata a un complessivo aumento della massa grassa anche se il profilo lipidico era relativamente favorevole.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22399507
J Clin Endocrinol Metab. 2012 Mar 7. [Epub ahead of print]
Fat Mass and Lipid Profile in Young Adults Born Preterm.
Zucchero, pericoloso come alcol e tabacco
Un recente studio pubblicato sulla rivista "Nature" documenta l'abuso di questo alimento, dimostrandone l’estrema pericolosità.
Lo zucchero, onnipresente nella dieta, non è infatti una semplice fonte di “calorie vuote”, prive cioè di alcun valore nutrizionale, ma sarebbe addiruttura un alimento tossico.
Il consumo di zucchero sembra essere triplicato negli ultimi 50 anni.
Lo zucchero è infatti il “carburante” della pandemia globale dell’obesità e contribuirebbe all’insorgenza delle più comuni malattie non trasmissibili quali diabete, patologie cardiovascolari e cancro.
Diversamente da come si ritiene, lo zucchero non fa solamente ingrassare, il suo abuso è in grado di alterare il metabolismo, la pressione sanguigna, la risposta agli ormoni ed è causa di danno al fegato. Questi effetti deleteri ricordano molto gli effetti causati dal consumo eccessivo di alcol.
A detta dei ricercatori sarebbero necessarie campagne di sensibilizzazion pubblica che scoraggino l’abuso di zucchero puntando sui suoi effetti deleteri sulla salute, proprio come avviene nei messaggi anti-tabacco. Attraverso l’informazione sanitaria e ricorrendo ad eventuali tassazioni e regolmentazioni sulla vendità di prodotti zuccherati, sarebbe possibile limitarne il consumo, principalmente nelle fasce più giovani della popolazione.
Il messaggio anti-zucchero lanciato dai ricercatori sembra avere toni proibizionistici, ma gli autori dello studio spiegano che solo rendendo meno conveniente il suo consumo sarà possibile evitare il consumo di dosi eccessive, favoriendo allo stesso tempo scelte alimentari più salutari.
Fonte: Robert H. Lustig, Laura A. Schmidt, Claire D. Brindis. Public health: The toxic truth about sugar. Nature, 2012; 482 (7383): 27
Lo zucchero, onnipresente nella dieta, non è infatti una semplice fonte di “calorie vuote”, prive cioè di alcun valore nutrizionale, ma sarebbe addiruttura un alimento tossico.
Il consumo di zucchero sembra essere triplicato negli ultimi 50 anni.
Lo zucchero è infatti il “carburante” della pandemia globale dell’obesità e contribuirebbe all’insorgenza delle più comuni malattie non trasmissibili quali diabete, patologie cardiovascolari e cancro.
Diversamente da come si ritiene, lo zucchero non fa solamente ingrassare, il suo abuso è in grado di alterare il metabolismo, la pressione sanguigna, la risposta agli ormoni ed è causa di danno al fegato. Questi effetti deleteri ricordano molto gli effetti causati dal consumo eccessivo di alcol.
A detta dei ricercatori sarebbero necessarie campagne di sensibilizzazion pubblica che scoraggino l’abuso di zucchero puntando sui suoi effetti deleteri sulla salute, proprio come avviene nei messaggi anti-tabacco. Attraverso l’informazione sanitaria e ricorrendo ad eventuali tassazioni e regolmentazioni sulla vendità di prodotti zuccherati, sarebbe possibile limitarne il consumo, principalmente nelle fasce più giovani della popolazione.
Il messaggio anti-zucchero lanciato dai ricercatori sembra avere toni proibizionistici, ma gli autori dello studio spiegano che solo rendendo meno conveniente il suo consumo sarà possibile evitare il consumo di dosi eccessive, favoriendo allo stesso tempo scelte alimentari più salutari.
Fonte: Robert H. Lustig, Laura A. Schmidt, Claire D. Brindis. Public health: The toxic truth about sugar. Nature, 2012; 482 (7383): 27
Linee guida per l'autismo, l'alimentazione meno importante della terapia comportamentale
Nuove indicazioni provengono dall’Istituto Superiore di Sanità riguardo il trattamento dei bambini e degli adolescenti affetti da autismo
Le conoscenze sull’autismo sono in continua evoluzione, tuttavia numerosi aspetti non sono ancora del tutto chiari. Questo per via della complessa natura del disordine e la grande variabilità nell’espressione dei disturbi.
Secondo le nuove linee guida fornite dall’Istituto, gli interventi mediati dai genitori sarebbero efficaci nel promuovere la comunicazione e lo sviluppo sociale del bambino. Allo stesso modo, sembrano utili i programmi intensivi comportamentali.
Più cauto deve essere invece l’utilizzo di farmaci, per via dei possibili effetti collaterali, e comunque efficaci solo nella correzione dei sintomi quali irritabilità, iperattività e comportamenti stereotipati. Infine, la terapia comportamentale dovrebbe essere presa in considerazione per i soggetti con disturbi dello spettro autistico che presentano problemi del sonno.
Diversa è la posizione del documento sull’efficacia degli interventi alimentari. Secondo gli autori non sarebbero disponibili prove scientifiche sufficienti a formulare raccomandazioni sull’utilizzo di diete di escusione di caseina e/o glutine. I sintomi gastrointestinali che si presentano nei bambini e negli adolescenti con disturbi dello spettro autistico dovrebbero essere trattati nello stesso modo incui sono trattati nei coetanei normali.
Si raccomanda invece di effettuare consulenze specialistiche orientate adapprofondire e monitorare il quadro clinico nel caso di soggetti che manifestano una spiccata selettività per il cibo e comportamenti alimentari disfunzionali, o sottoposti a regime alimentare controllato con diete ristrette che possono avere un impatto negativo sulla crescita, o infine che manifestano sintomi fisici attribuibili a deficit nutrizionali o intolleranze.
Non sarebbero inoltre disponibili prove scientifiche sufficienti a formulare una raccomandazione sull’utilizzo degli integratori alimentari vitamina B6 e magnesio, e omega-3.
Autore: Istituto Superiore di Sanità
Fonte: Linee guida ISS
Le conoscenze sull’autismo sono in continua evoluzione, tuttavia numerosi aspetti non sono ancora del tutto chiari. Questo per via della complessa natura del disordine e la grande variabilità nell’espressione dei disturbi.
Secondo le nuove linee guida fornite dall’Istituto, gli interventi mediati dai genitori sarebbero efficaci nel promuovere la comunicazione e lo sviluppo sociale del bambino. Allo stesso modo, sembrano utili i programmi intensivi comportamentali.
Più cauto deve essere invece l’utilizzo di farmaci, per via dei possibili effetti collaterali, e comunque efficaci solo nella correzione dei sintomi quali irritabilità, iperattività e comportamenti stereotipati. Infine, la terapia comportamentale dovrebbe essere presa in considerazione per i soggetti con disturbi dello spettro autistico che presentano problemi del sonno.
Diversa è la posizione del documento sull’efficacia degli interventi alimentari. Secondo gli autori non sarebbero disponibili prove scientifiche sufficienti a formulare raccomandazioni sull’utilizzo di diete di escusione di caseina e/o glutine. I sintomi gastrointestinali che si presentano nei bambini e negli adolescenti con disturbi dello spettro autistico dovrebbero essere trattati nello stesso modo incui sono trattati nei coetanei normali.
Si raccomanda invece di effettuare consulenze specialistiche orientate adapprofondire e monitorare il quadro clinico nel caso di soggetti che manifestano una spiccata selettività per il cibo e comportamenti alimentari disfunzionali, o sottoposti a regime alimentare controllato con diete ristrette che possono avere un impatto negativo sulla crescita, o infine che manifestano sintomi fisici attribuibili a deficit nutrizionali o intolleranze.
Non sarebbero inoltre disponibili prove scientifiche sufficienti a formulare una raccomandazione sull’utilizzo degli integratori alimentari vitamina B6 e magnesio, e omega-3.
Autore: Istituto Superiore di Sanità
Fonte: Linee guida ISS
L'educazione non è mai abbastanza
Gli interventi educativi per ottenere un maggior consumo di frutta e verdura appaiono più efficaci sugli adolescenti quando le proposte informative sono più numerose.
Allo scopo d’indagare l’efficacia di differenti interventi educativi sono stati analizzati i risultati di 6 differenti componenti previste nei programmi educativi a 246 adolescenti americani (59% ispanici, il 70% da famiglie a basso reddito).
Le componenti proposte negli interventi educativi ai ragazzi erano: (1) lezioni in classe, (2) giardinaggio doposcuola, (3) percorsi informativi dalla fattoria alla scuola (4) visite degli agricoltori alle scuole (5) test del gusto, (6) gite dei ragazzi alle aziende agricole.
Al termine dell’indagine, analizzando i dati, si è evidenziato in sintesi che al confronto con gli studenti che sono stati esposti a meno di due componenti d’intervento, gli studenti che sono stati esposti a due o più componenti hanno ottenuto punteggi significativamente più elevati nei test per un maggior consumo di frutta e verdura e specie se le componenti aggiunte erano centrate sulle visite degli agricoltori alle scuole e sui laboratori del gusto.
E’ molto probabile, dunque, che anche nella clinica pratica quotidiana il counselling dei pazienti, quando riproposto con diverse modalità, divenga finalmente efficace.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22290584
Health Promot Pract. 2012 Jan 30. [Epub ahead of print]
Exposure to Multiple Components of a Garden-Based Intervention for Middle School Students Increases Fruit and Vegetable Consumption.
Allo scopo d’indagare l’efficacia di differenti interventi educativi sono stati analizzati i risultati di 6 differenti componenti previste nei programmi educativi a 246 adolescenti americani (59% ispanici, il 70% da famiglie a basso reddito).
Le componenti proposte negli interventi educativi ai ragazzi erano: (1) lezioni in classe, (2) giardinaggio doposcuola, (3) percorsi informativi dalla fattoria alla scuola (4) visite degli agricoltori alle scuole (5) test del gusto, (6) gite dei ragazzi alle aziende agricole.
Al termine dell’indagine, analizzando i dati, si è evidenziato in sintesi che al confronto con gli studenti che sono stati esposti a meno di due componenti d’intervento, gli studenti che sono stati esposti a due o più componenti hanno ottenuto punteggi significativamente più elevati nei test per un maggior consumo di frutta e verdura e specie se le componenti aggiunte erano centrate sulle visite degli agricoltori alle scuole e sui laboratori del gusto.
E’ molto probabile, dunque, che anche nella clinica pratica quotidiana il counselling dei pazienti, quando riproposto con diverse modalità, divenga finalmente efficace.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22290584
Health Promot Pract. 2012 Jan 30. [Epub ahead of print]
Exposure to Multiple Components of a Garden-Based Intervention for Middle School Students Increases Fruit and Vegetable Consumption.
La dieta ipocalorica riduce chili e rischio cardiovascolare
La terapia alimentare basata su diete ipocaloriche costituisce una strategia indicata per ottenere una rapida perdita di peso e il miglioramento dei fattori di rischio cardiovascolare.
Un recente studio ha dimostrare che modificando la composizione in carboidrati e grassi della dieta era possibile negli individui sovrappeso migliorare il metabolismo cardiaco, così come la sua struttura e funzione.
Il consumo della dieta ipocalorica, tipicamente impiegata nel trattamento dell’obesità, permetteva infatti di ridurre la massa ventricolare sinistra ed anche i valori della pressione sanguigna.
170 individui sovrappeso e obesi (indice di massa corporea medio 32.9±4.4; range, 26.5–45.4 kg/m2) sono stati assegnati casualmente, per un periodo di sei mesi, ad uno fra due regimi alimentari ipocalorici.
Al termine dello studio i soggetti destinati alla dieta a basso contenuto in carboidrati avevano perso in media 7.3±4.0 kg, mentre coloro assegnati al programma di restrizione dei grassi 6.2±4.2 kg.
Entrambe le diete ipocaloriche avevano determinato una riduzione simile della massa ventricolare sinistra (5.4±5.4 g), senza però provocare alterazioni nella funzione sistolica e diastolica del ventricolo destro. Entrambe le diete hanno permesso però di ridurre la pressione sanguigna sistolica nell’arco della giornata.
Dallo studio è emerso che la riduzione del peso corporeo e la percentuale di acidi grassi polinsaturi n-3 introdotti con la dieta erano predittori della modifica della massa ventricolare sinistra. Il consumo di grassi polinsaturi potrebbe avere un effetto benefico indipendente sulla massa ventricolare. Tuttavia, nel caso in cui sia preferibile una riduzione del colesterolo ematico, la dieta a basso contenuto in grassi è maggiormente indicata, mentre il regime ridotto in carboidrati è più corretto quando si voglia correggere la sensibilità all’insulina.
Entrambe le strategie, comunque, promuovono la perdita di peso e inducono miglioramenti della pressione sanguigna di simile misura, e sono quindi efficaci nella riduzione del rischio di patologia cardiaca cronica.
Fonte: Haufe S et al. Left Ventricular Mass and Function With Reduced-Fat or Reduced-Carbohydrate Hypocaloric Diets in Overweight and Obese Subjects Hypertension2012; 59: 70-75
Un recente studio ha dimostrare che modificando la composizione in carboidrati e grassi della dieta era possibile negli individui sovrappeso migliorare il metabolismo cardiaco, così come la sua struttura e funzione.
Il consumo della dieta ipocalorica, tipicamente impiegata nel trattamento dell’obesità, permetteva infatti di ridurre la massa ventricolare sinistra ed anche i valori della pressione sanguigna.
170 individui sovrappeso e obesi (indice di massa corporea medio 32.9±4.4; range, 26.5–45.4 kg/m2) sono stati assegnati casualmente, per un periodo di sei mesi, ad uno fra due regimi alimentari ipocalorici.
Al termine dello studio i soggetti destinati alla dieta a basso contenuto in carboidrati avevano perso in media 7.3±4.0 kg, mentre coloro assegnati al programma di restrizione dei grassi 6.2±4.2 kg.
Entrambe le diete ipocaloriche avevano determinato una riduzione simile della massa ventricolare sinistra (5.4±5.4 g), senza però provocare alterazioni nella funzione sistolica e diastolica del ventricolo destro. Entrambe le diete hanno permesso però di ridurre la pressione sanguigna sistolica nell’arco della giornata.
Dallo studio è emerso che la riduzione del peso corporeo e la percentuale di acidi grassi polinsaturi n-3 introdotti con la dieta erano predittori della modifica della massa ventricolare sinistra. Il consumo di grassi polinsaturi potrebbe avere un effetto benefico indipendente sulla massa ventricolare. Tuttavia, nel caso in cui sia preferibile una riduzione del colesterolo ematico, la dieta a basso contenuto in grassi è maggiormente indicata, mentre il regime ridotto in carboidrati è più corretto quando si voglia correggere la sensibilità all’insulina.
Entrambe le strategie, comunque, promuovono la perdita di peso e inducono miglioramenti della pressione sanguigna di simile misura, e sono quindi efficaci nella riduzione del rischio di patologia cardiaca cronica.
Fonte: Haufe S et al. Left Ventricular Mass and Function With Reduced-Fat or Reduced-Carbohydrate Hypocaloric Diets in Overweight and Obese Subjects Hypertension2012; 59: 70-75
Fosfato pericoloso per il rene
Il fosfato è sospettato promuovere l’insorgenza e la progressione delle nefropatie croniche e sembra interferire con le medicazioni utilizzate nell’insufficienza cronica
Nel paziente affetto da insufficienza renale cronica i reni non possono eliminare efficacemente le sostanze di scarto in eccesso nel sangue, tra queste il fosfato. In questa condizione il rene diviene sovraccarico di fosfato e si assiste alla progressione del danno funzionale.
Il pericolo, secondo gli esperti, sarebbe legato alla pressochè omnipresenza di questo elemento nella dieta (insaccati, surgelati, carne, formaggini). L'utilizzo del fosforo come addittivo alimentare inoltre determina infatti un consumo spesso eccessivo rispetto al suo reale fabbisogno giornaliero, che è di 1 grammo al giorno.
I ricercatori della Clinica di Epidemiologia e Patofisiologia delle Malattie Renali e dell’Ipertensione di Reggio Calabra hanno recentemente investigato in quale misura l’overload di fosfato danneggi i reni.
Il team, ha inoltre valutato l’impatto di questa condizione sull’efficacia del farmaco ramipril, un ACE-inibitore utilizzato nel trattamento standard della malattia renale.
I ricercatori hanno studiato 331 pazienti con insufficienza cronica, suddivisi in quattro categorie sulla base dei livelli di fosfato rilevati nel sangue.
I risultati dello studio, pubblicati sul Journal of the American Society Nephrology hanno mostrato che, pur in presenza di concentrazioni plasmatiche di fosfato normali o quasi normali, i pazienti inclusi nelle due categorie superiori progredivano più rapidamente verso la disfunzione renale. In aggiunta, in questi pazienti si assisteva ad una riduzione dell’efficacia del farmaco.
Secondo gli autori, lo studio ha fornito un’importante evidenza per cui sarebbe possibile stimare quali soggetti affetti da insufficienza renale cronica siano maggiormente a rischio di incorrere nella totale perdita della funzione renale. La misura delle concentrazioni di fosfato costituirebbe anche un valido indicatore per valutare la corretta risposta ai farmaci.
Studi futuri dovranno infatti valutare se la riduzione dei livelli di del fosfato attraverso al dieta o farmaci può favorire il recupero della funzionalità renale e migliorare la risposta ai trattamenti.
Fonte: Zoccali C, Ruggenenti P, Perna A et al.Phosphate may promote CKD progression and attenuate renoprotective effect of ACE inhibition.J Am Soc Nephrol.
Nel paziente affetto da insufficienza renale cronica i reni non possono eliminare efficacemente le sostanze di scarto in eccesso nel sangue, tra queste il fosfato. In questa condizione il rene diviene sovraccarico di fosfato e si assiste alla progressione del danno funzionale.
Il pericolo, secondo gli esperti, sarebbe legato alla pressochè omnipresenza di questo elemento nella dieta (insaccati, surgelati, carne, formaggini). L'utilizzo del fosforo come addittivo alimentare inoltre determina infatti un consumo spesso eccessivo rispetto al suo reale fabbisogno giornaliero, che è di 1 grammo al giorno.
I ricercatori della Clinica di Epidemiologia e Patofisiologia delle Malattie Renali e dell’Ipertensione di Reggio Calabra hanno recentemente investigato in quale misura l’overload di fosfato danneggi i reni.
Il team, ha inoltre valutato l’impatto di questa condizione sull’efficacia del farmaco ramipril, un ACE-inibitore utilizzato nel trattamento standard della malattia renale.
I ricercatori hanno studiato 331 pazienti con insufficienza cronica, suddivisi in quattro categorie sulla base dei livelli di fosfato rilevati nel sangue.
I risultati dello studio, pubblicati sul Journal of the American Society Nephrology hanno mostrato che, pur in presenza di concentrazioni plasmatiche di fosfato normali o quasi normali, i pazienti inclusi nelle due categorie superiori progredivano più rapidamente verso la disfunzione renale. In aggiunta, in questi pazienti si assisteva ad una riduzione dell’efficacia del farmaco.
Secondo gli autori, lo studio ha fornito un’importante evidenza per cui sarebbe possibile stimare quali soggetti affetti da insufficienza renale cronica siano maggiormente a rischio di incorrere nella totale perdita della funzione renale. La misura delle concentrazioni di fosfato costituirebbe anche un valido indicatore per valutare la corretta risposta ai farmaci.
Studi futuri dovranno infatti valutare se la riduzione dei livelli di del fosfato attraverso al dieta o farmaci può favorire il recupero della funzionalità renale e migliorare la risposta ai trattamenti.
Fonte: Zoccali C, Ruggenenti P, Perna A et al.Phosphate may promote CKD progression and attenuate renoprotective effect of ACE inhibition.J Am Soc Nephrol.
Le calorie di troppo fanno male anche alla testa
Il consumo eccessivo di calorie giornaliere può accelerare la progressione della demenza senile
È questo il messaggio lanciato dal Prof. Yonas E. Geda della Mayo Clinic in Scottsdale, Arizona, in uno studio che ha dimostrato che l’assunzione di una quantità eccessiva di calorie può mettere a repentaglio le facoltà intellettive degli ultrasettantenni.
La demenza senile è una condizione caratterizzata dalla progressiva perdita di lucidità e della memoria a breve termine che può variare da un lieve disabilità intellettiva fino ad uno stato di non-autosufficienza conosciuto come malattia di Alzheimer.
Lo studio ha indicato che il consumo di una quantità compresa tra 2.100 e 6.000 calorie giornaliere potrebbe addirittura raddoppiare negli anziani il rischio di progredire verso lo stato di deficit intellettivo.
L’analisi ha coinvolto 1233 individui di entrambi i sessi di età compresa tra 70 e 89 anni i quali hanno riportato il proprio consumo di calorie attraverso questionari autosomministrati.
In questo modo è stato possibile suddividere i partecipanti in tre categorie di assunzione calorica: da 600 a 1,526 cal/die, da 1,526 a 2,143 cal/die ed infine da 2,143 a 6,000 cal/die.
I ricercatori hanno notato un tipico pattern dose-risposta tra l’assunzione di calorie e la comparsa tra i sintomi caratteristici dell’invecchiamento cerebrale. Analizzato i dati è emerso che la probabilità di sviluppare deficit cognitivi era almeno due volte superiore nel gruppo a più elevata assunzione calorica rispetto a coloro inclusi nel categoria più bassa. La relazione non veniva influenzata in seguito a correzione per precedenti episodi di ictus, presenza di diabete e livello di istruzione.
È necessario dunque moderare il consumo di alimenti ipercalorici per prevenire i sintomi della demenza senile. Questi risultati, pur essendo preliminari, puntano sull’importanza di un’alimentazione sana non solo per proteggere organi come il cuore e il fegato ma anche la salute mentale.
I dati dello studio non devono tuttavia sorprendere. Precedenti pubblicazioni hanno infatti indicato l’effetto protettivo esercitato della dieta mediterranea sulla progressione della malattia di Alzheimer. Alimentazione sana ed esercizio fisico rappresentano due componenti indispensabili per la prevenzione di questa malattia eeurodegenerativa e sono anche importanti elementi per tenere sotto controllo il diabete, una condizione direttamente implicata nella progressione del danno cerebrale.
Fonte : American Academy of Neurology (AAN) 64th Annual Meeting: Abstract 3431. April 21 - 28, 2012.
È questo il messaggio lanciato dal Prof. Yonas E. Geda della Mayo Clinic in Scottsdale, Arizona, in uno studio che ha dimostrato che l’assunzione di una quantità eccessiva di calorie può mettere a repentaglio le facoltà intellettive degli ultrasettantenni.
La demenza senile è una condizione caratterizzata dalla progressiva perdita di lucidità e della memoria a breve termine che può variare da un lieve disabilità intellettiva fino ad uno stato di non-autosufficienza conosciuto come malattia di Alzheimer.
Lo studio ha indicato che il consumo di una quantità compresa tra 2.100 e 6.000 calorie giornaliere potrebbe addirittura raddoppiare negli anziani il rischio di progredire verso lo stato di deficit intellettivo.
L’analisi ha coinvolto 1233 individui di entrambi i sessi di età compresa tra 70 e 89 anni i quali hanno riportato il proprio consumo di calorie attraverso questionari autosomministrati.
In questo modo è stato possibile suddividere i partecipanti in tre categorie di assunzione calorica: da 600 a 1,526 cal/die, da 1,526 a 2,143 cal/die ed infine da 2,143 a 6,000 cal/die.
I ricercatori hanno notato un tipico pattern dose-risposta tra l’assunzione di calorie e la comparsa tra i sintomi caratteristici dell’invecchiamento cerebrale. Analizzato i dati è emerso che la probabilità di sviluppare deficit cognitivi era almeno due volte superiore nel gruppo a più elevata assunzione calorica rispetto a coloro inclusi nel categoria più bassa. La relazione non veniva influenzata in seguito a correzione per precedenti episodi di ictus, presenza di diabete e livello di istruzione.
È necessario dunque moderare il consumo di alimenti ipercalorici per prevenire i sintomi della demenza senile. Questi risultati, pur essendo preliminari, puntano sull’importanza di un’alimentazione sana non solo per proteggere organi come il cuore e il fegato ma anche la salute mentale.
I dati dello studio non devono tuttavia sorprendere. Precedenti pubblicazioni hanno infatti indicato l’effetto protettivo esercitato della dieta mediterranea sulla progressione della malattia di Alzheimer. Alimentazione sana ed esercizio fisico rappresentano due componenti indispensabili per la prevenzione di questa malattia eeurodegenerativa e sono anche importanti elementi per tenere sotto controllo il diabete, una condizione direttamente implicata nella progressione del danno cerebrale.
Fonte : American Academy of Neurology (AAN) 64th Annual Meeting: Abstract 3431. April 21 - 28, 2012.
Flavonoidi e rischio ictus
Sembra che l’assunzione di una maggiore quantità di flavonoidi provenienti dalla frutta possa avere un effetto protettivo nei confronti dell’ictus.
Ad oggi, pochi studi hanno esaminato le associazioni tra la vasta gamma di sottoclassi di flavonoidi e rischio di ictus ischemico, emorragico, e totale. In proposito alcuni ricercatori americani in collaborazione con un gruppo di italiani hanno condotto uno studio prospettico utilizzando i dati del Nurses 'Health study che riguardano 69.622 donne.
I dati sui consumi alimentari erano stati rilevati ogni 4 anni utilizzando un FFQ che analizzava in particolare la quantità di flavonoidi consumati. In 14 anni di follow-up, l'incidenza degli ictus è stata di 1803 nuovi casi confermati. Dopo aggiustamento per i potenziali fattori confondenti, in sintesi, si è visto che le donne con i consumi più elevati di flavonoidi (agrumi e succhi di frutta) mostravano un rischio relativo inferiore per l’insorgenza di ictus, rispetto alle donne con consumi minori.
Più in particolare, una maggiore assunzione di flavonone (agrumi) è stata associata a una riduzione del rischio di ictus ischemico.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22363060
Stroke. 2012 Feb 23. [Epub ahead of print]
Dietary Flavonoids and Risk of Stroke in Women.
Ad oggi, pochi studi hanno esaminato le associazioni tra la vasta gamma di sottoclassi di flavonoidi e rischio di ictus ischemico, emorragico, e totale. In proposito alcuni ricercatori americani in collaborazione con un gruppo di italiani hanno condotto uno studio prospettico utilizzando i dati del Nurses 'Health study che riguardano 69.622 donne.
I dati sui consumi alimentari erano stati rilevati ogni 4 anni utilizzando un FFQ che analizzava in particolare la quantità di flavonoidi consumati. In 14 anni di follow-up, l'incidenza degli ictus è stata di 1803 nuovi casi confermati. Dopo aggiustamento per i potenziali fattori confondenti, in sintesi, si è visto che le donne con i consumi più elevati di flavonoidi (agrumi e succhi di frutta) mostravano un rischio relativo inferiore per l’insorgenza di ictus, rispetto alle donne con consumi minori.
Più in particolare, una maggiore assunzione di flavonone (agrumi) è stata associata a una riduzione del rischio di ictus ischemico.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22363060
Stroke. 2012 Feb 23. [Epub ahead of print]
Dietary Flavonoids and Risk of Stroke in Women.
Zucchero e bambini
Più precisamente si evidenzia nel brief report del NCHS (Centro Nazionale per la Salute sezione Statistics) in accordo coi risultati dello studio di sorveglianza noto con l’acronimo NHANES (National Health and Nutrition Examination Survey) che ha raccolto i dati dei consumi dal 2005 al 2008 che i ragazzi consumavano 362 calorie da zuccheri aggiunti, mentre le ragazze 262 calorie. Tra l’altro, sia i ragazzi, sia le ragazze mostravano un intake calorico da zuccheri aggiunti con una tendenza lineare in aumento consensuale con l’età.
A parte le considerazioni sulle differenze socio-culturali e sull’etnia, si è visto che il maggior consumo di zucchero aggiunto derivava dai cibi piuttosto che dalle bibite. E la maggior parte dei cibi dolci veniva consumata in casa. Ciò che più preoccupa i ricercatori del CDC è il fatto che i consumi di grassi solidi e zuccheri aggiunti è sempre troppo elevato rispetto alle raccomandazioni delle Linee Guida per la popolazione americana aggiornate nel 2010.
Dunque, se gli americani sono preoccupati per questi eccessivi consumi dato il costante aumento dell’obesità, è bene che si cominci anche nel nostro Paese una lotta fattiva. Per cominciare le indagini sui consumi alimentari dei nostri pazienti vanno condotte con accuratezza e precisione.
Fonte:
http://www.medscape.com/viewarticle/759400
Kids Still Eating Too Much Added Sugar
A parte le considerazioni sulle differenze socio-culturali e sull’etnia, si è visto che il maggior consumo di zucchero aggiunto derivava dai cibi piuttosto che dalle bibite. E la maggior parte dei cibi dolci veniva consumata in casa. Ciò che più preoccupa i ricercatori del CDC è il fatto che i consumi di grassi solidi e zuccheri aggiunti è sempre troppo elevato rispetto alle raccomandazioni delle Linee Guida per la popolazione americana aggiornate nel 2010.
Dunque, se gli americani sono preoccupati per questi eccessivi consumi dato il costante aumento dell’obesità, è bene che si cominci anche nel nostro Paese una lotta fattiva. Per cominciare le indagini sui consumi alimentari dei nostri pazienti vanno condotte con accuratezza e precisione.
Fonte:
http://www.medscape.com/viewarticle/759400
Kids Still Eating Too Much Added Sugar
Acidi grassi polinsaturi e funzioni cerebrali
Nelle donne, i livelli inferiori di acidi grassi polinsaturi, misurati nei globuli rossi, sono associati a un modello vascolare di deterioramento cognitivo.
Questo nella sostanza il risultato di uno studio che ha ripreso i dati relativi a una coorte di soggetti adulti over60 e liberi da demenza (n = 1575, 854 donne, età 67 ± 9 anni) tra i partecipanti al Framingham. Si procedeva selezionando 4 cluster (modelli) secondo le prestazioni mostrate nei test cognitivi correlate alle dimensioni cerebrali.
Il modello A comprendeva i dati età, sesso, grado d’istruzione. Nel modello B si aggiungevano le determinazioni plasmatiche di APOE ε4 e di omocisteina.Il modello C aggiungeva l’attività fisica e il BMI, e nel modello D si aggiungevano gli altri fattori di rischio cardiovascolare. All'analisi multivariata dei dati disponibili si è così dimostrato che i soggetti con un indice ω-3 inferiore nei globuli rossi (RBC - DHA + EPA) avevano avuto punteggi più bassi nei test di memoria visiva, funzione esecutiva, e pensiero astratto specie nel modello A, ma i risultati rimanevano significativi in tutti i modelli.
Gli autori ritengono, dunque, che questa analisi abbia evidenziato un deterioramento cerebrale a livello cognitivo, correlato all’indice ω-3 nei globuli rossi e, soprattutto, in donne libere da demenza. Un motivo in più per accertare accuratamente la frequenza dei consumi alimentari abituali, prima di programmare una piano dietetico correttivo e preventivo, specie se si tratta di prevenire gli effetti dell’invecchiamento cerebrale.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22371413
Neurology. 2012 Feb 28;78(9):658-64.
Red blood cell omega-3 fatty acid levels and markers of accelerated brain aging.
Questo nella sostanza il risultato di uno studio che ha ripreso i dati relativi a una coorte di soggetti adulti over60 e liberi da demenza (n = 1575, 854 donne, età 67 ± 9 anni) tra i partecipanti al Framingham. Si procedeva selezionando 4 cluster (modelli) secondo le prestazioni mostrate nei test cognitivi correlate alle dimensioni cerebrali.
Il modello A comprendeva i dati età, sesso, grado d’istruzione. Nel modello B si aggiungevano le determinazioni plasmatiche di APOE ε4 e di omocisteina.Il modello C aggiungeva l’attività fisica e il BMI, e nel modello D si aggiungevano gli altri fattori di rischio cardiovascolare. All'analisi multivariata dei dati disponibili si è così dimostrato che i soggetti con un indice ω-3 inferiore nei globuli rossi (RBC - DHA + EPA) avevano avuto punteggi più bassi nei test di memoria visiva, funzione esecutiva, e pensiero astratto specie nel modello A, ma i risultati rimanevano significativi in tutti i modelli.
Gli autori ritengono, dunque, che questa analisi abbia evidenziato un deterioramento cerebrale a livello cognitivo, correlato all’indice ω-3 nei globuli rossi e, soprattutto, in donne libere da demenza. Un motivo in più per accertare accuratamente la frequenza dei consumi alimentari abituali, prima di programmare una piano dietetico correttivo e preventivo, specie se si tratta di prevenire gli effetti dell’invecchiamento cerebrale.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22371413
Neurology. 2012 Feb 28;78(9):658-64.
Red blood cell omega-3 fatty acid levels and markers of accelerated brain aging.
Adiposità addominale, primo fattore di rischio nell'ictus
La presenza di eccessivi depositi adiposi addominali rappresenta il principale fattore di rischio per l’ictus, a cui si sommano diabete, fumo e ipertensione
L’ictus ischemico cerebrale rappresenta la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e cancro ed è causa di invalidità e progressiva demenza. La patologia si manifesta prevalentemente dopo i 65 anni, con un’incidenza massima oltre gli ottant’anni. La vasculopatia aterosclerotica rappresenta il meccanismo patogenico che determina l’occlusione dei vasi di maggiore e medio calibro e quindi gli eventi vascolari cerebrali.
La patologia presenta fattori di rischio non modificabili quali età, ipertensione, diabete e in misura minore le dislipidemie, ma esistono fattori decisamente controllabili ed attenuabili come il fumo, la sedentarietà e il sovrappeso.
La distribuzione del grasso corporeo merita speciale attenzione. In particolare, l’adiposità addominale è considerata il principale fattore di rischio per gli accidenti cerebrovascolari.
Il sesso maschile costituisce di per sè un fattore rischio. Una spiegazione risiede nel tipico profilo dell'obesità androide, in cui il tessuto adiposo viene accumulato principalmente a livello dell’addome. Il grasso viscerale è infatti ritenuto metabolicamente più attivo rispetto ad altri depositi corporei e dunque responsabile della presenza di liveli anomali di acidi grassi nella circolazione sanguigna. Inoltre, il tessuto adiposo viscerale possiede caratteristiche di un organo endocrino e le sue cellule producono citochine proinfiammatorie che determinano uno stato di infiammazione cronica dei tessuti. Proprio questi meccanismi favoriscono l’insorgenza della resistenza all'insulina e contribuscono al meccanismo aterogenico.
Al contrario, nell'obesità ginoide, tipica della donna, l’adiposità è principalmente concentrata attorno ai fianchi. Questa situazione sembra esercitare un ruolo protettivo sul rischio cardiovascolare. Tale effetto sarebbe riconducibile ad una maggiore attività degli enzimi lipoproteina lipasi di questo tessuto, da cui dipende la capacità di accumulo degli acidi grassi liberi all’interno delle cellule.
Diverse tecniche diagnostiche permettono di valutare il grado di adiposità regionale. I principali metodi antropometrici non invasivi comprendono la misurazione della circonferenza in vita, il rapporto vita fianchi e la plicometria. La misura diretta dell’adiposità addominale si basa invece sulle tecniche di tomografia computerizzata o Dual-energy x-ray absorptiometry (DEXA).
L’adiposità regionale misurata attraverso DEXA risulta più informativa rispetto al calcolo della massa grassa totale e all’indice di massa corporea (BMI) e correla più fortemente con l'esistenza di ipertensione, dislipidemie e diabete mellito. Un’altra misura indiretta, il rapporto della circonferenza vita-fianchi, rappresenta il parametro antropometrico che meglio descrive l’esistenza di fattori di rischio cardiovascolari.
Nel presente studio è stato analizzato un gruppo di 2751 pazienti di entrambi i sessi di età superiore o uguale a 40 anni, ricercando l’associazione tra distribuzione regionale del grasso corporeo e l’indicenza di colpi apoplettici.
Le misurazioni dell’adiposità addominale, ai fianchi e totale sono state effettuate all’inizio dello studio attraverso DEXA.
Dopo un follow-up di 8 anni e 9 mesi, si sono verificati 91 casi di ictus. Fra tutti gli indici di adiposità, quello addominale è emerso quale stimatore che correlava in misura più forte con l'incideza di eventi ischemici. Il rapporto tra adiposità ginoide e totale correlava invece con un livello di rischio inferiore. Le associazioni tra grasso addominale e ictus rimanevano significative per entrambi i sessi dopo le correzioni per i valori individuali di BMI.
Di nota, l’analisi di un sottogruppo di partecipanti ha rivelato che il contenuto in grasso addominale perdeva significatività in seguito alla correzione per la presenza di fattori di rischio tradizionali come diabete, fumo e ipertensione. Questo suggerisce che il rischio di ictus secondario ad un eccesso di massa grassa addominale è in parte mediato da fattori di rischio tradizionali.
Il contenuto in grasso addominale e il rapporto tra il contenuto addominale e quello ginoide sarebbero dunque i parametri più indicativi di rischio cardiovascolare. Questo dato è confermato dall'osservazione che la riduzione del rischio cardiovascolare promosso dall’attività fisica e dagli interventi alimentari dipende principalmente dalla riduzione della massa grassa addominale, piuttosto che di altri depositi regionali.
Autore: F Toss, P Wiklund, P W Franks, M Eriksson, Y Gustafson, G Hallmans, P Nordström and A Nordström
Fonte: International Journal of Obesity (2011) 35, 1427–1432; doi:10.1038/ijo.2011.9; Abdominal and gynoid adiposity and the risk of stroke
L’ictus ischemico cerebrale rappresenta la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e cancro ed è causa di invalidità e progressiva demenza. La patologia si manifesta prevalentemente dopo i 65 anni, con un’incidenza massima oltre gli ottant’anni. La vasculopatia aterosclerotica rappresenta il meccanismo patogenico che determina l’occlusione dei vasi di maggiore e medio calibro e quindi gli eventi vascolari cerebrali.
La patologia presenta fattori di rischio non modificabili quali età, ipertensione, diabete e in misura minore le dislipidemie, ma esistono fattori decisamente controllabili ed attenuabili come il fumo, la sedentarietà e il sovrappeso.
La distribuzione del grasso corporeo merita speciale attenzione. In particolare, l’adiposità addominale è considerata il principale fattore di rischio per gli accidenti cerebrovascolari.
Il sesso maschile costituisce di per sè un fattore rischio. Una spiegazione risiede nel tipico profilo dell'obesità androide, in cui il tessuto adiposo viene accumulato principalmente a livello dell’addome. Il grasso viscerale è infatti ritenuto metabolicamente più attivo rispetto ad altri depositi corporei e dunque responsabile della presenza di liveli anomali di acidi grassi nella circolazione sanguigna. Inoltre, il tessuto adiposo viscerale possiede caratteristiche di un organo endocrino e le sue cellule producono citochine proinfiammatorie che determinano uno stato di infiammazione cronica dei tessuti. Proprio questi meccanismi favoriscono l’insorgenza della resistenza all'insulina e contribuscono al meccanismo aterogenico.
Al contrario, nell'obesità ginoide, tipica della donna, l’adiposità è principalmente concentrata attorno ai fianchi. Questa situazione sembra esercitare un ruolo protettivo sul rischio cardiovascolare. Tale effetto sarebbe riconducibile ad una maggiore attività degli enzimi lipoproteina lipasi di questo tessuto, da cui dipende la capacità di accumulo degli acidi grassi liberi all’interno delle cellule.
Diverse tecniche diagnostiche permettono di valutare il grado di adiposità regionale. I principali metodi antropometrici non invasivi comprendono la misurazione della circonferenza in vita, il rapporto vita fianchi e la plicometria. La misura diretta dell’adiposità addominale si basa invece sulle tecniche di tomografia computerizzata o Dual-energy x-ray absorptiometry (DEXA).
L’adiposità regionale misurata attraverso DEXA risulta più informativa rispetto al calcolo della massa grassa totale e all’indice di massa corporea (BMI) e correla più fortemente con l'esistenza di ipertensione, dislipidemie e diabete mellito. Un’altra misura indiretta, il rapporto della circonferenza vita-fianchi, rappresenta il parametro antropometrico che meglio descrive l’esistenza di fattori di rischio cardiovascolari.
Nel presente studio è stato analizzato un gruppo di 2751 pazienti di entrambi i sessi di età superiore o uguale a 40 anni, ricercando l’associazione tra distribuzione regionale del grasso corporeo e l’indicenza di colpi apoplettici.
Le misurazioni dell’adiposità addominale, ai fianchi e totale sono state effettuate all’inizio dello studio attraverso DEXA.
Dopo un follow-up di 8 anni e 9 mesi, si sono verificati 91 casi di ictus. Fra tutti gli indici di adiposità, quello addominale è emerso quale stimatore che correlava in misura più forte con l'incideza di eventi ischemici. Il rapporto tra adiposità ginoide e totale correlava invece con un livello di rischio inferiore. Le associazioni tra grasso addominale e ictus rimanevano significative per entrambi i sessi dopo le correzioni per i valori individuali di BMI.
Di nota, l’analisi di un sottogruppo di partecipanti ha rivelato che il contenuto in grasso addominale perdeva significatività in seguito alla correzione per la presenza di fattori di rischio tradizionali come diabete, fumo e ipertensione. Questo suggerisce che il rischio di ictus secondario ad un eccesso di massa grassa addominale è in parte mediato da fattori di rischio tradizionali.
Il contenuto in grasso addominale e il rapporto tra il contenuto addominale e quello ginoide sarebbero dunque i parametri più indicativi di rischio cardiovascolare. Questo dato è confermato dall'osservazione che la riduzione del rischio cardiovascolare promosso dall’attività fisica e dagli interventi alimentari dipende principalmente dalla riduzione della massa grassa addominale, piuttosto che di altri depositi regionali.
Autore: F Toss, P Wiklund, P W Franks, M Eriksson, Y Gustafson, G Hallmans, P Nordström and A Nordström
Fonte: International Journal of Obesity (2011) 35, 1427–1432; doi:10.1038/ijo.2011.9; Abdominal and gynoid adiposity and the risk of stroke
Misura diretta dell'adiposità, indispensabile per valutare il rischio metabolico
L’analisi della composizione corporea predice l’esistenza del rischio cardiometabolico con maggiore precisione rispetto al BMI
L’evidenza è “nostrana” e avverte sul corretto utilizzo degli indicatori antropometrici per la valutazione del rischio metabolico legato ad un'eccesso di grasso corporeo.
Un recente studio, condotto su un campione di quasi 4500 individui del centro-sud Italia ha infatti rivelato una corrispondenza decisamente scarsa tra le categorie di salute definite in base ai valori dell’indice di massa corporea (BMI) e a quelli derivanti dall’analisi della composizione corporea.
La misura diretta dell’adisposità corporea, eseguibile mediante la tecnica di Dual X-ray Absorptiometry (DXA) o attraverso biompedenziometria, fornisce preziose informazioni cliniche - quali massa grassa totale e massa magra e percentuale di grasso corporeo - non altrimenti estraibili dal calcolo del BMI.
Del resto, non tutto il grasso corporeo è deleterio in misura uguale. L’accumulo adiposo addominale, ad esempio, costituisce la forma più pericolosa di obesità e rappresenta il principale fattore di rischio per lo sviluppo del diabete.
Diversamente, i depositi adiposi situati intorno ai fianchi e a livello gluteo-femorale non costituiscono una minaccia simile per la salute e, addirittura, sembrano garantire una moderata protezione contro la perdita di matrice ossea che si verifica nelle donne di età avanzata. La distribuzione regionale del grasso corporeo riveste dunque una valenza per nulla triviale nella valutazione dei soggetti a rischio.
Detto questo, risulta ovvio che la valutazione del rischio metabolico non può basarsi sulla semplice interpretazione di un parametro aspecifico quale il BMI.
Inoltre, è opinione condivisa il fatto che i valori di cut-off del BMI, stabiliti dagli organismi sanitari internazionali, non sono applicabili con eguale validità nelle varie categorie di pazienti e nei differenti gruppi etnici.
Tornando allo studio, secondo la misurazione dell’adisposità eseguita mediante DXA sono risultati “a rischio” il 69 % e l’85 % rispettivamente degli individui di sesso maschile e femminile analizzati. Tuttavia, la congruenza tra le categorie di BMI e di adiposità DXA risultava scarsa nella popolazione maschile e ancora più debole in quella femminile. In particolare, la classificazione di falsi negativi, secondo i valori di BMI, era più frequente nelle donne rispetto agli uomini nelle diverse fasce di età. Questo dato potrebbe riflettere l’omissione delle situazioni di eccessivo accumulo adiposo addominale, interpretate erroneamente come grasso corporeo omogeneamente distribuito.
Per evitare questi, ed altri, errori di mis-classificazione dei pazienti e per riconoscere con maggiore sicurezza le situazioni potenzialmente a rischio cardio-metabolico, si ritiene più affidabile il riferimento alla misura diretta della percentuale di grasso corporeo.
Fonte: De Lorenzo A, Bianchi A, Maroni P, Iannarelli A, Di Daniele N, Iacopino L, Di Renzo L. Adiposity rather than BMI determines metabolic risk. Int J Cardiol. 2011 Nov 14.
L’evidenza è “nostrana” e avverte sul corretto utilizzo degli indicatori antropometrici per la valutazione del rischio metabolico legato ad un'eccesso di grasso corporeo.
Un recente studio, condotto su un campione di quasi 4500 individui del centro-sud Italia ha infatti rivelato una corrispondenza decisamente scarsa tra le categorie di salute definite in base ai valori dell’indice di massa corporea (BMI) e a quelli derivanti dall’analisi della composizione corporea.
La misura diretta dell’adisposità corporea, eseguibile mediante la tecnica di Dual X-ray Absorptiometry (DXA) o attraverso biompedenziometria, fornisce preziose informazioni cliniche - quali massa grassa totale e massa magra e percentuale di grasso corporeo - non altrimenti estraibili dal calcolo del BMI.
Del resto, non tutto il grasso corporeo è deleterio in misura uguale. L’accumulo adiposo addominale, ad esempio, costituisce la forma più pericolosa di obesità e rappresenta il principale fattore di rischio per lo sviluppo del diabete.
Diversamente, i depositi adiposi situati intorno ai fianchi e a livello gluteo-femorale non costituiscono una minaccia simile per la salute e, addirittura, sembrano garantire una moderata protezione contro la perdita di matrice ossea che si verifica nelle donne di età avanzata. La distribuzione regionale del grasso corporeo riveste dunque una valenza per nulla triviale nella valutazione dei soggetti a rischio.
Detto questo, risulta ovvio che la valutazione del rischio metabolico non può basarsi sulla semplice interpretazione di un parametro aspecifico quale il BMI.
Inoltre, è opinione condivisa il fatto che i valori di cut-off del BMI, stabiliti dagli organismi sanitari internazionali, non sono applicabili con eguale validità nelle varie categorie di pazienti e nei differenti gruppi etnici.
Tornando allo studio, secondo la misurazione dell’adisposità eseguita mediante DXA sono risultati “a rischio” il 69 % e l’85 % rispettivamente degli individui di sesso maschile e femminile analizzati. Tuttavia, la congruenza tra le categorie di BMI e di adiposità DXA risultava scarsa nella popolazione maschile e ancora più debole in quella femminile. In particolare, la classificazione di falsi negativi, secondo i valori di BMI, era più frequente nelle donne rispetto agli uomini nelle diverse fasce di età. Questo dato potrebbe riflettere l’omissione delle situazioni di eccessivo accumulo adiposo addominale, interpretate erroneamente come grasso corporeo omogeneamente distribuito.
Per evitare questi, ed altri, errori di mis-classificazione dei pazienti e per riconoscere con maggiore sicurezza le situazioni potenzialmente a rischio cardio-metabolico, si ritiene più affidabile il riferimento alla misura diretta della percentuale di grasso corporeo.
Fonte: De Lorenzo A, Bianchi A, Maroni P, Iannarelli A, Di Daniele N, Iacopino L, Di Renzo L. Adiposity rather than BMI determines metabolic risk. Int J Cardiol. 2011 Nov 14.
Effetto fitness
Gli esercizi fisici equilibrano gli ormoni che regolano l'appetito, diminuiscono l'infiammazione e migliorano profilo lipidico e composizione corporea
L'esercizio fisico è fondamentale per il benessere dell'individuo.
L'associazione con una corretta alimentazione costituisce la base del trattamento di patologie legate al sovrappeso e all'obesità.
Se è dimostrato l'effetto nei pazienti in sovrappeso o obesi, che si traduce nel migliorare l'appetito, i livelli plasmatici dei mediatori infiammatori, il profilo lipidico e la composizione corporea, non è stato ancora chiarito come un programma di esercizi possa incidere sulle persone sane.
Trenta uomini sedentari sono stati reclutati e assegnati in modo casuale a due gruppi (gruppo esercisi, EG, N = 15 e gruppo di controllo, CG, N. = 15).
A livello plasmatico, la grelina, la leptina, la proteina C-reattiva (CRP), il fattore di necrosi tumorale-α (TNF-α) e l' interleuchina-6 (IL-6) sono stati determinati con metodo radioimmunologico e immunologico.
Colesterolo totale (TC), trigliceridi (TG), il colesterolo delle lipoproteine ad alta e bassa densità (HDL-C e LDL-C) sono state determinati con saggio enzimatico.
La composizione corporea è stata determinata mediante analisi di impedenza bioelettrica.
Dopo 8 settimane, i livelli di grelina e leptina del gruppo CG ha mostrato una tendenza ad aumentare, mentre quelli di EG sono risultati significativamente diminuiti.
Anche se TNF-α e CRP, ad eccezione di IL-6, ha mostrato una tendenza ad aumentare in CG, tutti e tre tendevano a diminuire in EG dopo 8 settimane.
TG e colesterolo LDL sono risultati significativamente aumentati in CG. I livelli di TC, TG e LDL-C di EG erano notevolmente diminuiti, mentre il colesterolo HDL era significativamente aumentato.
In EG, peso corporeo, massa grassa, percentuale di grassi, e rapporto vita / fianchi sono risultati significativamente diminuiti, mentre la massa muscolare è risultata significativamente aumentata dopo 8 settimane.
Vengono così confermati anche in uomini sani gli effetti benefici di un programma di esercizio, alterando ormoni che regolano l'appetito, diminuendo i fattori infiammatori, e migliorando i profili lipidici e la composizione corporea.
Autore: Pil-Byung C, Shin-Hwan Y, Il-Gyu K, Gwang-Suk H, Jae-Hyun Y, Han-Joon L, Sung-Eun K, Yong-Seok J.
Fonte: J Sports Med Phys Fitness. 2011 Dec;51(4):654-63.
L'esercizio fisico è fondamentale per il benessere dell'individuo.
L'associazione con una corretta alimentazione costituisce la base del trattamento di patologie legate al sovrappeso e all'obesità.
Se è dimostrato l'effetto nei pazienti in sovrappeso o obesi, che si traduce nel migliorare l'appetito, i livelli plasmatici dei mediatori infiammatori, il profilo lipidico e la composizione corporea, non è stato ancora chiarito come un programma di esercizi possa incidere sulle persone sane.
Trenta uomini sedentari sono stati reclutati e assegnati in modo casuale a due gruppi (gruppo esercisi, EG, N = 15 e gruppo di controllo, CG, N. = 15).
A livello plasmatico, la grelina, la leptina, la proteina C-reattiva (CRP), il fattore di necrosi tumorale-α (TNF-α) e l' interleuchina-6 (IL-6) sono stati determinati con metodo radioimmunologico e immunologico.
Colesterolo totale (TC), trigliceridi (TG), il colesterolo delle lipoproteine ad alta e bassa densità (HDL-C e LDL-C) sono state determinati con saggio enzimatico.
La composizione corporea è stata determinata mediante analisi di impedenza bioelettrica.
Dopo 8 settimane, i livelli di grelina e leptina del gruppo CG ha mostrato una tendenza ad aumentare, mentre quelli di EG sono risultati significativamente diminuiti.
Anche se TNF-α e CRP, ad eccezione di IL-6, ha mostrato una tendenza ad aumentare in CG, tutti e tre tendevano a diminuire in EG dopo 8 settimane.
TG e colesterolo LDL sono risultati significativamente aumentati in CG. I livelli di TC, TG e LDL-C di EG erano notevolmente diminuiti, mentre il colesterolo HDL era significativamente aumentato.
In EG, peso corporeo, massa grassa, percentuale di grassi, e rapporto vita / fianchi sono risultati significativamente diminuiti, mentre la massa muscolare è risultata significativamente aumentata dopo 8 settimane.
Vengono così confermati anche in uomini sani gli effetti benefici di un programma di esercizio, alterando ormoni che regolano l'appetito, diminuendo i fattori infiammatori, e migliorando i profili lipidici e la composizione corporea.
Autore: Pil-Byung C, Shin-Hwan Y, Il-Gyu K, Gwang-Suk H, Jae-Hyun Y, Han-Joon L, Sung-Eun K, Yong-Seok J.
Fonte: J Sports Med Phys Fitness. 2011 Dec;51(4):654-63.
Psoriasi e sindrome metabolica, un binomio pericoloso
Nei pazienti affetti da psoriasi grave è frequente la presenza di disturbi cardiometabolici che variano in base alla severità della malattia cutanea
L’associazione tra la patologia dermatologica e i disturbi metabolici conosciuti come sindrome metabolica risulta sempre più consolidata. Numerosi studi hanno riscontrato una forte associazione tra la patologia dermatologica e la presenza di alcuni elementi della sindrome tra cui l’obesità, l’ipertensione, la resistenza ad insulina, l’ipercolesterolemia e l’ipertrigliceridemia.
Tuttavia, la relazione tra le due condizioni non è del tutto chiara. Secondo alcuni autori, la presenza dell’obesità avrebbe un impatto diretto sulla severità della malattia cutanea e sulla risposta al trattamento.
La psoriasi è infatti una patologia infiammatoria cronica e l’obesità centrale, in quanto responsabile della iperproduzione di mediatori dell’infiammazione, sarebbe in grado di sostenere la sua patogenesi. Un recente studio inglese ha testato l’ipotesi che la severità della psoriasi correlasse con la presenza delle componenti principali della sindrome metabolica riscontrando, in effetti, una forte relazione tra le due condizioni.
L’analisi si è basata sui referti medici relativi ad un gruppo di 4065 pazienti di età compresa tra 45 e 65 anni affetti da diverse forme di psoriasi. Di questi, 2044 presentavano una forma lieve di psoriasi (2% di superficie corporea interessata), 1377 una forma moderata (3-10%), e 475 psoriasi severa (oltre il 10%).
Dall’analisi è emerso che la severità della patologia dermatologica correlava con la presenza delle componenti della sindrome metabolica secondo una relazione quasi lineare. In particolare, il grado di obesità, l’ipertrigliceridemia e l’iperglicemia erano più pronunciati nelle situazioni di maggiore estensione della malattia cutanea.
Queste osservazioni indicano la necessità dello screeening per la presenza delle componenti della sindrome metabolica nei pazienti con psoriasi, specialmente in coloro affetti da una forma più severa.
Fonte:Langan SM, Seminara NM, Shin DB et al.Prevalence of metabolic syndrome in patients with psoriasis: a population-based study in the United kingdom.J Invest Dermatol. 2012 Mar
L’associazione tra la patologia dermatologica e i disturbi metabolici conosciuti come sindrome metabolica risulta sempre più consolidata. Numerosi studi hanno riscontrato una forte associazione tra la patologia dermatologica e la presenza di alcuni elementi della sindrome tra cui l’obesità, l’ipertensione, la resistenza ad insulina, l’ipercolesterolemia e l’ipertrigliceridemia.
Tuttavia, la relazione tra le due condizioni non è del tutto chiara. Secondo alcuni autori, la presenza dell’obesità avrebbe un impatto diretto sulla severità della malattia cutanea e sulla risposta al trattamento.
La psoriasi è infatti una patologia infiammatoria cronica e l’obesità centrale, in quanto responsabile della iperproduzione di mediatori dell’infiammazione, sarebbe in grado di sostenere la sua patogenesi. Un recente studio inglese ha testato l’ipotesi che la severità della psoriasi correlasse con la presenza delle componenti principali della sindrome metabolica riscontrando, in effetti, una forte relazione tra le due condizioni.
L’analisi si è basata sui referti medici relativi ad un gruppo di 4065 pazienti di età compresa tra 45 e 65 anni affetti da diverse forme di psoriasi. Di questi, 2044 presentavano una forma lieve di psoriasi (2% di superficie corporea interessata), 1377 una forma moderata (3-10%), e 475 psoriasi severa (oltre il 10%).
Dall’analisi è emerso che la severità della patologia dermatologica correlava con la presenza delle componenti della sindrome metabolica secondo una relazione quasi lineare. In particolare, il grado di obesità, l’ipertrigliceridemia e l’iperglicemia erano più pronunciati nelle situazioni di maggiore estensione della malattia cutanea.
Queste osservazioni indicano la necessità dello screeening per la presenza delle componenti della sindrome metabolica nei pazienti con psoriasi, specialmente in coloro affetti da una forma più severa.
Fonte:Langan SM, Seminara NM, Shin DB et al.Prevalence of metabolic syndrome in patients with psoriasis: a population-based study in the United kingdom.J Invest Dermatol. 2012 Mar
Ma oltre la perdita di peso.......
A parte il controllo del peso, la psicometria si può utilizzare per la previsione del successo di una dieta anche nel lungo termine?
Secondo uno studio recente ci si può avvalere di una scala psicometrica basata su 3 item che indaga la percezione di autoregolazione dei soggetti sottoposti a dieta restrittiva, e può essere utilizzata per distinguere tra diete di successo e diete di scarso successo. Gli studiosi che sostengono come valido e maneggevole, il loro metodo d’indagine, sono un gruppo di ricercatori tedeschi del Department of Psychology I, University of Würzburg, (Germany).
La validità e l’affidabilità della scala psicometrica si è ottenuta dall’elaborazione di dati forniti da diversi studi già pubblicati che indagavano la forza della correlazione negativa dei punteggi ottenuti a confronto con il BMI, la preoccupazione per la dieta , il rigido controllo della dieta, il desiderio di cibo, i sintomi da dipendenza da cibo, e il binge eating. Si è così dimostrato che il controllo della dieta era positivamente associato con i punteggi medi e medio alti della scala psicometrica utilizzata per l’occasione, che comunque andrà validata a livello universale.
Dunque il successo di una dieta nel lungo termine dipende da molteplici fattori, non ultimi quelli psicologici. In altri termini, la promessa di una rapida perdita di peso, non può essere il solo motivo valido per stimolare i nostri pazienti al cambiamento.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22329988
Appetite. 2012 Feb 3. [Epub ahead of print]
Secondo uno studio recente ci si può avvalere di una scala psicometrica basata su 3 item che indaga la percezione di autoregolazione dei soggetti sottoposti a dieta restrittiva, e può essere utilizzata per distinguere tra diete di successo e diete di scarso successo. Gli studiosi che sostengono come valido e maneggevole, il loro metodo d’indagine, sono un gruppo di ricercatori tedeschi del Department of Psychology I, University of Würzburg, (Germany).
La validità e l’affidabilità della scala psicometrica si è ottenuta dall’elaborazione di dati forniti da diversi studi già pubblicati che indagavano la forza della correlazione negativa dei punteggi ottenuti a confronto con il BMI, la preoccupazione per la dieta , il rigido controllo della dieta, il desiderio di cibo, i sintomi da dipendenza da cibo, e il binge eating. Si è così dimostrato che il controllo della dieta era positivamente associato con i punteggi medi e medio alti della scala psicometrica utilizzata per l’occasione, che comunque andrà validata a livello universale.
Dunque il successo di una dieta nel lungo termine dipende da molteplici fattori, non ultimi quelli psicologici. In altri termini, la promessa di una rapida perdita di peso, non può essere il solo motivo valido per stimolare i nostri pazienti al cambiamento.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22329988
Appetite. 2012 Feb 3. [Epub ahead of print]
Il "metodo Tisanoreica": cambiano gli attori, ma la storia si ripete
Purtroppo si tratta dell’ennesimo esempio del “fai da te”: una dieta chetogenica con prodotti standardizzati, e adesso addirittura mascherata da un’aura politica.
Leggendo dal sito del Centro Studi Tisanoreica, di Gianluca Mech, ideatore del progetto Tisanoreica: “ Con una dieta dimagrante equilibrata si mangia un po’ di tutto ma in quantità ridotte prolungando il regime restrittivo nel tempo. Il nostro corpo percepisce questa riduzione come “carestia”. Per difendere i grassi cerca di limitare i consumi abbassando il metabolismo di base che rappresenta oltre il 70% del consumo di calorie; per abbassare il metabolismo di base va a ridurre la massa magra (massa muscolare) che consuma più energia eccetera …”
Non è il caso di discutere, si può solo affermare che il metodo, più che innovativo, è privo di un fondamento scientifico, e non sono certo i lavori pubblicati sul sito che possono convincere. Sono 50 anni almeno, che la dieta chetogenica ci viene proposta! Chi vendendo bustine di sole proteine, o di aminoacidi, chi con derivati di alimenti e di erbe, chi ancora con gli usuali alimenti, quali carni bianche, rosse e via dicendo.
La storia si ripete anche nel vano tentativo di dimostrare che non si abbassa il metabolismo e che non si perde massa magra. Che noia! Forse anche per la comunità scientifica – i medici, gli endocrinologi, gli “obesiologi”, gli internisti – si può parlare di noia, vista l’assenza sul tema. Eppure si tratta della solita eliminazione dei carboidrati: niente pasta, pane, legumi, riso … e la tanto acclamata dieta mediterranea? Meglio non parlarne, soprattutto in parlamento. Sempre dal sito della dieta tisanoreica: “è consigliata per 40 giorni”, “con l’assistenza di medici e professionisti”.
Trattandosi di un’alimentazione squilibrata, per nostra fortuna non si va oltre. Dato che il consumatore acquista i prodotti in farmacia, in erboristeria e nei centri estetici, di quale assistenza medica parliamo? Insomma, è solo una storia che si ripete! Diseducativa e confondente.
Pietro Morini
Responsabile Centro Ricerche Nutrizionali DS Medica - Milano
Membro Direttivo Scientifico ICANS (International Center of Assessment of Nutritional Status)
Facoltà di Agraria - Università degli Studi di Milano
Fonte:
Portale Istituzionale Tiranoreica
http://www.centrostuditisanoreica.it/index.html
Leggendo dal sito del Centro Studi Tisanoreica, di Gianluca Mech, ideatore del progetto Tisanoreica: “ Con una dieta dimagrante equilibrata si mangia un po’ di tutto ma in quantità ridotte prolungando il regime restrittivo nel tempo. Il nostro corpo percepisce questa riduzione come “carestia”. Per difendere i grassi cerca di limitare i consumi abbassando il metabolismo di base che rappresenta oltre il 70% del consumo di calorie; per abbassare il metabolismo di base va a ridurre la massa magra (massa muscolare) che consuma più energia eccetera …”
Non è il caso di discutere, si può solo affermare che il metodo, più che innovativo, è privo di un fondamento scientifico, e non sono certo i lavori pubblicati sul sito che possono convincere. Sono 50 anni almeno, che la dieta chetogenica ci viene proposta! Chi vendendo bustine di sole proteine, o di aminoacidi, chi con derivati di alimenti e di erbe, chi ancora con gli usuali alimenti, quali carni bianche, rosse e via dicendo.
La storia si ripete anche nel vano tentativo di dimostrare che non si abbassa il metabolismo e che non si perde massa magra. Che noia! Forse anche per la comunità scientifica – i medici, gli endocrinologi, gli “obesiologi”, gli internisti – si può parlare di noia, vista l’assenza sul tema. Eppure si tratta della solita eliminazione dei carboidrati: niente pasta, pane, legumi, riso … e la tanto acclamata dieta mediterranea? Meglio non parlarne, soprattutto in parlamento. Sempre dal sito della dieta tisanoreica: “è consigliata per 40 giorni”, “con l’assistenza di medici e professionisti”.
Trattandosi di un’alimentazione squilibrata, per nostra fortuna non si va oltre. Dato che il consumatore acquista i prodotti in farmacia, in erboristeria e nei centri estetici, di quale assistenza medica parliamo? Insomma, è solo una storia che si ripete! Diseducativa e confondente.
Pietro Morini
Responsabile Centro Ricerche Nutrizionali DS Medica - Milano
Membro Direttivo Scientifico ICANS (International Center of Assessment of Nutritional Status)
Facoltà di Agraria - Università degli Studi di Milano
Fonte:
Portale Istituzionale Tiranoreica
http://www.centrostuditisanoreica.it/index.html
Chi ha detto si alla "Tisanoreica"?
I dubbi sulla validità del metodo sono troppi rispetto alle prove scientifiche sull’efficacia, ma il Parlamento approva davvero?
Riteniamo che l’iniziativa del 15 febbraio 2012 "LA MANOVRA DIETETICA IN PARLAMENTO", che si proponeva di presentare proposte concrete per ridurre il tasso di obesità in Italia e i relativi costi per lo Stato sia stata un’iniziativa di indubbio valore scientifico data la partecipazione di autorevoli esperti, ma manovrata nella comunicazione grazie alla presenza di Gianluca Mech.
Il risultato: un’informazione al cittadino distorta tesa a far coincidere le soluzioni indicate con l’adozione del “metodo tisanoreica”. La “tisanoreica” è ormai una tendenza che impazza, o meglio, un tormentone multimediale, e non solo. Ha ricevuto persino premi e riconoscimento come “iniziativa di sicuro successo nella lotta all’obesità”.Il promotore di tutta la “diet industry tisanoreica” è Gianluca Mech che ha saputo sfruttare al meglio l’azienda di famiglia, un’antica erboristeria, nella quale si è formato come “esperto di alimentazione” fin da giovane.
Ma c’è di peggio! In termini scientifici, la tisanoreica non fa altro che provocare una condizione di chetogenesi, la stessa che si verifica nei disordini del comportamento alimentare di natura restrittiva. E, infatti, per queste persone la tisanoreica è sconsigliata. Tuttavia, VIP e parlamentari ne sono entusiasti per la perdita di peso raggiunta in breve tempo. Ma non è certo questa la strada giusta per combattere l’obesità!
Fonte:
ADNKronos
Salute: nutrizionista, dieta tisanoreica più commerciale che scientifica http://www.adnkronos.com/IGN/Daily_Life/Benessere/Salute-nutrizionista-dieta-tisanoreica-piu-commerciale-che-scientifica_312989632077.html
Riteniamo che l’iniziativa del 15 febbraio 2012 "LA MANOVRA DIETETICA IN PARLAMENTO", che si proponeva di presentare proposte concrete per ridurre il tasso di obesità in Italia e i relativi costi per lo Stato sia stata un’iniziativa di indubbio valore scientifico data la partecipazione di autorevoli esperti, ma manovrata nella comunicazione grazie alla presenza di Gianluca Mech.
Il risultato: un’informazione al cittadino distorta tesa a far coincidere le soluzioni indicate con l’adozione del “metodo tisanoreica”. La “tisanoreica” è ormai una tendenza che impazza, o meglio, un tormentone multimediale, e non solo. Ha ricevuto persino premi e riconoscimento come “iniziativa di sicuro successo nella lotta all’obesità”.Il promotore di tutta la “diet industry tisanoreica” è Gianluca Mech che ha saputo sfruttare al meglio l’azienda di famiglia, un’antica erboristeria, nella quale si è formato come “esperto di alimentazione” fin da giovane.
Ma c’è di peggio! In termini scientifici, la tisanoreica non fa altro che provocare una condizione di chetogenesi, la stessa che si verifica nei disordini del comportamento alimentare di natura restrittiva. E, infatti, per queste persone la tisanoreica è sconsigliata. Tuttavia, VIP e parlamentari ne sono entusiasti per la perdita di peso raggiunta in breve tempo. Ma non è certo questa la strada giusta per combattere l’obesità!
Fonte:
ADNKronos
Salute: nutrizionista, dieta tisanoreica più commerciale che scientifica http://www.adnkronos.com/IGN/Daily_Life/Benessere/Salute-nutrizionista-dieta-tisanoreica-piu-commerciale-che-scientifica_312989632077.html
Malnutrizione e osteoporosi
_L'osteoporosi riguarda il 50% delle donne di oltre 80 anni con
prevalenza nelle più anziane specie se vivono in comunità istituzionali.
La malnutrizione, l'inattività fisica e altri fattori eziologici possono portare a una riduzione notevole della massa magra muscolare e ossea: la sarcopenia. Tra i fattori eziologici più comuni, in questo generale impoverimento, alcune citochine hanno un effetto sulla proteolisi e la ristrutturazione delle ossa, interferendo con il metabolismo degli osteoclasti.
Infiammazione o stress sono responsabili di rimaneggiamento osseo sfavorevole e di una perdita di proteine con conseguente deterioramento della prognosi e delle funzioni muscolari. In proposito in una recente revisione son stati considerati gli studi pubblicati dal 1980 fino al 2010 che riportavano i rapporti tra i compartimenti corporei proteici, la malnutrizione e la densità minerale ossea.
Si è così sostanzialmente evidenziato che un aumento dell'apporto proteico giornaliero potrebbe avere un effetto positivo sulla densità minerale ossea e prestazioni funzionali (prevenzione primaria e secondaria).
Dunque tra le misure preventive nella nutrizione dell’anziano va presa in considerazione anche l’opzione dell’aumento della quota proteica quotidiana accompagnato a una sufficiente attività fisica .
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22182816 Geriatr Psychol Neuropsychiatr Vieil. 2011 Dec 1;9(4):399-408.
Nutrition and osteoporosis in elderly.
La malnutrizione, l'inattività fisica e altri fattori eziologici possono portare a una riduzione notevole della massa magra muscolare e ossea: la sarcopenia. Tra i fattori eziologici più comuni, in questo generale impoverimento, alcune citochine hanno un effetto sulla proteolisi e la ristrutturazione delle ossa, interferendo con il metabolismo degli osteoclasti.
Infiammazione o stress sono responsabili di rimaneggiamento osseo sfavorevole e di una perdita di proteine con conseguente deterioramento della prognosi e delle funzioni muscolari. In proposito in una recente revisione son stati considerati gli studi pubblicati dal 1980 fino al 2010 che riportavano i rapporti tra i compartimenti corporei proteici, la malnutrizione e la densità minerale ossea.
Si è così sostanzialmente evidenziato che un aumento dell'apporto proteico giornaliero potrebbe avere un effetto positivo sulla densità minerale ossea e prestazioni funzionali (prevenzione primaria e secondaria).
Dunque tra le misure preventive nella nutrizione dell’anziano va presa in considerazione anche l’opzione dell’aumento della quota proteica quotidiana accompagnato a una sufficiente attività fisica .
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22182816 Geriatr Psychol Neuropsychiatr Vieil. 2011 Dec 1;9(4):399-408.
Nutrition and osteoporosis in elderly.
PUFA e rischio di frattura
_I dati sugli effetti dell’assunzione di acidi grassi polinsaturi sul rischio di frattura d'anca sono ancora incoerenti.
Allo scopo di chiarire questa possibile associazione 75.878 donne e 46.476 uomini liberi da osteoporosi al basale. Gli apporti dietetici sono stati valutati con un questionario del tipo FFQ sia al basale sia più volte durante il follow-up secondo un disegno prospettico e un’analisi multivariata per stimare i rischi relativi (RR).
Durante 24 anni di follow-up, sono stati identificati 1.051 casi di frattura dell'anca dovuti a traumi di bassa o moderata intensità tra le donne e 529 casi tra gli uomini. Nelle analisi pooled, nessuna associazione statisticamente significativa è stata trovata tra l'assunzione di PUFA totale e nel rapporto individuale n -3 PUFA - n- 6/n-3 PUFA e rischio di frattura dell'anca.
Tuttavia, nelle donne un apporto inferiore di PUFA totale, totale n-6 PUFA e acido linoleico, sono stati associati con un rischio più elevato.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22270860
Osteoporos Int. 2012 Jan 21. [Epub ahead of print]
Dietary intake of polyunsaturated fatty acids and risk of hip fracture in men and women.
Allo scopo di chiarire questa possibile associazione 75.878 donne e 46.476 uomini liberi da osteoporosi al basale. Gli apporti dietetici sono stati valutati con un questionario del tipo FFQ sia al basale sia più volte durante il follow-up secondo un disegno prospettico e un’analisi multivariata per stimare i rischi relativi (RR).
Durante 24 anni di follow-up, sono stati identificati 1.051 casi di frattura dell'anca dovuti a traumi di bassa o moderata intensità tra le donne e 529 casi tra gli uomini. Nelle analisi pooled, nessuna associazione statisticamente significativa è stata trovata tra l'assunzione di PUFA totale e nel rapporto individuale n -3 PUFA - n- 6/n-3 PUFA e rischio di frattura dell'anca.
Tuttavia, nelle donne un apporto inferiore di PUFA totale, totale n-6 PUFA e acido linoleico, sono stati associati con un rischio più elevato.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22270860
Osteoporos Int. 2012 Jan 21. [Epub ahead of print]
Dietary intake of polyunsaturated fatty acids and risk of hip fracture in men and women.
Vitamina D e stato riproduttivo
_Secondo una revisione sistematica della letteratura, differenti
studi hanno evidenziato associazioni tra vitamina D e fertilità, sia per
i maschi, sia per le femmine.
Dall’analisi delle evidenze pubblicate fino al 2011 risulta che il recettore della vitamina D (VDR) e gli enzimi del suo metabolismo si trovano in tessuti riproduttivi sia maschili sia femminili.
Inoltre, esistono prove che la vitamina D è coinvolta nella riproduzione femminile tra cui la fecondazione in vitro (IVF) e la sindrome dell'ovaio policistico (PCOS). Nelle donne con PCOS, si trova una inferiore concentrazione plasmatica di 25-idrossivitamina D (25 (OH) D). Questi livelli vengono generalmente associati a obesità e sindrome metabolica.
Quindi, nelle stesse donne, la supplementazione con vitamina D potrebbe migliorare i disordini mestruali e le patologie metaboliche. Pare anche che la vitamina D possa influenzare la steroidogenesi degli ormoni sessuali (estradiolo e progesterone) in donne sane e ancora, elevati livelli plasmatici di 25 (OH) D potrebbero essere associati all’endometriosi.
Negli uomini, la vitamina D è correlata positivamente con la qualità dello sperma e con lo stato degli androgeni. Infine, un’integrazione con la vitamina D sembra aumentare i livelli di testosterone e l’incidenza di osteoporosi negli uomini con patologie testicolari, nonostante i livelli di testosterone appaiono normali.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22275473
Eur J Endocrinol. 2012 Jan 24. [Epub ahead of print]
Vitamin D and fertility-a systematic review.
Dall’analisi delle evidenze pubblicate fino al 2011 risulta che il recettore della vitamina D (VDR) e gli enzimi del suo metabolismo si trovano in tessuti riproduttivi sia maschili sia femminili.
Inoltre, esistono prove che la vitamina D è coinvolta nella riproduzione femminile tra cui la fecondazione in vitro (IVF) e la sindrome dell'ovaio policistico (PCOS). Nelle donne con PCOS, si trova una inferiore concentrazione plasmatica di 25-idrossivitamina D (25 (OH) D). Questi livelli vengono generalmente associati a obesità e sindrome metabolica.
Quindi, nelle stesse donne, la supplementazione con vitamina D potrebbe migliorare i disordini mestruali e le patologie metaboliche. Pare anche che la vitamina D possa influenzare la steroidogenesi degli ormoni sessuali (estradiolo e progesterone) in donne sane e ancora, elevati livelli plasmatici di 25 (OH) D potrebbero essere associati all’endometriosi.
Negli uomini, la vitamina D è correlata positivamente con la qualità dello sperma e con lo stato degli androgeni. Infine, un’integrazione con la vitamina D sembra aumentare i livelli di testosterone e l’incidenza di osteoporosi negli uomini con patologie testicolari, nonostante i livelli di testosterone appaiono normali.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22275473
Eur J Endocrinol. 2012 Jan 24. [Epub ahead of print]
Vitamin D and fertility-a systematic review.
BMI percentile, un nuovo indice per l'anoressia e la bulimia infantile
_Questo parametro costituisce un valido riferimento antropometrico
per aiutare la gestione dei disturbi del comportamento alimentare
dell'infanzia e dell'adolescenza.
Secondo gli esperti, per diagnosticare e gestire con maggior efficacia i casi di anoressia e bulimia nei giovani pazienti, sono necessari metodi in grado di fornire una stima quanto più possibile realistica del peso corporeo atteso. Si noti, il termine “atteso”, e non “ideale”, poiché questo meglio descrive una condizione di salute desiderabile relativamente alla composizione corporea, e non appunto una illusoria aspettativa estetica.
I disturbi del comportamento alimentare durante l’infanzia e l’adolescenza costituiscono infatti una grave minaccia e rappresentano un’eredità destinata a pesare sulle future generazioni. Tuttavia, in questo campo, non esistono attualmente precise linee guida in grado di facilitare i medici di famiglia e i pediatri nel riconoscere tali disordini.
Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Pediatrics, potrebbe avere identificato un gold standard antropometrico, capace di rispondere adeguatamente alle richieste della pratica ambulatoriale pediatrica e di soddisfare, allo stesso tempo, l’esigenza riguardante l’uniformità di linguaggio imposta dalla ricerca clinica.
Il team dell’università di Chicago ha messo a confronto tre metodi normalmente impiegati nella pediatrica clinica per calcolare il peso corporeo atteso nei pazienti affetti da disturbi del comportamento alimentare: l’indice di massa corporeo percentile (Body Mass Index, BMI) e i metodi di McClaren e Moore.
I ricercatori hanno riscontrato che il metodo BMI forniva i valori più utili per le varie fasce di età, altezza e peso, sia per i bambini che per gli adolescenti, dimostrandosi altamente predittivo anche per i soggetti di statura estremamente alta e bassa.
Questo metodo compara il valore di BMI calcolato del paziente con un valore di BMI tabulato, corrispondente al cinquantesimo percentile di un coetaneo di altezza e sesso uguale. Il confronto con il valore di riferimento permette in questo modo di stabilire con una buona affidabilità il traguardo ponderale verso il quale il paziente deve essere accompagnato.
L’indice di massa corporea fornisce una stima del grado di adiposità corporea ed è per questo impiegato in ambito nutrizionale per valutare l’esistenza del rischio metabolico nei soggetti sovrappeso. La nuova derivazione dell’indice potrebbe risultare estremamente utile per i medici di medicina generale, dal momento in cui queste figure professionali non sempre sono familiari con la prevalenza di questi disordini nei giovanissimi. Inoltre, questa misura può integrarsi nel corso delle terapie alimentari per valutare la risposta ai trattamenti.
Tale standardizzazione metrica costituirebbe infatti una chiara e valida linea guida per la pratica clinica pediatrica e permette di unificare sotto un’unica “lingua” il tema dei disordini del comportamento alimentare nell’infanzia e nell’adolescenza.
Fonte: Le Grange D, Doyle PM, Swanson SA et al. Calculation of Expected Body Weight in Adolescents With Eating Disorders. Pediatrics. 2012 Jan 4.
Secondo gli esperti, per diagnosticare e gestire con maggior efficacia i casi di anoressia e bulimia nei giovani pazienti, sono necessari metodi in grado di fornire una stima quanto più possibile realistica del peso corporeo atteso. Si noti, il termine “atteso”, e non “ideale”, poiché questo meglio descrive una condizione di salute desiderabile relativamente alla composizione corporea, e non appunto una illusoria aspettativa estetica.
I disturbi del comportamento alimentare durante l’infanzia e l’adolescenza costituiscono infatti una grave minaccia e rappresentano un’eredità destinata a pesare sulle future generazioni. Tuttavia, in questo campo, non esistono attualmente precise linee guida in grado di facilitare i medici di famiglia e i pediatri nel riconoscere tali disordini.
Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Pediatrics, potrebbe avere identificato un gold standard antropometrico, capace di rispondere adeguatamente alle richieste della pratica ambulatoriale pediatrica e di soddisfare, allo stesso tempo, l’esigenza riguardante l’uniformità di linguaggio imposta dalla ricerca clinica.
Il team dell’università di Chicago ha messo a confronto tre metodi normalmente impiegati nella pediatrica clinica per calcolare il peso corporeo atteso nei pazienti affetti da disturbi del comportamento alimentare: l’indice di massa corporeo percentile (Body Mass Index, BMI) e i metodi di McClaren e Moore.
I ricercatori hanno riscontrato che il metodo BMI forniva i valori più utili per le varie fasce di età, altezza e peso, sia per i bambini che per gli adolescenti, dimostrandosi altamente predittivo anche per i soggetti di statura estremamente alta e bassa.
Questo metodo compara il valore di BMI calcolato del paziente con un valore di BMI tabulato, corrispondente al cinquantesimo percentile di un coetaneo di altezza e sesso uguale. Il confronto con il valore di riferimento permette in questo modo di stabilire con una buona affidabilità il traguardo ponderale verso il quale il paziente deve essere accompagnato.
L’indice di massa corporea fornisce una stima del grado di adiposità corporea ed è per questo impiegato in ambito nutrizionale per valutare l’esistenza del rischio metabolico nei soggetti sovrappeso. La nuova derivazione dell’indice potrebbe risultare estremamente utile per i medici di medicina generale, dal momento in cui queste figure professionali non sempre sono familiari con la prevalenza di questi disordini nei giovanissimi. Inoltre, questa misura può integrarsi nel corso delle terapie alimentari per valutare la risposta ai trattamenti.
Tale standardizzazione metrica costituirebbe infatti una chiara e valida linea guida per la pratica clinica pediatrica e permette di unificare sotto un’unica “lingua” il tema dei disordini del comportamento alimentare nell’infanzia e nell’adolescenza.
Fonte: Le Grange D, Doyle PM, Swanson SA et al. Calculation of Expected Body Weight in Adolescents With Eating Disorders. Pediatrics. 2012 Jan 4.
Gusto e genetica
_La preferenza per il sapore aspro potrebbe sottendere implicazioni
genetiche, come è stato dimostrato in Finlandia utilizzando un FFQ
perfezionato.
In una coorte di giovani adulti gemelli (n = 328, 21-25 anni) di cui 46 coppie di monozigoti, 92 coppie dizigoti e 52 singoli individui senza il loro co-gemello, è stata indagata la preferenza per il gusto aspro.
Si procedeva utilizzando un FFQ che misurava la preferenza di consumo e la scelta preferenziale di 21 prodotti di varia asprezza.
Dall’analisi delle risposte sono emerse 3 categorie di alimenti: frutti e bacche acidi, frutti e bacche meno acidi, e prodotti caseari acidi. L’analisi delle risposte secondo una quantificazione genetica ha così dimostrato, in sostanza, che il contributo della genetica poteva giustificare circa il 50% delle preferenze cui conseguiva un aumento dei consumi di un determinato alimento aspro.
Questo studio ha dimostrato che le scelte alimentari abituali sono molto condizionate dal gusto, il quale a sua volta sembra in qualche modo correlato a fattori genetici e ambientali.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22245130
Appetite. 2012 Jan 4. [Epub ahead of print]
In una coorte di giovani adulti gemelli (n = 328, 21-25 anni) di cui 46 coppie di monozigoti, 92 coppie dizigoti e 52 singoli individui senza il loro co-gemello, è stata indagata la preferenza per il gusto aspro.
Si procedeva utilizzando un FFQ che misurava la preferenza di consumo e la scelta preferenziale di 21 prodotti di varia asprezza.
Dall’analisi delle risposte sono emerse 3 categorie di alimenti: frutti e bacche acidi, frutti e bacche meno acidi, e prodotti caseari acidi. L’analisi delle risposte secondo una quantificazione genetica ha così dimostrato, in sostanza, che il contributo della genetica poteva giustificare circa il 50% delle preferenze cui conseguiva un aumento dei consumi di un determinato alimento aspro.
Questo studio ha dimostrato che le scelte alimentari abituali sono molto condizionate dal gusto, il quale a sua volta sembra in qualche modo correlato a fattori genetici e ambientali.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22245130
Appetite. 2012 Jan 4. [Epub ahead of print]
FFQ vs PFD
_La frequenza dei consumi alimentari va attentamente considerata,
specie quando si tratta di ragazzi. I questionari già validati
funzionano meglio in abbinamento ai diari alimentari.
Per valutare le frequenze di consumo, 2 gruppi di ragazzi (733 di 9 anni e 904 di 13 anni) sono stati sottoposti prima a un FFQ 24- 48 h recall e successivamente (una o due settimane più tardi) a un PFD (diario alimentare delle preferenze) di quattro giorni.
Il FFQ comprendeva domande relative a 23 alimenti inclusi bevande, frutta, verdura, pane, pesce, pizza, dolci, cioccolato e snack salati. Il PFD, invece, copriva la dieta in toto.
Dall’analisi dei risultati è emerso, in sostanza, che il FFQ era più adatto per identificare i forti consumatori e gli scarsi consumatori, ma non era utile per individuare un particolare cibo di maggior consumo. Per quanto riguardava bevande, frutta e verdura, invece, il PFD dava risultati più precisi. Dunque, nel dubbio, meglio usare entrambi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22259597
Food Nutr Res. 2012;56. doi: 10.3402/fnr.v56i0.6399. Epub 2012 Jan 16.
Evaluation of a short food frequency questionnaire used among Norwegian children.
Per valutare le frequenze di consumo, 2 gruppi di ragazzi (733 di 9 anni e 904 di 13 anni) sono stati sottoposti prima a un FFQ 24- 48 h recall e successivamente (una o due settimane più tardi) a un PFD (diario alimentare delle preferenze) di quattro giorni.
Il FFQ comprendeva domande relative a 23 alimenti inclusi bevande, frutta, verdura, pane, pesce, pizza, dolci, cioccolato e snack salati. Il PFD, invece, copriva la dieta in toto.
Dall’analisi dei risultati è emerso, in sostanza, che il FFQ era più adatto per identificare i forti consumatori e gli scarsi consumatori, ma non era utile per individuare un particolare cibo di maggior consumo. Per quanto riguardava bevande, frutta e verdura, invece, il PFD dava risultati più precisi. Dunque, nel dubbio, meglio usare entrambi.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22259597
Food Nutr Res. 2012;56. doi: 10.3402/fnr.v56i0.6399. Epub 2012 Jan 16.
Evaluation of a short food frequency questionnaire used among Norwegian children.
La madre influenza il figlio
_I comportamenti delle madri condizionano le scelte alimentari dei
figli, specie per ciò che riguarda le preferenze e le scelte verso una
dieta più salutare.
Una coorte di 82 madri messicano-americane con i rispettivi figli di 2-6 anni sono state indagate utilizzando questionari strutturati che valutavano la disinibizione, la fame, l'intenzione di regolare l’assunzione di carboidrati delle madri e le pressioni da queste esercitate sulla dieta dei figli.
Si è così evidenziato che le relazioni tra disinibizione, fame, restrizione cognitiva, e la variabile “intenzione” erano significative. In particolare, utilizzando un FFQ, si è visto che più della metà delle madri limitava per sè le bevande gasate e le caramelle. E, in generale, è emerso che i comportamenti delle madri possono influenzare il metodo di nutrizione dei figli in età prescolare.
Gli autori concludono auspicando che già in età prescolare i bambini possano essere indirizzati a scelte alimentari più salutari dalle loro madri che, a loro volta, vanno ben istruite in tale direzione dagli operatori sanitari che le affiancano in gravidanza, e prima e dopo il parto.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22250964
Issues Compr Pediatr Nurs. 2012;35(1):4-23.
Mexican american mothers' eating and child feeding behaviors.
Una coorte di 82 madri messicano-americane con i rispettivi figli di 2-6 anni sono state indagate utilizzando questionari strutturati che valutavano la disinibizione, la fame, l'intenzione di regolare l’assunzione di carboidrati delle madri e le pressioni da queste esercitate sulla dieta dei figli.
Si è così evidenziato che le relazioni tra disinibizione, fame, restrizione cognitiva, e la variabile “intenzione” erano significative. In particolare, utilizzando un FFQ, si è visto che più della metà delle madri limitava per sè le bevande gasate e le caramelle. E, in generale, è emerso che i comportamenti delle madri possono influenzare il metodo di nutrizione dei figli in età prescolare.
Gli autori concludono auspicando che già in età prescolare i bambini possano essere indirizzati a scelte alimentari più salutari dalle loro madri che, a loro volta, vanno ben istruite in tale direzione dagli operatori sanitari che le affiancano in gravidanza, e prima e dopo il parto.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22250964
Issues Compr Pediatr Nurs. 2012;35(1):4-23.
Mexican american mothers' eating and child feeding behaviors.
Vegetarianesimo e salute ossea, esiste un rischio ?
_Contrariamente a quanto atteso, la la dieta di tipo vegetariano non sembra aumentare la perdita di osso e il rischio di frattura.
La dieta vegetariana è generalemente considerata uno stile di vita altamente salutare, in quanto è dato che gli individui vegetariani presentano globalmente un rischio inferiore di incorrere in patologie croniche rispetto alla popolazione generale.
La salute ossea delle persone vegetariane costituisce però da qualche tempo motivo di preoccupazione da parte dei medici.
La densità minerale ossea degli individui vegetariani, e ancor di più dei vegani, risulta infatti mediamente inferiore rispetto ai soggetti onnivori, tuttavia non è chiaro se queste abitudini alimentari favoriscano il rischio di fratture da fragilità.
Il presente lavoro ha esaminato l’associazione tra vegetarianesimo e la riduzione della massa ossea in donne in post menopausa, analizzando l’effetto della dieta sui markers del turn-over osseo.
Lo studio, condotto in forma di analisi prospettica, ha coinvolto 210 donne, ugualmente ripartite in due gruppi di vegetariane e onnivore. Dal 2008 al 2010 è stata valutata la densità minerale ossea delle partecipanti. I ricercatori hanno quindi valutato le concentrazioni sieriche del telopeptide C-terminale del collagene di tipo I e del propeptide N-terminale del procollagene di tipo I, così come quelle di 25-idrossivitamina D e di ormone paratiroide.
Nelle donne che hanno superato la menopausa il contenuto minerale osseo riflette il risultato della somma tra il picco minerale osseo raggiunto in giovane età e la perdita fisiologica di matrice associata all’invecchiamento, la quale origina da uno squilibrio tra i processi di formazione e riassorbimento.
Contrariamente a quanto atteso, la rapidità nella perdità di osso non differiva tra i due gruppi, così come non variava l’incidenza di fratture. Allo stesso modo, non sono state osservate differenze importanti nelle concentrazioni dei marker serici analizzati e non vi era alcuna associazione tra questi marker e la rapidità nella perdita di osso.
Negli individui vegani è stata rilevata una più spiccata insufficienza di vitamina D accompagnata da una minore assunzione di calcio. Tuttavia questi due fattori non risultavano associati alla perdita di osso.
Globalmente, un basso peso corporeo, l'elevata assunzione di proteine animali e lipidi e l’utilizzo di farmaci corticosteroidi sono emersi quali fattori associati ad una maggiore velocità della perdita di osso da questo sito scheletrico. Il ruolo delle proteine di origine animale era già emerso da studi precedenti e sarebbe riconducibile alla produzione di eccessive quantità di acidi endogeni, i quali favorirebbero un più rapido riassorbimento del tessuto e quindi una maggiore riduzione di matrice ossea.
Fonte: L T Ho-Pham, B Q Vu1, T Q Lai, N D Nguyen and T V Nguyen Vegetarianism, bone loss, fracture and vitamin D: a longitudinal study in Asian vegans and non-vegans European Journal of Clinical Nutrition (2012) 66, 75–82; doi:10.1038/ejcn.2011.131
La dieta vegetariana è generalemente considerata uno stile di vita altamente salutare, in quanto è dato che gli individui vegetariani presentano globalmente un rischio inferiore di incorrere in patologie croniche rispetto alla popolazione generale.
La salute ossea delle persone vegetariane costituisce però da qualche tempo motivo di preoccupazione da parte dei medici.
La densità minerale ossea degli individui vegetariani, e ancor di più dei vegani, risulta infatti mediamente inferiore rispetto ai soggetti onnivori, tuttavia non è chiaro se queste abitudini alimentari favoriscano il rischio di fratture da fragilità.
Il presente lavoro ha esaminato l’associazione tra vegetarianesimo e la riduzione della massa ossea in donne in post menopausa, analizzando l’effetto della dieta sui markers del turn-over osseo.
Lo studio, condotto in forma di analisi prospettica, ha coinvolto 210 donne, ugualmente ripartite in due gruppi di vegetariane e onnivore. Dal 2008 al 2010 è stata valutata la densità minerale ossea delle partecipanti. I ricercatori hanno quindi valutato le concentrazioni sieriche del telopeptide C-terminale del collagene di tipo I e del propeptide N-terminale del procollagene di tipo I, così come quelle di 25-idrossivitamina D e di ormone paratiroide.
Nelle donne che hanno superato la menopausa il contenuto minerale osseo riflette il risultato della somma tra il picco minerale osseo raggiunto in giovane età e la perdita fisiologica di matrice associata all’invecchiamento, la quale origina da uno squilibrio tra i processi di formazione e riassorbimento.
Contrariamente a quanto atteso, la rapidità nella perdità di osso non differiva tra i due gruppi, così come non variava l’incidenza di fratture. Allo stesso modo, non sono state osservate differenze importanti nelle concentrazioni dei marker serici analizzati e non vi era alcuna associazione tra questi marker e la rapidità nella perdita di osso.
Negli individui vegani è stata rilevata una più spiccata insufficienza di vitamina D accompagnata da una minore assunzione di calcio. Tuttavia questi due fattori non risultavano associati alla perdita di osso.
Globalmente, un basso peso corporeo, l'elevata assunzione di proteine animali e lipidi e l’utilizzo di farmaci corticosteroidi sono emersi quali fattori associati ad una maggiore velocità della perdita di osso da questo sito scheletrico. Il ruolo delle proteine di origine animale era già emerso da studi precedenti e sarebbe riconducibile alla produzione di eccessive quantità di acidi endogeni, i quali favorirebbero un più rapido riassorbimento del tessuto e quindi una maggiore riduzione di matrice ossea.
Fonte: L T Ho-Pham, B Q Vu1, T Q Lai, N D Nguyen and T V Nguyen Vegetarianism, bone loss, fracture and vitamin D: a longitudinal study in Asian vegans and non-vegans European Journal of Clinical Nutrition (2012) 66, 75–82; doi:10.1038/ejcn.2011.131
IBS : più sintomi meno vitamina B
_Potrebbe esistere un'associazione tra la gravità dei sintomi da IBS e l'assunzione di specifici gruppi di alimenti e nutrienti.
In uno studio che ha coinvolto 17 persone con IBS i sintomi sono stati riportati per 7 giorni consecutivi utilizzando un FFQ 24h recall che veniva analizzato secondo i criteri di Roma II.
Si è così dimostrato che l’assunzione di vitamina B₆ era l'unico componente della dieta significativamente associato alla diagnosi positiva per IBS.
L'assunzione media giornaliera di vitamina B₆ nel campione testato era di 0,9 mg/die (range 0,6-1,5), mentre la quota giornaliera raccomandata per gli uomini e le donne è rispettivamente 1,6 mg/die o più e 1,2 mg/die o più. In sostanza, un elevato punteggio dei sintomi era associato a una scarsa assunzione di vitamina B₆.
Gli autori ritengono quindi che una significativa associazione inversa tra assunzione di vitamina B₆ e gravità dei sintomi di IBS potrebbe avere implicazioni cliniche.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21636013
Nutr Res. 2011 May;31(5):356-61. Epub 2011 Apr 30.
Low intake of vitamin B6 is associated with irritable bowel syndrome symptoms.
In uno studio che ha coinvolto 17 persone con IBS i sintomi sono stati riportati per 7 giorni consecutivi utilizzando un FFQ 24h recall che veniva analizzato secondo i criteri di Roma II.
Si è così dimostrato che l’assunzione di vitamina B₆ era l'unico componente della dieta significativamente associato alla diagnosi positiva per IBS.
L'assunzione media giornaliera di vitamina B₆ nel campione testato era di 0,9 mg/die (range 0,6-1,5), mentre la quota giornaliera raccomandata per gli uomini e le donne è rispettivamente 1,6 mg/die o più e 1,2 mg/die o più. In sostanza, un elevato punteggio dei sintomi era associato a una scarsa assunzione di vitamina B₆.
Gli autori ritengono quindi che una significativa associazione inversa tra assunzione di vitamina B₆ e gravità dei sintomi di IBS potrebbe avere implicazioni cliniche.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21636013
Nutr Res. 2011 May;31(5):356-61. Epub 2011 Apr 30.
Low intake of vitamin B6 is associated with irritable bowel syndrome symptoms.
Più patate per gli ipertesi?
_Anche i cardiopatici ipertesi possono mangiare patate tutti i
giorni? Forse sì, con molta attenzione a qualità, quantità e tipo di
cottura.
In uno studio crossover 18 soggetti ipertesi con un BMI medio di 29 sono stati trattati aggiungendo alla dieta abituale 6-8 piccole patate cucinate nel forno a microonde (pigmentate di colore viola) due volte al giorno e per 4 settimane, e successivamente con la dieta senza patate per altre 4 settimane.
Si è così evidenziato che il consumo quotidiano di patate non aveva alcun effetto significativo sulla glicemia a digiuno, sui livelli plasmatici di HbA1c e sul quadro lipidico. Inoltre, non si poteva notare alcun significativo aumento del peso corporeo. La pressione diastolica era, invece, significativamente diminuita del 4,3% (una riduzione di 4 mm) e la sistolica era diminuita del 3,5%, (circa 5 mm). Tra l’altro, è da notare che 14/18 soggetti stavano assumendo farmaci antipertensivi.
In sintesi questo primo studio sulle patate viola ha dimostrato che queste possono essere introdotte nelle diete degli ipertesi anche se questi sono in sovrappeso.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22224463
J Agric Food Chem. 2012 Jan 5. [Epub ahead of print]
High antioxidant potatoes: Acute in vivo antioxidant source and hypotensive agent in humans after supplementation to hypertensive subjects.
In uno studio crossover 18 soggetti ipertesi con un BMI medio di 29 sono stati trattati aggiungendo alla dieta abituale 6-8 piccole patate cucinate nel forno a microonde (pigmentate di colore viola) due volte al giorno e per 4 settimane, e successivamente con la dieta senza patate per altre 4 settimane.
Si è così evidenziato che il consumo quotidiano di patate non aveva alcun effetto significativo sulla glicemia a digiuno, sui livelli plasmatici di HbA1c e sul quadro lipidico. Inoltre, non si poteva notare alcun significativo aumento del peso corporeo. La pressione diastolica era, invece, significativamente diminuita del 4,3% (una riduzione di 4 mm) e la sistolica era diminuita del 3,5%, (circa 5 mm). Tra l’altro, è da notare che 14/18 soggetti stavano assumendo farmaci antipertensivi.
In sintesi questo primo studio sulle patate viola ha dimostrato che queste possono essere introdotte nelle diete degli ipertesi anche se questi sono in sovrappeso.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22224463
J Agric Food Chem. 2012 Jan 5. [Epub ahead of print]
High antioxidant potatoes: Acute in vivo antioxidant source and hypotensive agent in humans after supplementation to hypertensive subjects.
La malnutrizione aumenta i costi
_La malnutrizione e la perdita di peso sono tra le comorbidità più
costose associate all’ospedalizzazione degli anziani con frattura
dell’anca.
Questo è quanto, in sintesi, è stato rilevato negli Stati Uniti attingendo i dati sui ricoveri dal Registro Nazionale 2007 con lo scopo primario di stimare l'impatto di diverse comorbidità sui costi di ospedalizzazione.
Sono stati così identificati 32.440 pazienti di età media superiore ai 55 anni con frattura dell’anca. Ipertensione, anemie carenziali, disordini elettrolitici si configuravano come le più comuni comorbidità. I pazienti comunque avevano una media di tre comorbidità. Solo il 4,9% dei pazienti fratturati si presentava senza comorbidità. La condizione con il maggior aumento dei costi di ospedalizzazione è stata la perdita di peso o la malnutrizione, seguiti da disturbi cardiocircolatori e polmonari.
Gli autori ritengono dunque che, a seguito di frattura dell'anca negli anziani, le comorbidità aumentino significativamente i costi di ospedalizzazione e la durata del soggiorno, specie se accompagnate da malnutrizione e perdita di peso.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22218377
J Bone Joint Surg Am. 2012 Jan 4;94(1):9-17.
Impact of comorbidities on hospitalization costs following hip fracture.
Questo è quanto, in sintesi, è stato rilevato negli Stati Uniti attingendo i dati sui ricoveri dal Registro Nazionale 2007 con lo scopo primario di stimare l'impatto di diverse comorbidità sui costi di ospedalizzazione.
Sono stati così identificati 32.440 pazienti di età media superiore ai 55 anni con frattura dell’anca. Ipertensione, anemie carenziali, disordini elettrolitici si configuravano come le più comuni comorbidità. I pazienti comunque avevano una media di tre comorbidità. Solo il 4,9% dei pazienti fratturati si presentava senza comorbidità. La condizione con il maggior aumento dei costi di ospedalizzazione è stata la perdita di peso o la malnutrizione, seguiti da disturbi cardiocircolatori e polmonari.
Gli autori ritengono dunque che, a seguito di frattura dell'anca negli anziani, le comorbidità aumentino significativamente i costi di ospedalizzazione e la durata del soggiorno, specie se accompagnate da malnutrizione e perdita di peso.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22218377
J Bone Joint Surg Am. 2012 Jan 4;94(1):9-17.
Impact of comorbidities on hospitalization costs following hip fracture.
Il peso dei cereali integrali
_Una maggiore assunzione di cereali integrali è associata a un BMI più basso.
Tutti gli studi epidemiologici prospettici dimostrano che una maggiore assunzione di cereali integrali è associata a più basso indice di massa corporea e a un peso inferiore.
Tuttavia, non è chiaro se il consumo di cereali integrali è semplicemente un indicatore di uno stile di vita sano o un fattore già "per sé" influenzante il peso corporeo.
In altri termini, l’abituale consumo di cereali integrali potrebbe causare riduzione del peso corporeo attraverso meccanismi multipli, come la densità di energia inferiore di prodotti a base di cereali integrali, basso indice glicemico, la fermentazione dei carboidrati non digeribili (segnali di sazietà) e, infine, modulando la microflora intestinale.
In contrasto con l’evidenza epidemiologica, i risultati di alcuni studi clinici non confermano che una dieta ipocalorica con cereali integrali è più efficace nel ridurre il peso corporeo, rispetto una dieta basata su cereali raffinati, ma i dati potrebbero essere inficiati dalla piccola dimensione del campione o da interventi correttivi di minore durata.
Pertanto, secondo un gruppo di ricercatori dell’Università di Avellino, ulteriori studi epidemiologici sono necessari per la conferma dell’ipotesi che un maggior consumo di cereali integrali si possa raccomandare per il controllo del peso corporeo, senza dimenticare che una dieta ricca in cereali integrali è associata a un minor rischio di sviluppare diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari e cancro.
Fonte
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22036468
Nutr Metab Cardiovasc Dis. 2011 Dec;21(12):901-8. Epub 2011 Oct 28.
Whole grain intake in relation to body weight: From epidemiological evidence to clinical trials.
Tutti gli studi epidemiologici prospettici dimostrano che una maggiore assunzione di cereali integrali è associata a più basso indice di massa corporea e a un peso inferiore.
Tuttavia, non è chiaro se il consumo di cereali integrali è semplicemente un indicatore di uno stile di vita sano o un fattore già "per sé" influenzante il peso corporeo.
In altri termini, l’abituale consumo di cereali integrali potrebbe causare riduzione del peso corporeo attraverso meccanismi multipli, come la densità di energia inferiore di prodotti a base di cereali integrali, basso indice glicemico, la fermentazione dei carboidrati non digeribili (segnali di sazietà) e, infine, modulando la microflora intestinale.
In contrasto con l’evidenza epidemiologica, i risultati di alcuni studi clinici non confermano che una dieta ipocalorica con cereali integrali è più efficace nel ridurre il peso corporeo, rispetto una dieta basata su cereali raffinati, ma i dati potrebbero essere inficiati dalla piccola dimensione del campione o da interventi correttivi di minore durata.
Pertanto, secondo un gruppo di ricercatori dell’Università di Avellino, ulteriori studi epidemiologici sono necessari per la conferma dell’ipotesi che un maggior consumo di cereali integrali si possa raccomandare per il controllo del peso corporeo, senza dimenticare che una dieta ricca in cereali integrali è associata a un minor rischio di sviluppare diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari e cancro.
Fonte
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22036468
Nutr Metab Cardiovasc Dis. 2011 Dec;21(12):901-8. Epub 2011 Oct 28.
Whole grain intake in relation to body weight: From epidemiological evidence to clinical trials.
Meno pasti uguale più peso ?
_Frequenza dei pasti e aumento del BMI e dell’adiposità.
Una maggiore frequenza dei pasti giornalieri potrebbe essere associata a un aumento del BMI e dell’adiposità. Ma forse non è così.
Hanno cercato di approfondire la questione, gli studiosi californiani del Center for Weight and Health (University of California, Berkeley) che hanno analizzato i cambiamenti del BMI e della circonferenza vita (WC) nell’arco di 10 anni, in relazione alla frequenza dei pasti riportata in un 3-d recall di 2372 ragazze partecipanti al National Heart, Lung, and Blood Institute Growth e Health Study.
L’analisi ha dimostrato in sintesi, e in sostanza, che una minore frequenza dei pasti induceva un maggior guadagno di adiposità nelle adolescenti, con alcune differenze correlate all’etnia. Per le ragazze bianche, minore frequenza dei pasti equivaleva a elevazione del BMI e della circonferenza vita.
Per le giovani nere ancor peggio, in quanto una minore frequenza dei pasti e degli spuntini era correlata a tendenza crescente dell’aumento del BMI e della WC.
Le adolescenti sembrano dunque più soggette al rischio di obesità una prospettiva pericolosa che va vigilata e maggiormente considerata nei piani educativi.E un maggior impiego di questionari FFQ non guasta.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22218154
Am J Clin Nutr. 2012 Jan 4. [Epub ahead of print]
Less frequent eating predicts greater BMI and waist circumference in female adolescents.
Ritchie LD.
Una maggiore frequenza dei pasti giornalieri potrebbe essere associata a un aumento del BMI e dell’adiposità. Ma forse non è così.
Hanno cercato di approfondire la questione, gli studiosi californiani del Center for Weight and Health (University of California, Berkeley) che hanno analizzato i cambiamenti del BMI e della circonferenza vita (WC) nell’arco di 10 anni, in relazione alla frequenza dei pasti riportata in un 3-d recall di 2372 ragazze partecipanti al National Heart, Lung, and Blood Institute Growth e Health Study.
L’analisi ha dimostrato in sintesi, e in sostanza, che una minore frequenza dei pasti induceva un maggior guadagno di adiposità nelle adolescenti, con alcune differenze correlate all’etnia. Per le ragazze bianche, minore frequenza dei pasti equivaleva a elevazione del BMI e della circonferenza vita.
Per le giovani nere ancor peggio, in quanto una minore frequenza dei pasti e degli spuntini era correlata a tendenza crescente dell’aumento del BMI e della WC.
Le adolescenti sembrano dunque più soggette al rischio di obesità una prospettiva pericolosa che va vigilata e maggiormente considerata nei piani educativi.E un maggior impiego di questionari FFQ non guasta.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22218154
Am J Clin Nutr. 2012 Jan 4. [Epub ahead of print]
Less frequent eating predicts greater BMI and waist circumference in female adolescents.
Ritchie LD.
L'Abbuffata nasconde molti problemi
Un nuovo studio associa l’obesità e problemi interpersonali.
Un nuovo studio suggerisce un’associazione tra l’obesità con disordini alimentari e abbuffate (binge eating disorder - BED) e problemi interpersonali.
E’ stata esaminata l'empatia e altre abilità sociali delle donne obese con BED.
I risultati hanno mostrato che cinque abilità sociali erano statisticamente associate alla possibilità di presentare BED.
Donne obese con meno assertività, minore capacità di esprimere sentimenti, una minore capacità di trattare con gli sconosciuti, minore capacità di comprendere la prospettiva degli altri, e con più elevati livelli di stress in situazioni interpersonali, avevano una maggiore probabilità di una diagnosi di BED.
Se le condotte alimentari sembrano più salutari quando un maggior numero di pasti si consuma in famiglia, è meglio educare i nostri pazienti a non abbuffarsi neppure nelle occasioni festive.
Per riportarli in forma sarà sempre bene ricorrere alla psicometria e ai diari alimentari.
Un nuovo studio suggerisce un’associazione tra l’obesità con disordini alimentari e abbuffate (binge eating disorder - BED) e problemi interpersonali.
E’ stata esaminata l'empatia e altre abilità sociali delle donne obese con BED.
I risultati hanno mostrato che cinque abilità sociali erano statisticamente associate alla possibilità di presentare BED.
Donne obese con meno assertività, minore capacità di esprimere sentimenti, una minore capacità di trattare con gli sconosciuti, minore capacità di comprendere la prospettiva degli altri, e con più elevati livelli di stress in situazioni interpersonali, avevano una maggiore probabilità di una diagnosi di BED.
Se le condotte alimentari sembrano più salutari quando un maggior numero di pasti si consuma in famiglia, è meglio educare i nostri pazienti a non abbuffarsi neppure nelle occasioni festive.
Per riportarli in forma sarà sempre bene ricorrere alla psicometria e ai diari alimentari.
Frutta e verdura attenuano il danno renale
Lo studio ha dimostrato che la frutta e verdura con proprietà alcalinizzanti producono un effetto simile al sodio bicarbonato nella nefropatia ipertensiva.
Il tamponamento degli acidi alimentari con sodio bicarbonato è una strategia valida per attenuare il danno renale nelle nefropatie avanzate.
Questo trattamento sembra inoltre rallentare il declino nella capacità di filtrazione glomerulare nei modelli animali sperimentali e produce effetti simili nei pazienti affetti da insufficienza renale cronica. Tuttavia, l’assunzione di sodio può costituire un problema nei pazienti che già presentano una riduzione nella filtrazione glomerulare.
Poichè è dimostrato che alcuni alimenti alcalinizzanti permettono di attenuare il danno renale nei modelli animali di alcune forme di nefropatia, nel presente studio è stato comparata l’efficacia del consumo di frutta e verdura alcalina con il sodio bicarbonato nel favorire un recupero del danno renale in pazienti con nefropatia ipertensiva in stadio 1 e 2.
I pazienti sono stati valutati a 30 giorni di distanza dall’arruolamento nello studio senza aver ancora ricevuto alcuno dei seguenti trattamenti, presupponendo che l’introito giornaliero di sodio bicarbonato, e le porzioni di frutta e verdura dimezzassero le fonti alimentari di acidi.
Tutti pazienti arrivavano da almeno sei mesi di trattamento antipertensivo con inibitori dell’enzima convertitore dell’angiotensina non seguivano alcuna restrizioneo regime alimentare specifico.
Gli indici del danno renale non si modificavano nel gruppo in stadio 1.
Diversamente i due trattamenti producevano ugualmente un netto miglioramento nel profilo renale del gruppo in stadio 2.
L’assunzione di sodio bicarbonato e di frutta e verdura entrambi riducevano i livelli di albumina urinaria, l’attività dell’enzima N-acetil β-D-glucosaminidasi e così come la concentrazione di transforming growth factor β.
La neutralizzazione degli acidi alimentari permetteva quindi un parziale recupero del danno renale nei soggetti con un tasso di filtrazione glomerulare moderatamente ridotto secondario a nefropatia ipertensiva.
Lo studio ha dimostrato che la frutta e verdura con proprietà alcalinizzanti producono un effetto simile al sodio bicarbonato.
Frutta e verdura costituiscono quindi un valido supplemento protettivo per preservare la funzione dell’organo nella nefropatia ipertensiva ed altre patologie renali in quanto riducono la pressione sanguigna agendo in parte mediante l’inibizione dell’enzima convertitore dell’angiotensina.
Fonte: Nimrit Goraya, Jan Simoni, Chanhee Jo and Donald E Wesson Kidney International (2012) 81, 8693; doi:10.1038/ki.2011.313; published online 31 August 2011 Dietary acid reduction with fruits and vegetables or bicarbonate attenuates kidney injury
Il tamponamento degli acidi alimentari con sodio bicarbonato è una strategia valida per attenuare il danno renale nelle nefropatie avanzate.
Questo trattamento sembra inoltre rallentare il declino nella capacità di filtrazione glomerulare nei modelli animali sperimentali e produce effetti simili nei pazienti affetti da insufficienza renale cronica. Tuttavia, l’assunzione di sodio può costituire un problema nei pazienti che già presentano una riduzione nella filtrazione glomerulare.
Poichè è dimostrato che alcuni alimenti alcalinizzanti permettono di attenuare il danno renale nei modelli animali di alcune forme di nefropatia, nel presente studio è stato comparata l’efficacia del consumo di frutta e verdura alcalina con il sodio bicarbonato nel favorire un recupero del danno renale in pazienti con nefropatia ipertensiva in stadio 1 e 2.
I pazienti sono stati valutati a 30 giorni di distanza dall’arruolamento nello studio senza aver ancora ricevuto alcuno dei seguenti trattamenti, presupponendo che l’introito giornaliero di sodio bicarbonato, e le porzioni di frutta e verdura dimezzassero le fonti alimentari di acidi.
Tutti pazienti arrivavano da almeno sei mesi di trattamento antipertensivo con inibitori dell’enzima convertitore dell’angiotensina non seguivano alcuna restrizioneo regime alimentare specifico.
Gli indici del danno renale non si modificavano nel gruppo in stadio 1.
Diversamente i due trattamenti producevano ugualmente un netto miglioramento nel profilo renale del gruppo in stadio 2.
L’assunzione di sodio bicarbonato e di frutta e verdura entrambi riducevano i livelli di albumina urinaria, l’attività dell’enzima N-acetil β-D-glucosaminidasi e così come la concentrazione di transforming growth factor β.
La neutralizzazione degli acidi alimentari permetteva quindi un parziale recupero del danno renale nei soggetti con un tasso di filtrazione glomerulare moderatamente ridotto secondario a nefropatia ipertensiva.
Lo studio ha dimostrato che la frutta e verdura con proprietà alcalinizzanti producono un effetto simile al sodio bicarbonato.
Frutta e verdura costituiscono quindi un valido supplemento protettivo per preservare la funzione dell’organo nella nefropatia ipertensiva ed altre patologie renali in quanto riducono la pressione sanguigna agendo in parte mediante l’inibizione dell’enzima convertitore dell’angiotensina.
Fonte: Nimrit Goraya, Jan Simoni, Chanhee Jo and Donald E Wesson Kidney International (2012) 81, 8693; doi:10.1038/ki.2011.313; published online 31 August 2011 Dietary acid reduction with fruits and vegetables or bicarbonate attenuates kidney injury
Più uova a pranzo meno calorie a cena
Le uova sembrano avere un buon potere saziante
Le uova sembrano avere un buon potere . Se mangiate a pranzo possono diminuire l’assunzione energetica tra un pasto e l’altro.
Lo confermano i risultati di uno studio randomizzato e incrociato condotto su 31 soggetti volontari sani di entrambi i sessi, che sono stati sottoposti a 3 pasti test.
In pratica, subito dopo una colazione standard ai partecipanti è stato chiesto di consumare tre pranzi test ipocalorici: frittata, patate in camicia e sandwich di pollo.
Sono state definite alcune misure di sazietà e i consumi energetici del pasto successivo al test sono stai calcolati.
In sostanza, il pasto a base di frittata, ha mostrato un effetto saziante significativamente più forte rispetto al pasto a base di patate in camicia.
Nessun effetto significativo si è potuto evidenziare riguardo l’assunzione energetica. Gli autori ritengono, tuttavia, che il consumo di una frittata a pranzo, possa aumentare la sazietà in misura maggiore rispetto a un pasto di carboidrati , facilitando la riduzione dei consumi energetici tra un pasto e quello successivo.
The effects of consuming eggs for lunch on satiety and subsequent food intake.
Fonte: Int J Food Sci Nutr. 2011 Sep;62(6):593-9. Epub 2011 Apr 18.
Le uova sembrano avere un buon potere . Se mangiate a pranzo possono diminuire l’assunzione energetica tra un pasto e l’altro.
Lo confermano i risultati di uno studio randomizzato e incrociato condotto su 31 soggetti volontari sani di entrambi i sessi, che sono stati sottoposti a 3 pasti test.
In pratica, subito dopo una colazione standard ai partecipanti è stato chiesto di consumare tre pranzi test ipocalorici: frittata, patate in camicia e sandwich di pollo.
Sono state definite alcune misure di sazietà e i consumi energetici del pasto successivo al test sono stai calcolati.
In sostanza, il pasto a base di frittata, ha mostrato un effetto saziante significativamente più forte rispetto al pasto a base di patate in camicia.
Nessun effetto significativo si è potuto evidenziare riguardo l’assunzione energetica. Gli autori ritengono, tuttavia, che il consumo di una frittata a pranzo, possa aumentare la sazietà in misura maggiore rispetto a un pasto di carboidrati , facilitando la riduzione dei consumi energetici tra un pasto e quello successivo.
The effects of consuming eggs for lunch on satiety and subsequent food intake.
Fonte: Int J Food Sci Nutr. 2011 Sep;62(6):593-9. Epub 2011 Apr 18.
Il vino è un elisir ?
Numerose evidenze suggeriscono i benefici di consumi moderati di vino sulla mortalità totale, tuttavia un unico effetto protettivo del vino non è ancora chiaro.
In uno studio condotto in proposito su un totale di 802 soggetti adulti tra i 55 e i 65 anni sono stati analizzati i consumi di vino e altri fattori socio-demografici considerando lo stato di salute generale al basale.
I partecipanti sono stati suddivisi in tre sottogruppi: astemi, bevitori moderati di alcolici a elevato consumo di vino, bevitori moderati di alcolici a basso consumo di vino.
La mortalità totale è stata quindi calcolata secondo un follow-up di 20 anni.
Si è così evidenziato, in sintesi, che rispetto agli astemi, sia i bevitori moderati ad alto che a basso consumo, mostravano un indice di mortalità inferiore.
Inoltre, i bevitori moderati di alcolici con quota più elevata di etanolo proveniente da consumo di vino, rispetto ai bevitori moderati di alcolici con quota più bassa di etanolo proveniente da consumo di vino erano in maggioranza maschi, fumatori, con più problemi di salute e con basso livello socio-culturale e demografico.
Tuttavia, dopo la verifica e l’abbattimento delle possibili varianze, la differenza di mortalità inizialmente associata con il consumo di vino, perdeva la significatività.
Gli autori concludono suggerendo che la mortalità possa essere legata ai consumi di alcol e di vino, nonostante interferenze elevate di altri fattori confondenti.
Fonte:
Wine consumption and 20-year mortality among late-life moderate drinkers.
Fonte: J Stud Alcohol Drugs. 2012 Jan;73(1):80-8.
In uno studio condotto in proposito su un totale di 802 soggetti adulti tra i 55 e i 65 anni sono stati analizzati i consumi di vino e altri fattori socio-demografici considerando lo stato di salute generale al basale.
I partecipanti sono stati suddivisi in tre sottogruppi: astemi, bevitori moderati di alcolici a elevato consumo di vino, bevitori moderati di alcolici a basso consumo di vino.
La mortalità totale è stata quindi calcolata secondo un follow-up di 20 anni.
Si è così evidenziato, in sintesi, che rispetto agli astemi, sia i bevitori moderati ad alto che a basso consumo, mostravano un indice di mortalità inferiore.
Inoltre, i bevitori moderati di alcolici con quota più elevata di etanolo proveniente da consumo di vino, rispetto ai bevitori moderati di alcolici con quota più bassa di etanolo proveniente da consumo di vino erano in maggioranza maschi, fumatori, con più problemi di salute e con basso livello socio-culturale e demografico.
Tuttavia, dopo la verifica e l’abbattimento delle possibili varianze, la differenza di mortalità inizialmente associata con il consumo di vino, perdeva la significatività.
Gli autori concludono suggerendo che la mortalità possa essere legata ai consumi di alcol e di vino, nonostante interferenze elevate di altri fattori confondenti.
Fonte:
Wine consumption and 20-year mortality among late-life moderate drinkers.
Fonte: J Stud Alcohol Drugs. 2012 Jan;73(1):80-8.
Carenza di sodio e deterioramento osseo, c'è un nesso ?
Nuove osservazioni epidemiologiche hanno avvertito sull'esistenza di complicazioni a carico dell'osso: tra queste vi sarebbero prorio la fragilità ossea e il rischio di frattura.
L’iponatriemia, ossia la carenza cronica o lieve di sodio, è il più comune disordine elettrolitico. Questa condizione è principalmente conosciuta per gli effetti neurologici tra cui disturbi nella deambulazione e deficit di attenzione. Diversamente, non si conoscono le conseguenze delle forme lievi e asintomatiche di questo disordine su altri tessuti.
Nuove osservazioni epidemiologiche hanno avvertito sull’esistenza di complicazioni a carico dell’osso: tra queste vi sarebbero prorio la fragilità ossea e il rischio di frattura. Tuttavia, non è chiaro se il disordine elettrolitico abbia un effetto diretto sull’osso o costituisca un indicatore surrogato di una distinta eziologia.
Lo studio National Health and Nutrition Examination Survey III (NHANES III) ha identificato l’iponatriemia come nuovo fattore di rischio per l’osteoporosi in quanto associato ad una riduzione della massa minerale ossea. Nello studio, gli individui affetti da iponatriemia (<135 mmol/l) presentavano una probabilità 3 volte superiore di sviluppare l'osteoporosi rispetto ai controlli normonatriemici. La concentrazione di sodio spiegava il 15 % della varianza osservata nei valori di densità minerale ossea a livello dell’anca.
Altri studi osservazionali hanno invece rilevato un’associazione tra il disordine elettrolitico ed un rischio di fratture da caduta quattro volta superiore nei soggetti iponatriemici rispetto ai controlli sani. Tra le possibili cause della ridotta concentrazione di sodio è stata indicata l’assunzione di farmaci inibitori del reuptake della serotonina. Queste osservazioni non suggerivano però che la relazione tra iponatriemia e fratture fosse mediata dalla riduzione della densità minerale ossea.
Un terzo studio prospettico ha invece supportato il ruolo dell’iponatriemia quale fattore responsabile della compromissione del contenuto minerale osseo, dimostrando come la ridotta concentrazione di sodio favorisse fratture ossee di tipo vertebrale durante il follow-up, una situazione attribuibile unicamente alla compromissione ossea e non a traumi.
Studi in vivo ed in vitro hanno suggerito un’azione diretta dell'iponatriemia sul metabolismo osseo, mediato dalle cellule osteoclastiche. Il modello animale iponatriemico presentava infatti una cospicua riduzione della densità minerale ed anche alterazioni strutturale del tessuto osseo. L’analisi cellulare ha inoltre dimostrato una preponderanza di cellule osteoclastiche. A queste osservazioni si aggiungeva una riduzione del marker osteocalcina, un indicatore della formazione attiva di osso, ed anche una riduzione dei livelli di 25-idrossivitamina D.
In vitro è stato dimostrato che la riduzione della concentrazione di sodio del medium di coltura a 112 – 113 mmol/l avviava la differenziazione delle cellule monocitiche in osteoclasti e stimolava la loro attivazione. Questi effetti non venivano aboliti a seguito di normalizzazione del medium con soluti aspecifici ma solamente aumentando la concentrazione del sodio.
Tuttavia l’identità di un sensore cellulare per il sodio, ovvero un ipotetico recettore simile a quanto dimostrato per il calcio, non è stata definita, ma potrebbe essere attribuibile agli stessi canali ionici che regolano il flusso di correnti cellulari.
Di fonte a queste premature osservazioni è ancora presto per poter speculare che l’iponatriemia abbia un ruolo diretto nella riduzione della densità minerale. Soprattutto sorgono spontanee alcune domande. Prima di tutto, l’iponatriemia agisce realmente in maniera diretta sulle cellule ossee? Secondariamente, come è possibile spiegare le osservazioni opposte sull’associazione tra iponatriemia e riduzione della densità minerale ossea? Infine, è necessario lo screening per l’iponatriemia nei pazienti affetti da osteoporosi oppure misurare la densità ossea in presenza di disturbi cronici elettrolitici del sodio?
Al momento, nessuna analisi ha valutato se la correzione del disordine elettrolitico prevenga il rischio di cadute, di osteoporosi e delle fratture. Dunque, sembra ancora troppo presto per pensare a campagne di screening.
Fonte: Ewout J. Hoorn, George Liamis, Robert Zietse et al. Hyponatremia and bone: an emerging relationship Nature Reviews Endocrinology 8, 33-39 (January 2012) | doi:10.1038/nrendo.2011.173
L’iponatriemia, ossia la carenza cronica o lieve di sodio, è il più comune disordine elettrolitico. Questa condizione è principalmente conosciuta per gli effetti neurologici tra cui disturbi nella deambulazione e deficit di attenzione. Diversamente, non si conoscono le conseguenze delle forme lievi e asintomatiche di questo disordine su altri tessuti.
Nuove osservazioni epidemiologiche hanno avvertito sull’esistenza di complicazioni a carico dell’osso: tra queste vi sarebbero prorio la fragilità ossea e il rischio di frattura. Tuttavia, non è chiaro se il disordine elettrolitico abbia un effetto diretto sull’osso o costituisca un indicatore surrogato di una distinta eziologia.
Lo studio National Health and Nutrition Examination Survey III (NHANES III) ha identificato l’iponatriemia come nuovo fattore di rischio per l’osteoporosi in quanto associato ad una riduzione della massa minerale ossea. Nello studio, gli individui affetti da iponatriemia (<135 mmol/l) presentavano una probabilità 3 volte superiore di sviluppare l'osteoporosi rispetto ai controlli normonatriemici. La concentrazione di sodio spiegava il 15 % della varianza osservata nei valori di densità minerale ossea a livello dell’anca.
Altri studi osservazionali hanno invece rilevato un’associazione tra il disordine elettrolitico ed un rischio di fratture da caduta quattro volta superiore nei soggetti iponatriemici rispetto ai controlli sani. Tra le possibili cause della ridotta concentrazione di sodio è stata indicata l’assunzione di farmaci inibitori del reuptake della serotonina. Queste osservazioni non suggerivano però che la relazione tra iponatriemia e fratture fosse mediata dalla riduzione della densità minerale ossea.
Un terzo studio prospettico ha invece supportato il ruolo dell’iponatriemia quale fattore responsabile della compromissione del contenuto minerale osseo, dimostrando come la ridotta concentrazione di sodio favorisse fratture ossee di tipo vertebrale durante il follow-up, una situazione attribuibile unicamente alla compromissione ossea e non a traumi.
Studi in vivo ed in vitro hanno suggerito un’azione diretta dell'iponatriemia sul metabolismo osseo, mediato dalle cellule osteoclastiche. Il modello animale iponatriemico presentava infatti una cospicua riduzione della densità minerale ed anche alterazioni strutturale del tessuto osseo. L’analisi cellulare ha inoltre dimostrato una preponderanza di cellule osteoclastiche. A queste osservazioni si aggiungeva una riduzione del marker osteocalcina, un indicatore della formazione attiva di osso, ed anche una riduzione dei livelli di 25-idrossivitamina D.
In vitro è stato dimostrato che la riduzione della concentrazione di sodio del medium di coltura a 112 – 113 mmol/l avviava la differenziazione delle cellule monocitiche in osteoclasti e stimolava la loro attivazione. Questi effetti non venivano aboliti a seguito di normalizzazione del medium con soluti aspecifici ma solamente aumentando la concentrazione del sodio.
Tuttavia l’identità di un sensore cellulare per il sodio, ovvero un ipotetico recettore simile a quanto dimostrato per il calcio, non è stata definita, ma potrebbe essere attribuibile agli stessi canali ionici che regolano il flusso di correnti cellulari.
Di fonte a queste premature osservazioni è ancora presto per poter speculare che l’iponatriemia abbia un ruolo diretto nella riduzione della densità minerale. Soprattutto sorgono spontanee alcune domande. Prima di tutto, l’iponatriemia agisce realmente in maniera diretta sulle cellule ossee? Secondariamente, come è possibile spiegare le osservazioni opposte sull’associazione tra iponatriemia e riduzione della densità minerale ossea? Infine, è necessario lo screening per l’iponatriemia nei pazienti affetti da osteoporosi oppure misurare la densità ossea in presenza di disturbi cronici elettrolitici del sodio?
Al momento, nessuna analisi ha valutato se la correzione del disordine elettrolitico prevenga il rischio di cadute, di osteoporosi e delle fratture. Dunque, sembra ancora troppo presto per pensare a campagne di screening.
Fonte: Ewout J. Hoorn, George Liamis, Robert Zietse et al. Hyponatremia and bone: an emerging relationship Nature Reviews Endocrinology 8, 33-39 (January 2012) | doi:10.1038/nrendo.2011.173
Più mediterranea, meno ictus
Una stretta aderenza alla dieta mediterranea si associa a una diminuzione del rischio di eventi cardiovascolari.
In uno studio americano che ha coinvolto 2.568 partecipanti, di 69 ± 10 anni, sono state indagate le abitudini alimentari mediante la compilazione di questionari (FFQ ), mentre la valutazione della dieta si riferiva a una scala 0-9, nella quale punteggi più alti indicavano una maggiore aderenza alla dieta mediterranea.
Durante il follow-up, che è durato per più di 9 anni, si sono verificati in totale 518 eventi vascolari (171 ictus ischemici, 133 IMA e 314 decessi per cause vascolari).
Al termine dell’osservazione l’analisi dei dati raccolti ha dimostrato che l’aderenza alla dieta mediterranea era inversamente associata al rischio di tali eventi.
Ancora una conferma alla salubrità della dieta mediterranea.
Fonte:
Mediterranean-style diet and risk of ischemic stroke, myocardial infarction, and vascular death: the Northern Manhattan Study.
Fonte: Am J Clin Nutr. 2011 Dec;94(6):1458-64. Epub 2011 Nov 9.
In uno studio americano che ha coinvolto 2.568 partecipanti, di 69 ± 10 anni, sono state indagate le abitudini alimentari mediante la compilazione di questionari (FFQ ), mentre la valutazione della dieta si riferiva a una scala 0-9, nella quale punteggi più alti indicavano una maggiore aderenza alla dieta mediterranea.
Durante il follow-up, che è durato per più di 9 anni, si sono verificati in totale 518 eventi vascolari (171 ictus ischemici, 133 IMA e 314 decessi per cause vascolari).
Al termine dell’osservazione l’analisi dei dati raccolti ha dimostrato che l’aderenza alla dieta mediterranea era inversamente associata al rischio di tali eventi.
Ancora una conferma alla salubrità della dieta mediterranea.
Fonte:
Mediterranean-style diet and risk of ischemic stroke, myocardial infarction, and vascular death: the Northern Manhattan Study.
Fonte: Am J Clin Nutr. 2011 Dec;94(6):1458-64. Epub 2011 Nov 9.
Dieta e stile per dare la vita
La dieta abituale e lo stile di vita influenzano il successo dei programmi di fecondazione assistita.
Indagando sulle abitudini alimentari e lo stile di vita in alcune coppie con problemi di fertilità che ricorrevano alla fecondazione assistita si è visto che la concentrazione spermatica era negativamente influenzata dal BMI e dal consumo di alcol, ma positivamente influenzata dal consumo di cereali e dal numero di pasti quotidiani.
La motilità degli spermatozoi, inoltre, era negativamente influenzata da BMI, consumo di alcol e abitudine al fumo, mentre era positivamente influenzata dal consumo di frutta e cereali. E ancora, il consumo di alcol ha avuto un influsso negativo sul tasso di fecondazione.
Il consumo di carne rossa poi ha avuto un impatto negativo sul tasso di impianto.
Inoltre, il consumo di carne rossa ha influito sulla probabilità di gravidanza. Gli autori concludono con la raccomandazione di indagare le abitudini alimentari delle coppie in cerca di gravidanza, consigliandole anche sulla dieta e lo stile di vita.
Fonte:
Food intake and social habits in male patients and its relationship to intracytoplasmic sperm injection outcomes.
Fonte: Fertil Steril. 2011 Nov 10. [Epub ahead of print]
Indagando sulle abitudini alimentari e lo stile di vita in alcune coppie con problemi di fertilità che ricorrevano alla fecondazione assistita si è visto che la concentrazione spermatica era negativamente influenzata dal BMI e dal consumo di alcol, ma positivamente influenzata dal consumo di cereali e dal numero di pasti quotidiani.
La motilità degli spermatozoi, inoltre, era negativamente influenzata da BMI, consumo di alcol e abitudine al fumo, mentre era positivamente influenzata dal consumo di frutta e cereali. E ancora, il consumo di alcol ha avuto un influsso negativo sul tasso di fecondazione.
Il consumo di carne rossa poi ha avuto un impatto negativo sul tasso di impianto.
Inoltre, il consumo di carne rossa ha influito sulla probabilità di gravidanza. Gli autori concludono con la raccomandazione di indagare le abitudini alimentari delle coppie in cerca di gravidanza, consigliandole anche sulla dieta e lo stile di vita.
Fonte:
Food intake and social habits in male patients and its relationship to intracytoplasmic sperm injection outcomes.
Fonte: Fertil Steril. 2011 Nov 10. [Epub ahead of print]
Disordini lipidici, a rischio già gli adolescenti sovrappeso
Nei bambini e adolescenti con elevato indice di massa corporea sono presenti alterazioni del metabolismo lipidico rivelate dall'iperlipidemia postprandiale
L’adolescenza rappresenta un periodo critico per la regolazione del peso corporeo. Molteplici fattori sono in gioco nel favorire l’obesità infantile; tra questi vi sono cause biologiche, comportamentali ed ambientali, le quali agiscono in modo sinergico.
La sedentarietà è forse il comportamento che maggiormante predispone al sovrappeso nei bambini e negli adolescenti. Durante la pre-adolescenza, inoltre, si assiste ad un rapido declino nei livelli di attività fisica. Questi fattori sono, in parte, responsabili dei disturbi del metabolismo dei lipidi plasmatici e possono, quindi, predisporre ad un incontro precoce con le patologie cardiovascolari.
La patologia aterosclerotica è infatti il risultato di un lento e silenzioso processo che affonda, spesso, le sue radici proprio nell’infanzia. Tipicamente, le manifestazioni cliniche appaiono evidenti nell’età adulta, ma i meccanismi patologici possono essere in atto già durante la giovane età, contribuendo ad una maggiore rapidità di progressione del danno vascolare.
I bambini e gli adolescenti che presentano un elevato indice di massa corporea sono caratterizzati da alterazioni dei lipidi plasmatici che si manifestano clinicamente nell’iperlipidemia postprandiale.
L’iperlipidemia postprandiale consiste nella modificazione abnorme della concentrazione e della composizione delle lipoproteine che si verifica a seguito del consumo di un pasto grasso.
Il disturbo del metabolismo delle lipoproteine plasmatiche si inserisce nel quadro patologico conosciuto come sindrome metabolica ed è strettamente collegato con il profilo insulinemico e glicemico. È nota una relazione diretta tra l’iperinsulinemia e la lipemia postprandiale, sebbene i meccanismi coinvolti non siano del tutto chiari. L’iperinsulinemia post-prandiale sembra infatti alterare la risposte metaboliche delle lipoproteine epatiche e intestinali e quindi contribuire allo sviluppo e progressione della patologia coronarica.
Data l’estrema pericolosità di questi fenomeni è indispensabile intervenire nei bambini e negli adolescenti attraverso strategie preventive e terapeutiche efficaci che permettano di ristabilire una corretta fisiologia.
La regolazione della dieta gioca un ruolo fondamentale nella prevenzione di questi disturbi. Il consumo di pasti a composizione mista, contenenti carboidrati a lento assorbimento, produce infatti una risposta glicemica e insulinemica ridotta, capace di alterare positivamente il metabolismo e l’accumulo delle lipoproteine epatiche ed intestinali nel sangue.
Numerosi studi hanno inoltre dimostrato che un pattern di attività fisica intermittente, in particolare l’esercizio postprandiale, può decisamente attenuare questi fattori di rischio.
Fonte: Sahade V, Frana S, Badar R, Fernando Adn L.Obesity and postprandial lipemia in adolescents: Risk factors for cardiovascular disease. Endocrinol Nutr. 2011 Nov 30.
L’adolescenza rappresenta un periodo critico per la regolazione del peso corporeo. Molteplici fattori sono in gioco nel favorire l’obesità infantile; tra questi vi sono cause biologiche, comportamentali ed ambientali, le quali agiscono in modo sinergico.
La sedentarietà è forse il comportamento che maggiormante predispone al sovrappeso nei bambini e negli adolescenti. Durante la pre-adolescenza, inoltre, si assiste ad un rapido declino nei livelli di attività fisica. Questi fattori sono, in parte, responsabili dei disturbi del metabolismo dei lipidi plasmatici e possono, quindi, predisporre ad un incontro precoce con le patologie cardiovascolari.
La patologia aterosclerotica è infatti il risultato di un lento e silenzioso processo che affonda, spesso, le sue radici proprio nell’infanzia. Tipicamente, le manifestazioni cliniche appaiono evidenti nell’età adulta, ma i meccanismi patologici possono essere in atto già durante la giovane età, contribuendo ad una maggiore rapidità di progressione del danno vascolare.
I bambini e gli adolescenti che presentano un elevato indice di massa corporea sono caratterizzati da alterazioni dei lipidi plasmatici che si manifestano clinicamente nell’iperlipidemia postprandiale.
L’iperlipidemia postprandiale consiste nella modificazione abnorme della concentrazione e della composizione delle lipoproteine che si verifica a seguito del consumo di un pasto grasso.
Il disturbo del metabolismo delle lipoproteine plasmatiche si inserisce nel quadro patologico conosciuto come sindrome metabolica ed è strettamente collegato con il profilo insulinemico e glicemico. È nota una relazione diretta tra l’iperinsulinemia e la lipemia postprandiale, sebbene i meccanismi coinvolti non siano del tutto chiari. L’iperinsulinemia post-prandiale sembra infatti alterare la risposte metaboliche delle lipoproteine epatiche e intestinali e quindi contribuire allo sviluppo e progressione della patologia coronarica.
Data l’estrema pericolosità di questi fenomeni è indispensabile intervenire nei bambini e negli adolescenti attraverso strategie preventive e terapeutiche efficaci che permettano di ristabilire una corretta fisiologia.
La regolazione della dieta gioca un ruolo fondamentale nella prevenzione di questi disturbi. Il consumo di pasti a composizione mista, contenenti carboidrati a lento assorbimento, produce infatti una risposta glicemica e insulinemica ridotta, capace di alterare positivamente il metabolismo e l’accumulo delle lipoproteine epatiche ed intestinali nel sangue.
Numerosi studi hanno inoltre dimostrato che un pattern di attività fisica intermittente, in particolare l’esercizio postprandiale, può decisamente attenuare questi fattori di rischio.
Fonte: Sahade V, Frana S, Badar R, Fernando Adn L.Obesity and postprandial lipemia in adolescents: Risk factors for cardiovascular disease. Endocrinol Nutr. 2011 Nov 30.
Compenso glicemico: dieta vs attività fisica
Per un buon controllo glicemico del diabete di tipo 2 la dieta sembra più importante dell'attività fisica
Un gruppo di ricercatori inglesi ha osservato un totale di 593 soggetti di età media 30-80 anni nei quali diabete di tipo 2 era stato diagnosticato 5-8 mesi prima. Di questi 99 sono stati assegnati alle terapie tradizionali, 248 alla sola dieta , e 246 a dieta più attività fisica . L'endpoint primario era il miglioramento dei livelli plasmatici di emoglobina glicata HbA (1c) e della pressione arteriosa a 6 mesi.
I dati di outcome erano disponibili per 587 (99%) e 579 (98%) dei partecipanti a 6 e 12 mesi, rispettivamente e considerando con disegno incrociato randomizzato, i soggetti venivano assegnati al gruppo di controllo che riceveva le terapie tradizionali (dieta e farmaci).
L’analisi dei dati disponibili veniva fatta con metodo intention to treat. Si è così dimostrato che a 6 mesi, i livelli di HbA(1c) erano sensibilmente peggiorati nel gruppo di controllo, ma migliorati nel gruppo che riceveva solo dieta e nel gruppo che riceveva dieta e attività fisica.
E queste differenze persistevano anche ai 12 mesi. Gli autori concludono, quindi, ritenendo che l’attività fisica non determinava, in questo gruppo, alcun beneficio aggiuntivo rispetto all’intervento correttivo dietetico, che comunque va applicato entro breve tempo dalla prima diagnosi.
Fonte:
Diet or diet plus physical activity versus usual care in patients with newly diagnosed type 2 diabetes: the Early ACTID randomised controlled trial.
Fonte: Lancet. 2011 Jul 9;378(9786):129-39. Epub 2011 Jun 24.
Un gruppo di ricercatori inglesi ha osservato un totale di 593 soggetti di età media 30-80 anni nei quali diabete di tipo 2 era stato diagnosticato 5-8 mesi prima. Di questi 99 sono stati assegnati alle terapie tradizionali, 248 alla sola dieta , e 246 a dieta più attività fisica . L'endpoint primario era il miglioramento dei livelli plasmatici di emoglobina glicata HbA (1c) e della pressione arteriosa a 6 mesi.
I dati di outcome erano disponibili per 587 (99%) e 579 (98%) dei partecipanti a 6 e 12 mesi, rispettivamente e considerando con disegno incrociato randomizzato, i soggetti venivano assegnati al gruppo di controllo che riceveva le terapie tradizionali (dieta e farmaci).
L’analisi dei dati disponibili veniva fatta con metodo intention to treat. Si è così dimostrato che a 6 mesi, i livelli di HbA(1c) erano sensibilmente peggiorati nel gruppo di controllo, ma migliorati nel gruppo che riceveva solo dieta e nel gruppo che riceveva dieta e attività fisica.
E queste differenze persistevano anche ai 12 mesi. Gli autori concludono, quindi, ritenendo che l’attività fisica non determinava, in questo gruppo, alcun beneficio aggiuntivo rispetto all’intervento correttivo dietetico, che comunque va applicato entro breve tempo dalla prima diagnosi.
Fonte:
Diet or diet plus physical activity versus usual care in patients with newly diagnosed type 2 diabetes: the Early ACTID randomised controlled trial.
Fonte: Lancet. 2011 Jul 9;378(9786):129-39. Epub 2011 Jun 24.
Americani renitenti alla colazione
Saltare la prima colazione, una cattiva abitudine per molti ragazzi d'oggi, che potrebbe nuocere alla salute e all'apprendimento.
Secondo un ampio studio americano, inserito nei programmi di sorveglianza condotto su ragazzini di 9 anni, il 77% delle ragazze bianche e il 57% delle ragazze nere facevano la prima colazione, ma dai 19 anni in su, le percentuali scendevano rispettivamente al 32% e 22%.
Saltare la colazione è un’abitudine prevalente tra i giovani americani in età scolare appartenenti a una piccola popolazione urbana, e ha un impatto negativo sui risultati accademici, influenzando negativamente la cognizione e l'assenteismo, nonostante per le scuole siano disponibili piani efficaci per affrontare questo problema.
Dunque la maggioranza dei giovani americani non partecipano a tali programmi alimentari educativi .
Sono dunque necessari, secondo gli autori, programmi universali che permettano agli scolari di fare la prima colazione in classe, in particolare per i ragazzi che non hanno la possibilità di consumare pasti completi per tutto il resto della giornata.
Fonte:
Breakfast and the achievement gap among urban minority youth.
Fonte: J Sch Health. 2011 Oct;81(10):635-40. doi: 10.1111/j.1746-1561.2011.00638.x.
Secondo un ampio studio americano, inserito nei programmi di sorveglianza condotto su ragazzini di 9 anni, il 77% delle ragazze bianche e il 57% delle ragazze nere facevano la prima colazione, ma dai 19 anni in su, le percentuali scendevano rispettivamente al 32% e 22%.
Saltare la colazione è un’abitudine prevalente tra i giovani americani in età scolare appartenenti a una piccola popolazione urbana, e ha un impatto negativo sui risultati accademici, influenzando negativamente la cognizione e l'assenteismo, nonostante per le scuole siano disponibili piani efficaci per affrontare questo problema.
Dunque la maggioranza dei giovani americani non partecipano a tali programmi alimentari educativi .
Sono dunque necessari, secondo gli autori, programmi universali che permettano agli scolari di fare la prima colazione in classe, in particolare per i ragazzi che non hanno la possibilità di consumare pasti completi per tutto il resto della giornata.
Fonte:
Breakfast and the achievement gap among urban minority youth.
Fonte: J Sch Health. 2011 Oct;81(10):635-40. doi: 10.1111/j.1746-1561.2011.00638.x.
Diario alimentare nella stipsi cronica
La diagnosi della stipsi cronica è spesso difficoltosa e merita particolari attenzioni anche per quanto riguarda l’indagine delle abitudini alimentari
Se ne sono occupati in una recente revisione i ricercatori del Washington Hospital Center che sono giunti a molteplici conclusioni.
Prima di tutto si è convenuto che la stipsi è tradizionalmente definita come “tre o meno evacuazioni a settimana”.
I fattori di rischio per la stipsi includono sesso femminile, età avanzata, l'inattività, basso apporto calorico, dieta povera di fibre, il basso reddito, basso livello culturale, e assunzione di molti farmaci.
La stipsi cronica va distinta in funzionale (primaria) o secondaria.
La prima può essere suddivisa in transito normale, lento, o ostruzione in uscita. Possibili cause della stipsi cronica secondaria includono l'uso di alcuni farmaci, l'ipotiroidismo e la sindrome dell'intestino irritabile.
I pazienti anziani con stipsi cronica presentano condizioni molto delicate.
La valutazione della stipsi cronica deve dunque necessariamente comprendere, oltre a un attento esame obiettivo, anche una raccolta dell’anamnesi mirata ad evidenziare la presenza di eventuali segni d’allarme. Questi includono prove di sanguinamento, perdita di peso recente non intenzionale, anemia sideropenica, stipsi con esordio acuto e prolasso rettale. Specie negli anziani la presenza di uno di questi segni impone il rinvio allo specialista gastroenterologo.
Nei più giovani, invece, spesso la correzione della dieta , è la soluzione migliore.
Fonte:
Diagnostic approach to chronic constipation in adults.
Fonte: Am Fam Physician. 2011 Aug 1;84(3):299-306.
Se ne sono occupati in una recente revisione i ricercatori del Washington Hospital Center che sono giunti a molteplici conclusioni.
Prima di tutto si è convenuto che la stipsi è tradizionalmente definita come “tre o meno evacuazioni a settimana”.
I fattori di rischio per la stipsi includono sesso femminile, età avanzata, l'inattività, basso apporto calorico, dieta povera di fibre, il basso reddito, basso livello culturale, e assunzione di molti farmaci.
La stipsi cronica va distinta in funzionale (primaria) o secondaria.
La prima può essere suddivisa in transito normale, lento, o ostruzione in uscita. Possibili cause della stipsi cronica secondaria includono l'uso di alcuni farmaci, l'ipotiroidismo e la sindrome dell'intestino irritabile.
I pazienti anziani con stipsi cronica presentano condizioni molto delicate.
La valutazione della stipsi cronica deve dunque necessariamente comprendere, oltre a un attento esame obiettivo, anche una raccolta dell’anamnesi mirata ad evidenziare la presenza di eventuali segni d’allarme. Questi includono prove di sanguinamento, perdita di peso recente non intenzionale, anemia sideropenica, stipsi con esordio acuto e prolasso rettale. Specie negli anziani la presenza di uno di questi segni impone il rinvio allo specialista gastroenterologo.
Nei più giovani, invece, spesso la correzione della dieta , è la soluzione migliore.
Fonte:
Diagnostic approach to chronic constipation in adults.
Fonte: Am Fam Physician. 2011 Aug 1;84(3):299-306.
Il peso della tiroide
I pazienti sottoposti a tiroidectomia vanno incontro spesso a un progressivo aumento di peso, specie se si tratta di donne in menopausa.
Le cause determinanti questo incremento di peso, però, sono ancora non ben identificate.
Lo confermano i risultati di uno studio retrospettivo americano che ha analizzato i dati relativi a differenti gruppi di pazienti tiroidectomizzati focalizzando l’attenzione sui dati antropometrici e le variazioni in peso entro 1 anno di distanza dall’intervento.
Si è così in sintesi evidenziato che i pazienti con ipotiroidismo post-chirurgico acquistavano 3,1 kg durante il primo anno dopo l’intervento, mentre i pazienti con preesistente ipotiroidismo acquisito guadagnavano 2,2 kg in un anno.
Inoltre, i pazienti senza malattie della tiroide e quelli con ipertiroidismo iatrogeno guadagnavano in un anno circa 1.3 Kg. Ovvero, l'aumento di peso nel gruppo dei tiroidectomizzati era significativamente più elevato rispetto a tutti gli altri gruppi considerati.
E tra l’altro, nello stesso gruppo, il guadagno in peso maggiore, si osservava nelle donne in menopausa. Gli autori concludono enfatizzando la necessità di terapie alimentari mirate per queste numerose pazienti.
Fonte
Weight Changes in Euthyroid Patients Undergoing Thyroidectomy.
Fonte: Thyroid. 2011 Nov 8. [Epub ahead of print]
Le cause determinanti questo incremento di peso, però, sono ancora non ben identificate.
Lo confermano i risultati di uno studio retrospettivo americano che ha analizzato i dati relativi a differenti gruppi di pazienti tiroidectomizzati focalizzando l’attenzione sui dati antropometrici e le variazioni in peso entro 1 anno di distanza dall’intervento.
Si è così in sintesi evidenziato che i pazienti con ipotiroidismo post-chirurgico acquistavano 3,1 kg durante il primo anno dopo l’intervento, mentre i pazienti con preesistente ipotiroidismo acquisito guadagnavano 2,2 kg in un anno.
Inoltre, i pazienti senza malattie della tiroide e quelli con ipertiroidismo iatrogeno guadagnavano in un anno circa 1.3 Kg. Ovvero, l'aumento di peso nel gruppo dei tiroidectomizzati era significativamente più elevato rispetto a tutti gli altri gruppi considerati.
E tra l’altro, nello stesso gruppo, il guadagno in peso maggiore, si osservava nelle donne in menopausa. Gli autori concludono enfatizzando la necessità di terapie alimentari mirate per queste numerose pazienti.
Fonte
Weight Changes in Euthyroid Patients Undergoing Thyroidectomy.
Fonte: Thyroid. 2011 Nov 8. [Epub ahead of print]
Quali regole per una giusta alimentazione ?
Sovralimentazione e predilezione per cibi grassi e ipercalorici costituiscono pericolosi rischi per la salute
Grassi, sale e zuccheri. Difficile immaginare una pietanza privata di questi elementi fondamentali.
Non è sorprendente che la preferenza per queste caratteristiche sia insita nella natura umana e dunque capace di guidare le scelte alimentari della maggior parte delle persone.
La ricerca spasmodica di queste proprietà dei cibi avrebbe infatti rappresentato una sorta di “linea guida alimentare primitiva”, indispensabile per assicurare la sopravvivenza in tempi di scarsità di risorse.
Proprio questi comportamenti alimentari ancestrali, necessari ad assicurare adeguate quantità di preziosi alimenti, avrebbero scolpito evolutivamente le preferenze alimentari, fino a plasmare i gusti dell’uomo moderno.
Oggigiorno, evidentemente, la situazione è ben diversa, tuttavia l'interesse per queste caratteristiche alimentari si è mantenuta pressochè invariata. L’offerta di cibi, specialmente ipercalorici, è onnipresente e la loro disponibilità a basso prezzo comporta un consumo a volte incontrollato, spesso superiore al reale fabbisogno. Questo è particolarmente vero per quanto riguarda l’apporto giornaliero di sodio e carboidrati.
Questa situazione si traduce socialmente nella maggiore incidenza di alcune condizioni che sempre più drammaticamente affliggono le popolazioni contemporanee: patologie cardiovascolari, cancro e disturbi metabolici.
Evitare la sovralimentazione è dunque il primo passo per ottenere un guadagno in salute. Questo può essere fatto limitando le situazioni a rischio che possono determinare il consumo compulsivo di cibo e l’introduzione di calorie insalubri.
Utilizzare piatti di misure più piccole, tenere i dolci e snack a distanza e non superare più di due porzioni per ciascun viaggio al buffet: queste sono alcune rigide imposizioni comportamentali riservate ai casi di voracità estrema.
E' anche possibile cambiare forzatamente le proprie inclinazioni gastronomiche, nonostante gli interventi risultino più efficaci durante l’infanzia e la giovane età. Ad esempio, facendo intenzionalmente uso parsimonioso del sale da tavola per un certo tempo, è possibile abituarsi e trovare soddisfazione da un suo consumo più moderato. In questo modo verrebbe sperimentata una cucina altrettanto saporita ma decisamente più sana.
Un’ altro approccio, sicuramente più desiderabile, consiste nell’espandere i propri orizzonti alimentari ed includere nella dieta maggiori quantità di frutta e verdura, in grado corpire buona parte del fabbisogno in micronutrienti e zuccheri.
L’avversità per questi alimenti può essere facilmente superata sperimentando diversi tipi di verdure, fino ad incontrare quelle che risultano meno sgradevoli.
Lo stesso sforzo deve essere fatto per i prodotti integrali, sacrificado la maggiore palatabilità delle farine raffinate in favore di un profilo più salutare. Questi alimenti sono particolarmente indicati per la prevenzione del diabete e permettono di limitare il consumo eccessivo di cibo in quanto favoriscono il senso di sazietà.
Infine, il fallimento dei regimi e delle restrizioni alimentari bigotte è in parte dovuto al fatto che la rimozione di particolari sapori, consistenze o abitudini dietetiche verso cui si è particolarmente inclini, altro non fa che aumentarne e il desiderio e causare lo sfogo alimentare quando vengono allentate temporaneamente le inibizioni.
Moderazione e autocontrollo sono dunque virtù che in ambito alimentare devono prevalere sull’istinto naturale ed irrefrenabile che pilota scelte e comportamenti spesso pericolosi.
Grassi, sale e zuccheri. Difficile immaginare una pietanza privata di questi elementi fondamentali.
Non è sorprendente che la preferenza per queste caratteristiche sia insita nella natura umana e dunque capace di guidare le scelte alimentari della maggior parte delle persone.
La ricerca spasmodica di queste proprietà dei cibi avrebbe infatti rappresentato una sorta di “linea guida alimentare primitiva”, indispensabile per assicurare la sopravvivenza in tempi di scarsità di risorse.
Proprio questi comportamenti alimentari ancestrali, necessari ad assicurare adeguate quantità di preziosi alimenti, avrebbero scolpito evolutivamente le preferenze alimentari, fino a plasmare i gusti dell’uomo moderno.
Oggigiorno, evidentemente, la situazione è ben diversa, tuttavia l'interesse per queste caratteristiche alimentari si è mantenuta pressochè invariata. L’offerta di cibi, specialmente ipercalorici, è onnipresente e la loro disponibilità a basso prezzo comporta un consumo a volte incontrollato, spesso superiore al reale fabbisogno. Questo è particolarmente vero per quanto riguarda l’apporto giornaliero di sodio e carboidrati.
Questa situazione si traduce socialmente nella maggiore incidenza di alcune condizioni che sempre più drammaticamente affliggono le popolazioni contemporanee: patologie cardiovascolari, cancro e disturbi metabolici.
Evitare la sovralimentazione è dunque il primo passo per ottenere un guadagno in salute. Questo può essere fatto limitando le situazioni a rischio che possono determinare il consumo compulsivo di cibo e l’introduzione di calorie insalubri.
Utilizzare piatti di misure più piccole, tenere i dolci e snack a distanza e non superare più di due porzioni per ciascun viaggio al buffet: queste sono alcune rigide imposizioni comportamentali riservate ai casi di voracità estrema.
E' anche possibile cambiare forzatamente le proprie inclinazioni gastronomiche, nonostante gli interventi risultino più efficaci durante l’infanzia e la giovane età. Ad esempio, facendo intenzionalmente uso parsimonioso del sale da tavola per un certo tempo, è possibile abituarsi e trovare soddisfazione da un suo consumo più moderato. In questo modo verrebbe sperimentata una cucina altrettanto saporita ma decisamente più sana.
Un’ altro approccio, sicuramente più desiderabile, consiste nell’espandere i propri orizzonti alimentari ed includere nella dieta maggiori quantità di frutta e verdura, in grado corpire buona parte del fabbisogno in micronutrienti e zuccheri.
L’avversità per questi alimenti può essere facilmente superata sperimentando diversi tipi di verdure, fino ad incontrare quelle che risultano meno sgradevoli.
Lo stesso sforzo deve essere fatto per i prodotti integrali, sacrificado la maggiore palatabilità delle farine raffinate in favore di un profilo più salutare. Questi alimenti sono particolarmente indicati per la prevenzione del diabete e permettono di limitare il consumo eccessivo di cibo in quanto favoriscono il senso di sazietà.
Infine, il fallimento dei regimi e delle restrizioni alimentari bigotte è in parte dovuto al fatto che la rimozione di particolari sapori, consistenze o abitudini dietetiche verso cui si è particolarmente inclini, altro non fa che aumentarne e il desiderio e causare lo sfogo alimentare quando vengono allentate temporaneamente le inibizioni.
Moderazione e autocontrollo sono dunque virtù che in ambito alimentare devono prevalere sull’istinto naturale ed irrefrenabile che pilota scelte e comportamenti spesso pericolosi.
Glicemia in movimento
E’ necessario individuare nuovi metodi per stimolare i diabetici di tipo 2 ad aumentare l’attività fisica quotidiana.
Allo scopo i livelli plasmatici di HbA1c e di attività fisica praticata sono stati misurati nei giovani dai 9 ai 17 anni con diagnosi recente di diabete 2 tutti afferenti ad un medesimo punto di controllo. E’ stata calcolata anche la media (minuti al giorno) di moderata o intensa attività fisica (MVPA) con particolare riguardo alle differenti attività fisiche praticate. Al termine dell’osservazione si è visto che poco più della metà dei giovani era in buon controllo glicemico, ma tutti praticavano livelli di attività fisica inferiori a quelli raccomandati. I giovani con diabete in buon controllo impegnati in attività fisica quotidiana erano in numero leggermente inferiore a quelle con diabete in scarso controllo. Non si notavano comunque differenze significative nel controllo della malattia associabili a differenti tipi di attività fisica.
Fonte:
Physical Activity in Youth With Well-Controlled Versus Poorly Controlled Type 2 Diabetes.
Fonte: Clin Pediatr (Phila). 2011 Nov 3. [Epub ahead of print]
Allo scopo i livelli plasmatici di HbA1c e di attività fisica praticata sono stati misurati nei giovani dai 9 ai 17 anni con diagnosi recente di diabete 2 tutti afferenti ad un medesimo punto di controllo. E’ stata calcolata anche la media (minuti al giorno) di moderata o intensa attività fisica (MVPA) con particolare riguardo alle differenti attività fisiche praticate. Al termine dell’osservazione si è visto che poco più della metà dei giovani era in buon controllo glicemico, ma tutti praticavano livelli di attività fisica inferiori a quelli raccomandati. I giovani con diabete in buon controllo impegnati in attività fisica quotidiana erano in numero leggermente inferiore a quelle con diabete in scarso controllo. Non si notavano comunque differenze significative nel controllo della malattia associabili a differenti tipi di attività fisica.
Fonte:
Physical Activity in Youth With Well-Controlled Versus Poorly Controlled Type 2 Diabetes.
Fonte: Clin Pediatr (Phila). 2011 Nov 3. [Epub ahead of print]
Celiaci a dieta
La qualità della vita delle persone Celiache è fortemente legata alla dieta priva di glutine
La qualità di vita delle persone affette da celiachia è legata alla stretta adesione alla dieta priva di glutine.
E molti di questi pazienti hanno difficoltà nel seguire le indicazioni dietetiche , come si evince dai risultati di un’indagine condotta nel Regno Unito nella quale sono stati coinvolti un totale di oltre 500 soggetti.
Il gruppo principale era costituito da 225 pazienti affetti da celiachia (età media 52 anni – 26% maschi – biopsia positiva) da oltre 8 anni, l’altro gruppo da soggetti di controllo n = 348 compatibili per età e sesso (36% maschi).
Tutti i partecipanti venivano sottoposti a test per la misura della qualità di vita (QoL - Short-Form 36-Item - SF-36), per la valutazione dell’ansia e della depressione (The Hospital Anxiety & Depression Scale - scala HADS), per la valutazione della dieta priva di glutine e a questionari demografici.
In sintesi l’80% dei pazienti ha riportato difficoltà nell’aderire alla dieta priva di glutine.
In particolare il 5% considerava la dieta “impossibile”, il 14% “difficile”, il 61% “a volte difficile”.
Nessuna difficoltà solo il 20%.
All’aumentare delle difficoltà si riduceva la qualità di vita dei pazienti.
E un elevato grado d’istruzione favoriva l’adesione alla dieta associata a una migliore qualità di vita.
Gli autori concludono affermando che il grado di difficoltà ad aderire alla dieta priva di glutine era associato a riduzione del benessere e a un maggiore stress psicologico dei pazienti.
Fonte:
Quality of life in coeliac disease is determined by perceived degree of difficulty adhering to a gluten-free diet, not the level of dietary adherence ultimately achieved.
Fonte: J Gastrointestin Liver Dis. 2011 Sep;20(3):241-5.
La qualità di vita delle persone affette da celiachia è legata alla stretta adesione alla dieta priva di glutine.
E molti di questi pazienti hanno difficoltà nel seguire le indicazioni dietetiche , come si evince dai risultati di un’indagine condotta nel Regno Unito nella quale sono stati coinvolti un totale di oltre 500 soggetti.
Il gruppo principale era costituito da 225 pazienti affetti da celiachia (età media 52 anni – 26% maschi – biopsia positiva) da oltre 8 anni, l’altro gruppo da soggetti di controllo n = 348 compatibili per età e sesso (36% maschi).
Tutti i partecipanti venivano sottoposti a test per la misura della qualità di vita (QoL - Short-Form 36-Item - SF-36), per la valutazione dell’ansia e della depressione (The Hospital Anxiety & Depression Scale - scala HADS), per la valutazione della dieta priva di glutine e a questionari demografici.
In sintesi l’80% dei pazienti ha riportato difficoltà nell’aderire alla dieta priva di glutine.
In particolare il 5% considerava la dieta “impossibile”, il 14% “difficile”, il 61% “a volte difficile”.
Nessuna difficoltà solo il 20%.
All’aumentare delle difficoltà si riduceva la qualità di vita dei pazienti.
E un elevato grado d’istruzione favoriva l’adesione alla dieta associata a una migliore qualità di vita.
Gli autori concludono affermando che il grado di difficoltà ad aderire alla dieta priva di glutine era associato a riduzione del benessere e a un maggiore stress psicologico dei pazienti.
Fonte:
Quality of life in coeliac disease is determined by perceived degree of difficulty adhering to a gluten-free diet, not the level of dietary adherence ultimately achieved.
Fonte: J Gastrointestin Liver Dis. 2011 Sep;20(3):241-5.
La dieta sulla pelle
Alla base della dermatite atopica si trovano molteplici fattori scatenanti tra i quali probabilmente anche alcuni alimenti, specie quelli contenenti istamina.
E’ stato pubblicato un caso clinico che riguarda un bambino di 6 anni, ricoverato in ospedale per la valutazione dei cibi eventualmente sospettabili come fattori scatenanti della sua dermatite di natura non chiara.
Aveva una storia di peggioramento dei sintomi quando mangiava carne di maiale.
Il food-challenge ha mostrato un risultato positivo dopo aver mangiato 200 g di carne di maiale, ma non dopo aver mangiato 60 g di carne di maiale.
Dopo la dimissione, il ragazzino venne sottoposto a una dieta nella quale doveva evitare gli alimenti che contengono istamina.
E mantenendo il paziente a un regime dietetico di questo tipo i suoi sintomi cutanei sono migliorati per un periodo di 7 mesi.
Gli autori suggeriscono il controllo della dieta abituale (FFQ food-intake) dei molti pazienti con dermatite atopica che risultano negativi ai test classici per le patologie allergiche, e propongono una terapia alimentare personalizzata con particolare riguardo alla riduzione degli alimenti contenenti istamina.
Fonte:
Treatment of Atopic Dermatitis with a Low-histamine Diet.
Fonte: Ann Dermatol. 2011 Sep;23(Suppl 1):S91-S95. Epub 2011 Sep 30.
E’ stato pubblicato un caso clinico che riguarda un bambino di 6 anni, ricoverato in ospedale per la valutazione dei cibi eventualmente sospettabili come fattori scatenanti della sua dermatite di natura non chiara.
Aveva una storia di peggioramento dei sintomi quando mangiava carne di maiale.
Il food-challenge ha mostrato un risultato positivo dopo aver mangiato 200 g di carne di maiale, ma non dopo aver mangiato 60 g di carne di maiale.
Dopo la dimissione, il ragazzino venne sottoposto a una dieta nella quale doveva evitare gli alimenti che contengono istamina.
E mantenendo il paziente a un regime dietetico di questo tipo i suoi sintomi cutanei sono migliorati per un periodo di 7 mesi.
Gli autori suggeriscono il controllo della dieta abituale (FFQ food-intake) dei molti pazienti con dermatite atopica che risultano negativi ai test classici per le patologie allergiche, e propongono una terapia alimentare personalizzata con particolare riguardo alla riduzione degli alimenti contenenti istamina.
Fonte:
Treatment of Atopic Dermatitis with a Low-histamine Diet.
Fonte: Ann Dermatol. 2011 Sep;23(Suppl 1):S91-S95. Epub 2011 Sep 30.
Stress sui denti senza micronutrienti
L'igiene orale e la qualiltà della vita migliorano coi micronutrienti, anche in caso di stress
L’igiene orale e la qualità di vita degli studenti universitari sottoposti a forte stress migliorano con una dieta più sana e arricchita con micronutrienti.
Lo confermano i risultati di uno studio pilota condotto in Germania su 40 studenti sani (28 femmine, 12 maschi) con un'età media di 27,1 ± 3,0 anni.
Gli studenti sono stati suddivisi in 2 gruppi: il primo (n = 19) riceveva una miscela supplementare di micronutrienti per 3 mesi, mentre gli altri (n = 21) venivano utilizzati come gruppo di controllo.
Tutti i partecipanti sono stati sottoposti, al tempo 0 e dopo 3 mesi, a un esame odontoiatrico e salivare con determinazione di 10 agenti patogeni parodontali e a un'analisi del sangue.
Inoltre, hanno compilato un questionario sulle abitudini alimentari , la qualità della vita e il grado di stress sperimentato durante gli esami finali.
Si è così evidenziato che tutti gli studenti mostravano un lieve peggioramento dell’igiene orale e un aumento del consumo di cibi non salutari.
L'assunzione di micronutrienti ha portato a un lieve miglioramento del grado d’infiammazione gengivale nel primo gruppo rispetto al gruppo di controllo.
E sempre nel primo gruppo si osservava un aumento delle concentrazioni plasmatiche di alcune vitamine (vitamina C , vitamina E ) e di zinco.
E’ dunque possibile che le supplementazioni con questi micronutrienti siano utili sia per l’igiene orale, sia per il benessere generale in caso di stress psicologici come avviene per molti studenti in attesa di discutere la tesi finale.
Fonte
The influence of micronutrients on oral and general health.
Fonte: Eur J Med Res. 2011 Nov 10;16(11):514-8.
L’igiene orale e la qualità di vita degli studenti universitari sottoposti a forte stress migliorano con una dieta più sana e arricchita con micronutrienti.
Lo confermano i risultati di uno studio pilota condotto in Germania su 40 studenti sani (28 femmine, 12 maschi) con un'età media di 27,1 ± 3,0 anni.
Gli studenti sono stati suddivisi in 2 gruppi: il primo (n = 19) riceveva una miscela supplementare di micronutrienti per 3 mesi, mentre gli altri (n = 21) venivano utilizzati come gruppo di controllo.
Tutti i partecipanti sono stati sottoposti, al tempo 0 e dopo 3 mesi, a un esame odontoiatrico e salivare con determinazione di 10 agenti patogeni parodontali e a un'analisi del sangue.
Inoltre, hanno compilato un questionario sulle abitudini alimentari , la qualità della vita e il grado di stress sperimentato durante gli esami finali.
Si è così evidenziato che tutti gli studenti mostravano un lieve peggioramento dell’igiene orale e un aumento del consumo di cibi non salutari.
L'assunzione di micronutrienti ha portato a un lieve miglioramento del grado d’infiammazione gengivale nel primo gruppo rispetto al gruppo di controllo.
E sempre nel primo gruppo si osservava un aumento delle concentrazioni plasmatiche di alcune vitamine (vitamina C , vitamina E ) e di zinco.
E’ dunque possibile che le supplementazioni con questi micronutrienti siano utili sia per l’igiene orale, sia per il benessere generale in caso di stress psicologici come avviene per molti studenti in attesa di discutere la tesi finale.
Fonte
The influence of micronutrients on oral and general health.
Fonte: Eur J Med Res. 2011 Nov 10;16(11):514-8.
Ipertensione pediatrica: vitamina B12 e folati sembrano proteggere
Già in età scolare è possibile osservare fenomeni ipertensivi e il consumo di particolari microelementi può influire positivamente sui parametri cardiovascolari
Vi è evidenza che lo stato ipertensivo durante l’infanzia contribuisca all’insorgenza precoce di patologie coronariche ed insufficienza cardiaca.
Alcuni studi hanno inoltre dimostrato che i fenomeni aterosclerotici iniziali possano presentarsi già nel bambino e nell’adolescente favorendo l’ipertensione cronica nell’adulto.
Tuttavia, poiché durante la crescita si assiste ad una continua variazione dei valori di pressione sanguina, non esiste una misura che definisca univocamente la presenza di valori normali e patologici nel bambino.
L’ipertensione pediatrica è dunque riconosciuta nel caso di valori sistolici e diastolici uguali o superiori al 95esimo percentile dei coetanei della stessa altezza e stesso sesso. Questa condizione è favorita dalle stesse cause per cui si manifesta nell’adulto: sovrappeso, cattiva alimentazione e sedentarietà, oltre all’esistenza di patologie sottostanti.
Vitamina B 12 e folati sono microelementi contenuti in alimenti di origine animale come carne e pesce e nelle verdure a foglia verde, e sono indispensabili per il corretto sviluppo del sistema nervoso durante la prima infanzia. L’insufficienza alimentare nella dieta materna durante la gravidanza o nelle le prime fasi della crescita può infatti causare disturbi neurologici nel bambino.
L’inadeguatezza nella bio-disponiblità di folati è inoltre responsabile di alcuni difetti ematopoietici nell’adulto e della presenza di concentrazioni anomale dell’amminoacido omocisteina. Un elevato livello plasmatico di questa sostanza costituisce nell’adulto un fattore di rischio per lo sviluppo della patologia arteriosa aterosclerotica e dell’ipertensione.
Le vitamine B6, B12 e l’acido folico prendono parte al metabolismo dell’omocisteina e alla sua conversione enzimatica nell’amminoacido essenziale metionina.
Oltre a un insufficiente apporto nutrizionale, la loro carenza può derivare da un difettivo assorbimento intestinale delle vitamine oppure per via del loro scarso utilizzo biochimico su base genetica.
Fino ad ora la relazione tra il consumo di queste vitamine e la pressione sanguigna è stato esaminato solo negli individui adulti.
Uno studio giapponese si è proposto di valutare l’associazione tra l’apporto alimentare di queste vitamine e i valori della pressione sanguigna in bambini di età compresa tra 3 e 6 anni. La pressione è stata misurata in un campione di oltre 400 bambini e l’apporto alimentare delle vitamine suddiviso in quattro categorie.
Dallo studio è emerso che nella categoria a maggior consumo di vitamina B12, i valori medi di pressione sistolica e diastolica erano rispettivamente di 6.6 mm Hg e 5.7 mm Hg inferiori rispetto al gruppo con il minor apporto alimentare della vitamina.
Per quanto riguarda l’acido folico, il valore sistolico medio era di 4.1 mm Hg inferiore nel gruppo a maggior consumo rispetto a quello più basso. Nessuna correlazione è stata osservata tra l’apporto di vitamina B6 e le misure della pressione sanguigna.
Questi dati suggeriscono che il consumo di questi microalimenti influisce in modo statisticamente significativo sui livelli di pressione sanguigna già nei bambini di età scolare.
Una corretta composizione della dieta, insieme alla correzione dei comportamenti a rischio, permettono di mantenere valori pressori adeguati in modo da prevenire i potenziali rischi a lungo termine.
Fonte: Tamai Y, Wada K, Tsuji M, Nakamura K, Sahashi Y, Watanabe K, Yamamoto K, Ando K, Nagata C. Dietary intake of vitamin B12 and folic Acid is associated with lower blood pressure in Japanese preschool children. Am J Hypertens. 2011 Nov;24(11):1215-21. d
Vi è evidenza che lo stato ipertensivo durante l’infanzia contribuisca all’insorgenza precoce di patologie coronariche ed insufficienza cardiaca.
Alcuni studi hanno inoltre dimostrato che i fenomeni aterosclerotici iniziali possano presentarsi già nel bambino e nell’adolescente favorendo l’ipertensione cronica nell’adulto.
Tuttavia, poiché durante la crescita si assiste ad una continua variazione dei valori di pressione sanguina, non esiste una misura che definisca univocamente la presenza di valori normali e patologici nel bambino.
L’ipertensione pediatrica è dunque riconosciuta nel caso di valori sistolici e diastolici uguali o superiori al 95esimo percentile dei coetanei della stessa altezza e stesso sesso. Questa condizione è favorita dalle stesse cause per cui si manifesta nell’adulto: sovrappeso, cattiva alimentazione e sedentarietà, oltre all’esistenza di patologie sottostanti.
Vitamina B 12 e folati sono microelementi contenuti in alimenti di origine animale come carne e pesce e nelle verdure a foglia verde, e sono indispensabili per il corretto sviluppo del sistema nervoso durante la prima infanzia. L’insufficienza alimentare nella dieta materna durante la gravidanza o nelle le prime fasi della crescita può infatti causare disturbi neurologici nel bambino.
L’inadeguatezza nella bio-disponiblità di folati è inoltre responsabile di alcuni difetti ematopoietici nell’adulto e della presenza di concentrazioni anomale dell’amminoacido omocisteina. Un elevato livello plasmatico di questa sostanza costituisce nell’adulto un fattore di rischio per lo sviluppo della patologia arteriosa aterosclerotica e dell’ipertensione.
Le vitamine B6, B12 e l’acido folico prendono parte al metabolismo dell’omocisteina e alla sua conversione enzimatica nell’amminoacido essenziale metionina.
Oltre a un insufficiente apporto nutrizionale, la loro carenza può derivare da un difettivo assorbimento intestinale delle vitamine oppure per via del loro scarso utilizzo biochimico su base genetica.
Fino ad ora la relazione tra il consumo di queste vitamine e la pressione sanguigna è stato esaminato solo negli individui adulti.
Uno studio giapponese si è proposto di valutare l’associazione tra l’apporto alimentare di queste vitamine e i valori della pressione sanguigna in bambini di età compresa tra 3 e 6 anni. La pressione è stata misurata in un campione di oltre 400 bambini e l’apporto alimentare delle vitamine suddiviso in quattro categorie.
Dallo studio è emerso che nella categoria a maggior consumo di vitamina B12, i valori medi di pressione sistolica e diastolica erano rispettivamente di 6.6 mm Hg e 5.7 mm Hg inferiori rispetto al gruppo con il minor apporto alimentare della vitamina.
Per quanto riguarda l’acido folico, il valore sistolico medio era di 4.1 mm Hg inferiore nel gruppo a maggior consumo rispetto a quello più basso. Nessuna correlazione è stata osservata tra l’apporto di vitamina B6 e le misure della pressione sanguigna.
Questi dati suggeriscono che il consumo di questi microalimenti influisce in modo statisticamente significativo sui livelli di pressione sanguigna già nei bambini di età scolare.
Una corretta composizione della dieta, insieme alla correzione dei comportamenti a rischio, permettono di mantenere valori pressori adeguati in modo da prevenire i potenziali rischi a lungo termine.
Fonte: Tamai Y, Wada K, Tsuji M, Nakamura K, Sahashi Y, Watanabe K, Yamamoto K, Ando K, Nagata C. Dietary intake of vitamin B12 and folic Acid is associated with lower blood pressure in Japanese preschool children. Am J Hypertens. 2011 Nov;24(11):1215-21. d
Ipovitaminosi D in Europa
Un deficit di vitamina D appare associato al rischio cardiovascolare nei giovani adulti europei, specie se si tratta di donne in sovrappeso o obese
Allo scopo di indagare le possibili interazioni esistenti tra i livelli plasmatici di vitamina D e il rischio cardiovascolare nei giovani adulti sani europei è stata allestita un’analisi trasversale su campioni di sangue prelevati a metà - fine inverno (n=195).
I campioni provenivano dall’Islanda (n = 82), dall’Irlanda (n = 37) e dalla Spagna (42 ° N, n = 76). Tra questi la maggior parte appartenevano a donne ( n=109) dai 20 - ai 40 anni con un BMI compreso tra 27,5 e 32,5.
In tutti i campioni venivano determinati: il livello sierico di 25-idrossivitamina D [s25 (OH) D], dell'ormone paratiroideo intatto (iPTH) e i biomarcatori del rischio di malattia cardiovascolare.
I risultati delle analisi sono stati comparati alle latitudini dei Paesi di provenienza dei campioni di sangue, e si è potuto sostanzialmente dimostrare che le mediane dei valori del livello sierico di 25-idrossivitamina D erano variabili in relazione alle latitudini dei Paesi di provenienza dei campioni, e in particolare che i campioni spagnoli mostravano un livello di s25 (OH) D inferiore a tutti gli altri.
In ogni caso, complessivamente, il 17% di tali bassi livelli erano correlati positivamente a 3 o più criteri diagnostici deponenti per la diagnosi di sindrome cardio-metabolica (MetS).
Si può così ipotizzare, secondo gli autori, l’esistenza d’interazioni tra s25 (OH) D, iPTH e i parametri del rischio cardiometabolico.
Inoltre, data la crescente prevalenza di sovrappeso e obesità verificata tra gli adulti europei, gli autori sostengono la necessità di ulteriori studi randomizzati sulle diverse popolazioni allo scopo di accertare eventuali carenze di vitamina D e d’intervenire con le correzioni opportune.
Relationships between vitamin D status and cardio-metabolic risk factors in young European adults.
Fonte: Ann Nutr Metab. 2011;58(2):85-93. doi: 10.1159/000324600. Epub 2011 Apr 8.
Allo scopo di indagare le possibili interazioni esistenti tra i livelli plasmatici di vitamina D e il rischio cardiovascolare nei giovani adulti sani europei è stata allestita un’analisi trasversale su campioni di sangue prelevati a metà - fine inverno (n=195).
I campioni provenivano dall’Islanda (n = 82), dall’Irlanda (n = 37) e dalla Spagna (42 ° N, n = 76). Tra questi la maggior parte appartenevano a donne ( n=109) dai 20 - ai 40 anni con un BMI compreso tra 27,5 e 32,5.
In tutti i campioni venivano determinati: il livello sierico di 25-idrossivitamina D [s25 (OH) D], dell'ormone paratiroideo intatto (iPTH) e i biomarcatori del rischio di malattia cardiovascolare.
I risultati delle analisi sono stati comparati alle latitudini dei Paesi di provenienza dei campioni di sangue, e si è potuto sostanzialmente dimostrare che le mediane dei valori del livello sierico di 25-idrossivitamina D erano variabili in relazione alle latitudini dei Paesi di provenienza dei campioni, e in particolare che i campioni spagnoli mostravano un livello di s25 (OH) D inferiore a tutti gli altri.
In ogni caso, complessivamente, il 17% di tali bassi livelli erano correlati positivamente a 3 o più criteri diagnostici deponenti per la diagnosi di sindrome cardio-metabolica (MetS).
Si può così ipotizzare, secondo gli autori, l’esistenza d’interazioni tra s25 (OH) D, iPTH e i parametri del rischio cardiometabolico.
Inoltre, data la crescente prevalenza di sovrappeso e obesità verificata tra gli adulti europei, gli autori sostengono la necessità di ulteriori studi randomizzati sulle diverse popolazioni allo scopo di accertare eventuali carenze di vitamina D e d’intervenire con le correzioni opportune.
Relationships between vitamin D status and cardio-metabolic risk factors in young European adults.
Fonte: Ann Nutr Metab. 2011;58(2):85-93. doi: 10.1159/000324600. Epub 2011 Apr 8.
Rischi nutrizionali degli 85enni
Negli anziani 85enni che mostrano, complessivamente, uno scadente stato nutrizionale, si osserva anche una prevalenza significativa d’ipovitaminosi D
Questo è in sintesi il risultato di uno studio spagnolo condotto su un gruppo di anziani di 85 anni conviventi nello stesso ambiente comunitario.
Tutti i partecipanti sono stati indagati sullo stato nutrizionale, la presenza di comorbidità, il grado di compromissione delle funzioni cognitive e sottoposti a prelievo di sangue per la misura dei livelli sierici di 25 (OH) D.
Si considerava come ipovitaminosi un livello sierico di 25 (OH) D <25 ng / ml e come deficit un livello sierico di 25 (OH) D <11 ng / ml. Si è così evidenziato che nei soggetti 85enni esaminati il livello medio di 25 (OH) D era di 28 ± 30 ng / ml.
La prevalenza di ipovitaminosi D era del 52,5% (38,1% insufficienza e 14,4% carenza).
In media, gli uomini avevano livelli medi più elevati rispetto alle donne (32,2 ± 44 vs 25,2 ± 25 ng / ml, p = 0,04).
Gli autori concludono affermando che in questa comunità oltre la metà degli 85enni aveva un deficit di vitamina D e il 14,4% mostrava una carenza. Inoltre, i soggetti con cattivo stato nutrizionale avevano una maggiore probabilità di avere valori più bassi di vitamina D nel siero.
Utility of geriatric assessment tools to identify 85-years old subjects with vitamin D deficiency.
Fonte: J Nutr Health Aging. 2011 Feb;15(2):110-4.
Questo è in sintesi il risultato di uno studio spagnolo condotto su un gruppo di anziani di 85 anni conviventi nello stesso ambiente comunitario.
Tutti i partecipanti sono stati indagati sullo stato nutrizionale, la presenza di comorbidità, il grado di compromissione delle funzioni cognitive e sottoposti a prelievo di sangue per la misura dei livelli sierici di 25 (OH) D.
Si considerava come ipovitaminosi un livello sierico di 25 (OH) D <25 ng / ml e come deficit un livello sierico di 25 (OH) D <11 ng / ml. Si è così evidenziato che nei soggetti 85enni esaminati il livello medio di 25 (OH) D era di 28 ± 30 ng / ml.
La prevalenza di ipovitaminosi D era del 52,5% (38,1% insufficienza e 14,4% carenza).
In media, gli uomini avevano livelli medi più elevati rispetto alle donne (32,2 ± 44 vs 25,2 ± 25 ng / ml, p = 0,04).
Gli autori concludono affermando che in questa comunità oltre la metà degli 85enni aveva un deficit di vitamina D e il 14,4% mostrava una carenza. Inoltre, i soggetti con cattivo stato nutrizionale avevano una maggiore probabilità di avere valori più bassi di vitamina D nel siero.
Utility of geriatric assessment tools to identify 85-years old subjects with vitamin D deficiency.
Fonte: J Nutr Health Aging. 2011 Feb;15(2):110-4.
Aumentare le fibre alimentari per prevenire e contrastare il diabete
Il consumo di alimenti abbondanti in fibre esercita effetti benefici sul controllo delle concentrazioni ematiche di glucosio, insulina e trigliceridi, oltre a garantire un effetto ipo-colesterolemico.
Nei pazienti diabetici, il consumo di alimenti abbondanti in fibre può esercitare effetti benefici sul controllo delle concentrazioni ematiche di glucosio, insulina e trigliceridi, oltre a garantire un effetto ipo-colesterolemico.
Il diabete è infatti una malattia plurimetabolica, caratterizzata cioè da diverse anomalie del metabolismo del glucosio che predispongono nel lungo termine all’insorgenza di complicazioni cardiovascolari.
Le fibre alimentari, specialmemente quelle di tipo solubile, possono contribuire in larga misura alla regolazione dei livelli plasmatici di glucosio, prevenendo così lo sviluppo di ulteriori complicazioni metaboliche nei pazienti diabetici e riducendo globalmente il rischio di sviluppare la patologia negli individui sani.
Il consumo di almeno tre porzioni giornaliere di questi alimenti sembra infatti ridurre dal 20 al 30% il rischio della malattia.
È possibile aumentare il contenuto di fibre alimentari includendo nella dieta prodotti naturali come alimenti integrali, cereali, legumi frutta e verdura.
Questi alimenti esercitano infatti il proprio effetto euglicemico in virtù di un lento rilascio di zuccheri e grazie all’elevato contenuto in fibre che promuove il senso di sazietà, limitando il consumo di cibo.
Le proprietà di questi alimenti dipendono largamente dal mantenimento della struttura intatta delle fibre che li compongono.
La macinazione ed alte procedure industriali di raffinazione alterano infatti le fibre ed i tessuti vegetali rendendoli così più rapidamente accessibili ai processi digestivi e quindi al rilascio dei carboidrati che li compongono.
I cereali, composti in prevaleza da fibre insolubili offrono notoriamente una grande protezione per il diabete di tipo 2, e il mantenimento della struttura inalterata delle loro fibre appare indispensabile per la loro efficacia.
La sostituzione dei carboidrati a più rapida digestione con questi alimenti permetterebbe dunque di limitare il rischio di sviluppo del diabete mellito e di tipo 2, sia favorirebbe il controllo delle principali alterazioni metaboliche nei soggetti diabetici.
I benefici avrebbero una rilevanza clinica nel lungo termine, come dimostrato dalla riduzione del numero di episodi ipoglicemici e dal miglioramento globale del profilo cardiovascolare nei pazienti affetti da diabete mellito e di tipo 2.
Nei pazienti diabetici, il consumo di alimenti abbondanti in fibre può esercitare effetti benefici sul controllo delle concentrazioni ematiche di glucosio, insulina e trigliceridi, oltre a garantire un effetto ipo-colesterolemico.
Il diabete è infatti una malattia plurimetabolica, caratterizzata cioè da diverse anomalie del metabolismo del glucosio che predispongono nel lungo termine all’insorgenza di complicazioni cardiovascolari.
Le fibre alimentari, specialmemente quelle di tipo solubile, possono contribuire in larga misura alla regolazione dei livelli plasmatici di glucosio, prevenendo così lo sviluppo di ulteriori complicazioni metaboliche nei pazienti diabetici e riducendo globalmente il rischio di sviluppare la patologia negli individui sani.
Il consumo di almeno tre porzioni giornaliere di questi alimenti sembra infatti ridurre dal 20 al 30% il rischio della malattia.
È possibile aumentare il contenuto di fibre alimentari includendo nella dieta prodotti naturali come alimenti integrali, cereali, legumi frutta e verdura.
Questi alimenti esercitano infatti il proprio effetto euglicemico in virtù di un lento rilascio di zuccheri e grazie all’elevato contenuto in fibre che promuove il senso di sazietà, limitando il consumo di cibo.
Le proprietà di questi alimenti dipendono largamente dal mantenimento della struttura intatta delle fibre che li compongono.
La macinazione ed alte procedure industriali di raffinazione alterano infatti le fibre ed i tessuti vegetali rendendoli così più rapidamente accessibili ai processi digestivi e quindi al rilascio dei carboidrati che li compongono.
I cereali, composti in prevaleza da fibre insolubili offrono notoriamente una grande protezione per il diabete di tipo 2, e il mantenimento della struttura inalterata delle loro fibre appare indispensabile per la loro efficacia.
La sostituzione dei carboidrati a più rapida digestione con questi alimenti permetterebbe dunque di limitare il rischio di sviluppo del diabete mellito e di tipo 2, sia favorirebbe il controllo delle principali alterazioni metaboliche nei soggetti diabetici.
I benefici avrebbero una rilevanza clinica nel lungo termine, come dimostrato dalla riduzione del numero di episodi ipoglicemici e dal miglioramento globale del profilo cardiovascolare nei pazienti affetti da diabete mellito e di tipo 2.
Latticini probiotici per la salute orale
Favorire l'equilibrio della flora orale per prevenire le carie dentali nei bambini
Migliorare la salute orale con latte e yogurt probiotici, sembra questa una promettente strategia alimentare preventiva.
La batterioterapia, ossia l’utilizzo di batteri probiotici dotati di effetti inibitorie sulla crescita dei patogeni del cavo orale, può costituire una potente arma per ostacolare la formazione di carie dentarie, specialmente nei bambini.
I probiotici, principalmente lactobalicci e bifidobatteri, sono microorganismi vivi aggiunti alle preparazioni alimentari, tradizionalmente sfruttati per favorire l’equilibrio microbiotico intestinale.
Evidenze cliniche suggeriscono che i supplementi probiotici contenuti nei prodotti latticini esercitano un simile effetto anche sull’ecologia microbica.
Un recente studio condotto su un gruppo di bambini ha dimostrato che il consumo di almeno due porzioni giornaliere di yogurt per due settimane riduceva significativamente il numero di colonie salivari di streptococco mutans, il principale agente microbico responsabile della formazione di carie.
Il numero di colonie di questo batterio correla infatti il rischio di sviluppare carie dentali, anche in presenza di un consumo estremamente basso di zuccheri.
Una ragione in più per includere nella dieta adeguate quantità di questi alimenti, da un lato necessari per ottenere il corretto apporto di calcio ed altri micronutrienti, ma ache per garantire un appropriato equilibrio della flora batterica orale e quindi la salute dentale.
Autore: G F Ferrazzano, T Cantile, G Sangianantoni, I Amato and A Ingenito
Fonte: European Journal of Clinical Nutrition
Migliorare la salute orale con latte e yogurt probiotici, sembra questa una promettente strategia alimentare preventiva.
La batterioterapia, ossia l’utilizzo di batteri probiotici dotati di effetti inibitorie sulla crescita dei patogeni del cavo orale, può costituire una potente arma per ostacolare la formazione di carie dentarie, specialmente nei bambini.
I probiotici, principalmente lactobalicci e bifidobatteri, sono microorganismi vivi aggiunti alle preparazioni alimentari, tradizionalmente sfruttati per favorire l’equilibrio microbiotico intestinale.
Evidenze cliniche suggeriscono che i supplementi probiotici contenuti nei prodotti latticini esercitano un simile effetto anche sull’ecologia microbica.
Un recente studio condotto su un gruppo di bambini ha dimostrato che il consumo di almeno due porzioni giornaliere di yogurt per due settimane riduceva significativamente il numero di colonie salivari di streptococco mutans, il principale agente microbico responsabile della formazione di carie.
Il numero di colonie di questo batterio correla infatti il rischio di sviluppare carie dentali, anche in presenza di un consumo estremamente basso di zuccheri.
Una ragione in più per includere nella dieta adeguate quantità di questi alimenti, da un lato necessari per ottenere il corretto apporto di calcio ed altri micronutrienti, ma ache per garantire un appropriato equilibrio della flora batterica orale e quindi la salute dentale.
Autore: G F Ferrazzano, T Cantile, G Sangianantoni, I Amato and A Ingenito
Fonte: European Journal of Clinical Nutrition
Obesity Day 2011 : una "ricorrenza pesante"
Moltissimi gli Italiani a rischio obesità
Il problema dell’obesità in Italia sembra finalmente unificare Nord, Centro e Sud, ma non sempre in senso positivo.
In occasione di “ObesityDay”, anche questo anno, il 10 ottobre, gli esperti dei Centri ADI (Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica ) coordinati da Giuseppe Fatati (Presidente della Fondazione ADI – Coordinatore del Progetto ObesityDay e Responsabile della Struttura Complessa di Diabetologia, Dietologia e Nutrizione Clinica dell’Azienda Ospedaliera “S.Maria” di Terni) si sono mobilitati in tutta Italia per offrire consigli e aiuto, ai moltissimi italiani a rischio.
Secondo l’ISTAT, infatti, gli adulti obesi sono ancora in aumento nel nostro Paese.
Solo in Basilicata, Campania, Provincia Autonoma di Trento e in Liguria la percentuale di obesi adulti ogni 100 abitanti è rimasta pressoché invariata o calata di poco negli ultimi 10 anni.
La regione con l’aumento più considerevole (+3,4 per cento in dieci anni) è la Valle d’Aosta (dal 7,8 all’11, 2%).
Oltre il 2 per cento di aumento, però, si verifica in Abruzzo (+2,7%), Emilia Romagna, Marche, Calabria, Sardegna e Lazio.
Comunque, per il 2010, il record regionale delle persone più pesanti, va al Molise con il 14,4%.
Tuttavia questa posizione è stabile rispetto a dieci anni fa.
Al secondo posto l’Abruzzo con il 12,8% seguito da Emilia Romagna e Calabria (12%), Puglia (11,4 %), Valle d’Aosta (11,2 %), Campania (11%) e Sardegna (10,7 %).
La Basilicata è rimasta sostanzialmente stabile (10,7 % di obesi ogni 100 abitanti) seguono il Lazio (10,6%), la Sicilia (10,6%), le Marche (10,5%), il Friuli Venezia Giulia (10,2%), la Lombardia (9,5%), l’Umbria (9,5%), il Veneto e il Piemonte (9,4%), la Toscana (8%), la Liguria (7,9%) ed infine il Trentino Alto Adige con la Provincia Autonoma di Bolzano (7,8) e quella di Trento (7,4).
Fonte:
10 ottobre 2011
Giornata di sensibilizzazione nazionale su sovrappeso e salute
Obesità diamogli il giusto peso!
Fonte: Cartella stampa
Il problema dell’obesità in Italia sembra finalmente unificare Nord, Centro e Sud, ma non sempre in senso positivo.
In occasione di “ObesityDay”, anche questo anno, il 10 ottobre, gli esperti dei Centri ADI (Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica ) coordinati da Giuseppe Fatati (Presidente della Fondazione ADI – Coordinatore del Progetto ObesityDay e Responsabile della Struttura Complessa di Diabetologia, Dietologia e Nutrizione Clinica dell’Azienda Ospedaliera “S.Maria” di Terni) si sono mobilitati in tutta Italia per offrire consigli e aiuto, ai moltissimi italiani a rischio.
Secondo l’ISTAT, infatti, gli adulti obesi sono ancora in aumento nel nostro Paese.
Solo in Basilicata, Campania, Provincia Autonoma di Trento e in Liguria la percentuale di obesi adulti ogni 100 abitanti è rimasta pressoché invariata o calata di poco negli ultimi 10 anni.
La regione con l’aumento più considerevole (+3,4 per cento in dieci anni) è la Valle d’Aosta (dal 7,8 all’11, 2%).
Oltre il 2 per cento di aumento, però, si verifica in Abruzzo (+2,7%), Emilia Romagna, Marche, Calabria, Sardegna e Lazio.
Comunque, per il 2010, il record regionale delle persone più pesanti, va al Molise con il 14,4%.
Tuttavia questa posizione è stabile rispetto a dieci anni fa.
Al secondo posto l’Abruzzo con il 12,8% seguito da Emilia Romagna e Calabria (12%), Puglia (11,4 %), Valle d’Aosta (11,2 %), Campania (11%) e Sardegna (10,7 %).
La Basilicata è rimasta sostanzialmente stabile (10,7 % di obesi ogni 100 abitanti) seguono il Lazio (10,6%), la Sicilia (10,6%), le Marche (10,5%), il Friuli Venezia Giulia (10,2%), la Lombardia (9,5%), l’Umbria (9,5%), il Veneto e il Piemonte (9,4%), la Toscana (8%), la Liguria (7,9%) ed infine il Trentino Alto Adige con la Provincia Autonoma di Bolzano (7,8) e quella di Trento (7,4).
Fonte:
10 ottobre 2011
Giornata di sensibilizzazione nazionale su sovrappeso e salute
Obesità diamogli il giusto peso!
Fonte: Cartella stampa
Un nuovo diabetico ogni 2 minuti
Non solo adulti o anziani, il diabete è in agguato anche tra i maschi giovani obesi
“Ogni due minuti un medico dice a un italiano: lei è malato di diabete del tipo 2, quello non insulino-dipendente”. E fra tre nuovi malati di diabete, due sono obesi .
Questo è, nella sostanza, l’allarme lanciato da Sergio Leotta, Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Dietologia, Diabetologia e Malattie Metaboliche dell’Ospedale “Sandro Pertini” di Roma.
La drammatica novità, è che non si tratta di adulti o anziani, ma di ragazzi, soprattutto maschi, sempre più pesanti e quindi sempre più a rischio, ha aggiunto Leotta.
Ma non è tutto! Su tre milioni di italiani sofferenti di diabete, ben due milioni sono obesi . Ma uno su tre non lo sa e quindi non si cura, con le complicanze del caso.
La prima cosa da fare è quindi attrezzare gli ambulatori con gli strumenti necessari. La bilancia da sola non basta.
Quando ci si presenta un paziente, in evidente sovrappeso, oltre al calcolo del BMI è necessario misurare almeno la glicemia, la composizione corporea e disporre di tutta la tecnologia oggi necessaria per le misure ottimali del caso, prima di procedere alla sola terapia alimentare .
Fonte:
10 ottobre 2011
Giornata di sensibilizzazione nazionale su sovrappeso e salute
Obesità diamogli il giusto peso!
Fonte: Cartella stampa
“Ogni due minuti un medico dice a un italiano: lei è malato di diabete del tipo 2, quello non insulino-dipendente”. E fra tre nuovi malati di diabete, due sono obesi .
Questo è, nella sostanza, l’allarme lanciato da Sergio Leotta, Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Dietologia, Diabetologia e Malattie Metaboliche dell’Ospedale “Sandro Pertini” di Roma.
La drammatica novità, è che non si tratta di adulti o anziani, ma di ragazzi, soprattutto maschi, sempre più pesanti e quindi sempre più a rischio, ha aggiunto Leotta.
Ma non è tutto! Su tre milioni di italiani sofferenti di diabete, ben due milioni sono obesi . Ma uno su tre non lo sa e quindi non si cura, con le complicanze del caso.
La prima cosa da fare è quindi attrezzare gli ambulatori con gli strumenti necessari. La bilancia da sola non basta.
Quando ci si presenta un paziente, in evidente sovrappeso, oltre al calcolo del BMI è necessario misurare almeno la glicemia, la composizione corporea e disporre di tutta la tecnologia oggi necessaria per le misure ottimali del caso, prima di procedere alla sola terapia alimentare .
Fonte:
10 ottobre 2011
Giornata di sensibilizzazione nazionale su sovrappeso e salute
Obesità diamogli il giusto peso!
Fonte: Cartella stampa
Quale dieta per la sindrome dell'ovaio policistico?
La resistenza ad insulina e l’iperinsulinemia compensatoria sono considerati importanti fattori eziopatologici nella sindrome dell'ovaio policistico.
La sindrome dell'ovaio policistico è una comune condizione endocrina caratterizzata da iperandroginismo, infertilità e disfunzioni metaboliche.
Tipica della sindrome è la distribuzione del grasso corporeo nella parte superiore del corpo, la presenza di elevati livelli di testosterone libero e la resistenza ad insulina.
La resistenza ad insulina e l’iperinsulinemia compensatoria sono considerati importanti fattori eziopatologici nella sindrome.
Per questo motivo, il ristabilimento dei livelli di insulina e della sua sensibilità sono aspetti essenziali della gestione della sindrome.
Il controllo de peso corporeo ottenuto mediante la dieta e gli interventi comportamentali sono infatti strumenti fondamentali per il controllo delle alterazioni metaboliche.
La maggior parte delle pazienti riconoscono l’importanza della dieta. Tuttavia solo poche ricevono suggerimenti dietari da parte dei medici in quanto non esistono linee guida alimentari ufficiali per le pazienti affette da sindrome da ovaio policistico.
Uno studio inglese ha analizzato la composizione della dieta e i livelli abituali di attività fisica in un gruppo di donne affette dalla sindrome riscontrando infatti una scarsa attenzione da parte di queste.
Le oltre 200 partecipanti hanno fornito informazioni sulle proprie abitudini alimentari e di attività fisica mediante la compilazione di questionari settimanali sviluppati per il calcolo del consumo energetico e di nutrienti.
Dai dati è emerso che la maggior parte delle pazienti non rispettavano un regime alimentare sano e neppure livelli di attività fisica richiesti per ottimizzare il profilo metabolico e controllare i sintomi.
La maggior parte delle partecipanti, pur presentando un indice di massa corporea (BMI) superiore 25 non praticava esercizio fisico ed inoltre presentavano come fonte primaria di energia alimentare grassi saturi.
È dunque estremamente necessario stabilire una serie di indicazioni alimentari regolamentate per queste la gestione di queste pazienti.
Le poche evidenze fino ad ora prodotte suggeriscono invece l’importanza di una dieta povera in grassi saturi e abbondante in fibre derivate da carboidrati a basso indice glicemico.
Gli studi dietari fino ad ora condotti hanno tuttavia focalizzato sulla restrizione energetica piuttosto che sulla composizione della dieta per se.
I consigli dovrebbero invece concentrarsi sulla qualità e quantità dei grassi e sulla modifica del tipo di carboidrati.
Per quanto sia difficile stabilire una dieta ottimale per le donne affette dalla sindrome dell’ovaio policistico, è chiaro che un simile intervento non deve considerare la sola gestione del peso corporeo nel breve termine e i sintomi come l’infertilità, ma dovrebbe soprattutto essere mirato alla riduzione del rischio a lungo termine di sviluppo di diabete di tipo 2, patologie cardiovascolari e alcune forme di tumore.
Autore: S Barr, K Hart, S Reeves, K Sharp and Y M Jeanes
Fonte: European Journal of Clinical Nutrition
La sindrome dell'ovaio policistico è una comune condizione endocrina caratterizzata da iperandroginismo, infertilità e disfunzioni metaboliche.
Tipica della sindrome è la distribuzione del grasso corporeo nella parte superiore del corpo, la presenza di elevati livelli di testosterone libero e la resistenza ad insulina.
La resistenza ad insulina e l’iperinsulinemia compensatoria sono considerati importanti fattori eziopatologici nella sindrome.
Per questo motivo, il ristabilimento dei livelli di insulina e della sua sensibilità sono aspetti essenziali della gestione della sindrome.
Il controllo de peso corporeo ottenuto mediante la dieta e gli interventi comportamentali sono infatti strumenti fondamentali per il controllo delle alterazioni metaboliche.
La maggior parte delle pazienti riconoscono l’importanza della dieta. Tuttavia solo poche ricevono suggerimenti dietari da parte dei medici in quanto non esistono linee guida alimentari ufficiali per le pazienti affette da sindrome da ovaio policistico.
Uno studio inglese ha analizzato la composizione della dieta e i livelli abituali di attività fisica in un gruppo di donne affette dalla sindrome riscontrando infatti una scarsa attenzione da parte di queste.
Le oltre 200 partecipanti hanno fornito informazioni sulle proprie abitudini alimentari e di attività fisica mediante la compilazione di questionari settimanali sviluppati per il calcolo del consumo energetico e di nutrienti.
Dai dati è emerso che la maggior parte delle pazienti non rispettavano un regime alimentare sano e neppure livelli di attività fisica richiesti per ottimizzare il profilo metabolico e controllare i sintomi.
La maggior parte delle partecipanti, pur presentando un indice di massa corporea (BMI) superiore 25 non praticava esercizio fisico ed inoltre presentavano come fonte primaria di energia alimentare grassi saturi.
È dunque estremamente necessario stabilire una serie di indicazioni alimentari regolamentate per queste la gestione di queste pazienti.
Le poche evidenze fino ad ora prodotte suggeriscono invece l’importanza di una dieta povera in grassi saturi e abbondante in fibre derivate da carboidrati a basso indice glicemico.
Gli studi dietari fino ad ora condotti hanno tuttavia focalizzato sulla restrizione energetica piuttosto che sulla composizione della dieta per se.
I consigli dovrebbero invece concentrarsi sulla qualità e quantità dei grassi e sulla modifica del tipo di carboidrati.
Per quanto sia difficile stabilire una dieta ottimale per le donne affette dalla sindrome dell’ovaio policistico, è chiaro che un simile intervento non deve considerare la sola gestione del peso corporeo nel breve termine e i sintomi come l’infertilità, ma dovrebbe soprattutto essere mirato alla riduzione del rischio a lungo termine di sviluppo di diabete di tipo 2, patologie cardiovascolari e alcune forme di tumore.
Autore: S Barr, K Hart, S Reeves, K Sharp and Y M Jeanes
Fonte: European Journal of Clinical Nutrition
Consumo di alcol e adiposità addominale
Il consumo di eccessive quantità di alcol favorisce l'accumulo di grasso a livello addominale, una condizione estrememamente pericolosa per la salute
Il consumo di eccessive quantità di alcol, si sa, è causa di danni spesso irreversibili agli organi.
Tra le conseguenze derivanti da questa abitudine scorretta vi sarebbe anche l'accumulo di tessuto adiposo in sede addominale, una forma di sovrappeso estremamente pericolosa in quanto responsabile di alcune disfunzioni endocrino-metaboliche, prima fra tutte la resistenza ad insulina.
Questo effetto viene osservato sia nelle donne che negli uomini, indipendentemente dal tipo di bevanda alcolica consumata, vino birra o superalcolici.
A differenza di altri alimenti energetici introdotti con la dieta, l’alcol deve essere prontamente smaltito e non può essere depositato nei tessuti, come invece avviene per i carboidrati.
I suo metabolismo è infatti immediato, come dimostrato dalla produzione di calore corporeo, ed inibisce la lipolisi, ossia la mobilitazione dei depositi corporei di grasso.
Inoltre, il consumo smoderato di alcol può causare profondi disturbi endocrini, come una maggiore secrezione di cortisolo, ma anche alterare il metabolismo epatico degli ormoni steroidei.
Gli ormoni sessuali, in particolare gli androgeni, influenzano infatti la distribuzione del grasso corporeo. Negli uomini, ad esempio, bassi livelli di questi ormoni favoriscono la deposizione di grasso addominale mentre nelle donne questo avviene in presenza di livelli particolarmente elevati.
Nuovi dati riguardanti l'associazione alcol-adiposità addominale giungono dallo studio EPIC (Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), una vasta analisi multi-centrica allestita per investigare il ruolo dell’alimentazione nella prevenzione e predisposizione di numerose patologie croniche e il cancro.
Lo studio EPIC, che coinvolge circa 522.000 partecipanti appartenenti a tredici paesi europei, ha già fornito importanti dati epidemiologici sulla relazione tra abitudini alimentari e l’incidenza di comuni patologie.
Nel presente studio è stata valutata l’associazione tra il consumo bevande alcoliche e la presenza di fattori di rischio utilizzando alcune misure antropometriche dell’adiposità corporea come la circonferenza in vita e ai fianchi.
Dai dati è emerso che il consumo di alcol protratto per lungo tempo favorisce l’accumulo di grasso a livello addominale.
Le quantità di alcol consumato correlavano inoltre con l’adiposità totale, ma solo nei soggetti di sesso maschile.
Gli effetti deleteri dell’alcool sull’adiposità dipenderebbero dunque da comportamenti protratti per lungo tempo.
Considerando il vasto campione di individui analizzati e la completezza delle informazioni relative ad un arco di tempo significativamente lungo lo studio ha fornito una forte evidenza epidemiologica sui rischi metabolici associati al consumo eccessivo di alcol.
Autore: M M Bergmann, M Schütze, A Steffen
Fonte: European Journal of Clinical Nutrition
Il consumo di eccessive quantità di alcol, si sa, è causa di danni spesso irreversibili agli organi.
Tra le conseguenze derivanti da questa abitudine scorretta vi sarebbe anche l'accumulo di tessuto adiposo in sede addominale, una forma di sovrappeso estremamente pericolosa in quanto responsabile di alcune disfunzioni endocrino-metaboliche, prima fra tutte la resistenza ad insulina.
Questo effetto viene osservato sia nelle donne che negli uomini, indipendentemente dal tipo di bevanda alcolica consumata, vino birra o superalcolici.
A differenza di altri alimenti energetici introdotti con la dieta, l’alcol deve essere prontamente smaltito e non può essere depositato nei tessuti, come invece avviene per i carboidrati.
I suo metabolismo è infatti immediato, come dimostrato dalla produzione di calore corporeo, ed inibisce la lipolisi, ossia la mobilitazione dei depositi corporei di grasso.
Inoltre, il consumo smoderato di alcol può causare profondi disturbi endocrini, come una maggiore secrezione di cortisolo, ma anche alterare il metabolismo epatico degli ormoni steroidei.
Gli ormoni sessuali, in particolare gli androgeni, influenzano infatti la distribuzione del grasso corporeo. Negli uomini, ad esempio, bassi livelli di questi ormoni favoriscono la deposizione di grasso addominale mentre nelle donne questo avviene in presenza di livelli particolarmente elevati.
Nuovi dati riguardanti l'associazione alcol-adiposità addominale giungono dallo studio EPIC (Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), una vasta analisi multi-centrica allestita per investigare il ruolo dell’alimentazione nella prevenzione e predisposizione di numerose patologie croniche e il cancro.
Lo studio EPIC, che coinvolge circa 522.000 partecipanti appartenenti a tredici paesi europei, ha già fornito importanti dati epidemiologici sulla relazione tra abitudini alimentari e l’incidenza di comuni patologie.
Nel presente studio è stata valutata l’associazione tra il consumo bevande alcoliche e la presenza di fattori di rischio utilizzando alcune misure antropometriche dell’adiposità corporea come la circonferenza in vita e ai fianchi.
Dai dati è emerso che il consumo di alcol protratto per lungo tempo favorisce l’accumulo di grasso a livello addominale.
Le quantità di alcol consumato correlavano inoltre con l’adiposità totale, ma solo nei soggetti di sesso maschile.
Gli effetti deleteri dell’alcool sull’adiposità dipenderebbero dunque da comportamenti protratti per lungo tempo.
Considerando il vasto campione di individui analizzati e la completezza delle informazioni relative ad un arco di tempo significativamente lungo lo studio ha fornito una forte evidenza epidemiologica sui rischi metabolici associati al consumo eccessivo di alcol.
Autore: M M Bergmann, M Schütze, A Steffen
Fonte: European Journal of Clinical Nutrition
Attività fisica, peso e uricemia
L’attività fisica sembra avere un ruolo importante nel controllo del peso e dell’uricemia nei soggetti obesi
L’influenza dell’attività fisica aerobica è stata studiata su un gruppo di soggetti maschi di media età
(n = 71, - 47,2 ± 4,4 anni).
Lo scopo primario dello studio era quello di esaminare l'influenza dell’attività fisica aerobica sugli indici antropometrici e sui livelli sierici di acido urico nei soggetti obesi.
Al termine dell’osservazione si è visto che l’attività fisica leggera era inversamente associata a BMI e circonferenza vita anche dopo aggiustamento per età e consumo di alcol (BMI: β =- 0,543, p = 0,023; circonferenza vita: β =- 1,333, p = 0,016).
L’attività fisica di intensità moderata, era inversamente correlata all’uricemia e la tendenza rimaneva significativa anche dopo aggiustamento per età, BMI e consumo di alcol (β =- 0,222, p = 0,036).
Fonte:
Influence of physical activity intensity and aerobic fitness on the anthropometric index and serum uric Acid concentration in people with obesity.
Fonte: Intern Med. 2011;50(19):2121-8. Epub 2011 Oct 1
L’influenza dell’attività fisica aerobica è stata studiata su un gruppo di soggetti maschi di media età
(n = 71, - 47,2 ± 4,4 anni).
Lo scopo primario dello studio era quello di esaminare l'influenza dell’attività fisica aerobica sugli indici antropometrici e sui livelli sierici di acido urico nei soggetti obesi.
Al termine dell’osservazione si è visto che l’attività fisica leggera era inversamente associata a BMI e circonferenza vita anche dopo aggiustamento per età e consumo di alcol (BMI: β =- 0,543, p = 0,023; circonferenza vita: β =- 1,333, p = 0,016).
L’attività fisica di intensità moderata, era inversamente correlata all’uricemia e la tendenza rimaneva significativa anche dopo aggiustamento per età, BMI e consumo di alcol (β =- 0,222, p = 0,036).
Fonte:
Influence of physical activity intensity and aerobic fitness on the anthropometric index and serum uric Acid concentration in people with obesity.
Fonte: Intern Med. 2011;50(19):2121-8. Epub 2011 Oct 1
Obesità come dipendenza da cibo
L’obesità più resistente ai trattamenti restrittivi potrebbe essere associata a una dipendenza da cibo, specie se si tratta di alimenti dolci e ricchi di grassi
Questo è quanto è stato dimostrato nella sostanza, studiando un campione di adulti obesi (età 25-45 anni), e valutando tre settori rilevanti per la caratterizzazione dei tradizionali disturbi sostanza-dipendenza: clinica comorbidità, fattori di rischio psicologici e motivazione alterata per la sostanza che crea dipendenza.
Si è potuto così dimostrare che coloro che hanno incontrato i criteri diagnostici per la dipendenza da sostanza (FA food addiction) mostravano una significativa comorbità con BED (Binge Eating Disorder), depressione e disturbi da deficit di attenzione rispetto alle controparti equivalenti in età e peso.
Inoltre, rispetto ai controlli obesi, i soggetti con FA, mostravano un maggiore desiderio di cibo e la tendenza ad “auto-lesionismo” con il cibo.
Questi risultati sono importanti per l’identificazione di sottotipi clinicamente rilevanti di obesità legata ai fattori di rischio ambientale, e utili per realizzare programmi terapeutici mirati che tengano conto del substrato psicologico.
Fonti
Evidence that 'food addiction' is a valid phenotype of obesity.
Fonte: Appetite. 2011 Sep 3;57(3):711-717. [Epub ahead of print]
Questo è quanto è stato dimostrato nella sostanza, studiando un campione di adulti obesi (età 25-45 anni), e valutando tre settori rilevanti per la caratterizzazione dei tradizionali disturbi sostanza-dipendenza: clinica comorbidità, fattori di rischio psicologici e motivazione alterata per la sostanza che crea dipendenza.
Si è potuto così dimostrare che coloro che hanno incontrato i criteri diagnostici per la dipendenza da sostanza (FA food addiction) mostravano una significativa comorbità con BED (Binge Eating Disorder), depressione e disturbi da deficit di attenzione rispetto alle controparti equivalenti in età e peso.
Inoltre, rispetto ai controlli obesi, i soggetti con FA, mostravano un maggiore desiderio di cibo e la tendenza ad “auto-lesionismo” con il cibo.
Questi risultati sono importanti per l’identificazione di sottotipi clinicamente rilevanti di obesità legata ai fattori di rischio ambientale, e utili per realizzare programmi terapeutici mirati che tengano conto del substrato psicologico.
Fonti
Evidence that 'food addiction' is a valid phenotype of obesity.
Fonte: Appetite. 2011 Sep 3;57(3):711-717. [Epub ahead of print]
Amenorrea e composizione corporea
Nelle pazienti con amenorrea, la valutazione della composizione corporea può svelare se alla causa del disordine ci sono disturbi alimentari
Nel presente studio si sono ricercati alcuni criteri diagnostici che permettano di distinguere i soggetti con amenorre ipotalamica funzionale associata a minima deficienza energetica da coloro in cui prevale l’incapacità di mettere in atto risposte adattative allo stress.
Allo studio hanno partecipato 59 giovani donne affette da amenorrea secondaria associata a lievi disordini alimentari, di cui 58 hanno riportato eventi stressanti nella propria vita sono.
Ogni partecipante è stata valutata secondo alcune misurazioni antropometriche, composizione corporea mediante assorbiometria dual energy X-ray (DEXA) ed analisi della bioimpedenza edil profilo endocrino basale.
I soggetti che presentavano disturbi del comportamento alimentare presentavano un basso indice di massa corporea (BMI), una bassa massa grassa (FM) misurata con entrambe le tecniche, una ridotta densità ossea a livello lombare ed anche bassi valori diretti e indiretti relativi alla massa magra.
Nel gruppo caatterizzato da disturbi alimentari sono state inoltre riscontrate concentrazioni di leptina e tri-iodotronina mentre non è stata rilevata una significativa differenza dei livelli di cortisolo nei due gruppi.
I livelli di leptina erano positivamente associati non solo al contenuto di massa grassa, ma anche alla massa cellulare corporea rispetto l'altezza e all'angolo di fase, Parametri studiati con la BIA ed espressione del compartimento corporeo attivo.
Il modello di analisi multivariato ha confermato l’utilità di integrare i dati relativi al profilo ormonale con lo studio della composizione corporea.
L’utilizzo dell’analisi di bioimpedenza si è dimostrato valida alternativa diagnostica alla DEXA, specialmente quando si considerano la massa cellulare corporea e l’angolo di fase.
Autore: Bruni V, Dei M, Morelli C, Schettini MT, Balzi D, Nuvolone D Fonte: J Pediatr Adolesc Gynecol. 2011 Sep 8.
Nel presente studio si sono ricercati alcuni criteri diagnostici che permettano di distinguere i soggetti con amenorre ipotalamica funzionale associata a minima deficienza energetica da coloro in cui prevale l’incapacità di mettere in atto risposte adattative allo stress.
Allo studio hanno partecipato 59 giovani donne affette da amenorrea secondaria associata a lievi disordini alimentari, di cui 58 hanno riportato eventi stressanti nella propria vita sono.
Ogni partecipante è stata valutata secondo alcune misurazioni antropometriche, composizione corporea mediante assorbiometria dual energy X-ray (DEXA) ed analisi della bioimpedenza edil profilo endocrino basale.
I soggetti che presentavano disturbi del comportamento alimentare presentavano un basso indice di massa corporea (BMI), una bassa massa grassa (FM) misurata con entrambe le tecniche, una ridotta densità ossea a livello lombare ed anche bassi valori diretti e indiretti relativi alla massa magra.
Nel gruppo caatterizzato da disturbi alimentari sono state inoltre riscontrate concentrazioni di leptina e tri-iodotronina mentre non è stata rilevata una significativa differenza dei livelli di cortisolo nei due gruppi.
I livelli di leptina erano positivamente associati non solo al contenuto di massa grassa, ma anche alla massa cellulare corporea rispetto l'altezza e all'angolo di fase, Parametri studiati con la BIA ed espressione del compartimento corporeo attivo.
Il modello di analisi multivariato ha confermato l’utilità di integrare i dati relativi al profilo ormonale con lo studio della composizione corporea.
L’utilizzo dell’analisi di bioimpedenza si è dimostrato valida alternativa diagnostica alla DEXA, specialmente quando si considerano la massa cellulare corporea e l’angolo di fase.
Autore: Bruni V, Dei M, Morelli C, Schettini MT, Balzi D, Nuvolone D Fonte: J Pediatr Adolesc Gynecol. 2011 Sep 8.
B.M.I. e massa grassa nei bambini
La correlazione tra BMI e massa grassa percentuale nei bambini è curvilinea e la curva si accentua nei bambini obesi o in sovrappeso
La correlazione tra BMI e massa grassa percentuale nei bambini è curvilinea e la curva si accentua nei bambini obesi o in sovrappeso.
La misura del BMI in età pediatrica è scarsamente utilizzata in quanto poco predittiva.
Di fatto la correlazione tra peso e altezza è lineare nell’adulto, ma non per i bambini al di sotto dei 12-14 anni.
Inoltre, se per quanto riguarda gli adulti si po’ ritenere che il BMI possa diventare un parametro efficacemente predittivo sulla composizione corporea, questo non vale per l’età pediatrica.
Lo conferma uno studio recente condotto in Italia da un gruppo di ricercatori dell’Università di Cassino che hanno studiato oltre 360 ragazzini dai 6 ai 12 anni tutti giocatori di calcio.
I risultati dello studio suggeriscono nella sostanza che il BMI pur non essendo utilizzabile come standard di riferimento per la popolazione infantile, ha un significato rafforzativo nella relazione curvilinea che si verifica al confronto con la composizione corporea in percentuale di massa grassa, specie per quanto riguarda i bambini in sovrappeso.
Fonte
Body mass index has a curvilinear relationship with the percentage of body fat among children.
Fonte: BMC Res Notes. 2011 Aug 18;4:301.
La correlazione tra BMI e massa grassa percentuale nei bambini è curvilinea e la curva si accentua nei bambini obesi o in sovrappeso.
La misura del BMI in età pediatrica è scarsamente utilizzata in quanto poco predittiva.
Di fatto la correlazione tra peso e altezza è lineare nell’adulto, ma non per i bambini al di sotto dei 12-14 anni.
Inoltre, se per quanto riguarda gli adulti si po’ ritenere che il BMI possa diventare un parametro efficacemente predittivo sulla composizione corporea, questo non vale per l’età pediatrica.
Lo conferma uno studio recente condotto in Italia da un gruppo di ricercatori dell’Università di Cassino che hanno studiato oltre 360 ragazzini dai 6 ai 12 anni tutti giocatori di calcio.
I risultati dello studio suggeriscono nella sostanza che il BMI pur non essendo utilizzabile come standard di riferimento per la popolazione infantile, ha un significato rafforzativo nella relazione curvilinea che si verifica al confronto con la composizione corporea in percentuale di massa grassa, specie per quanto riguarda i bambini in sovrappeso.
Fonte
Body mass index has a curvilinear relationship with the percentage of body fat among children.
Fonte: BMC Res Notes. 2011 Aug 18;4:301.
E' meglio intervenire sulla famiglia?
L’efficacia dei trattamenti comportamentali correttivi dell’obesità infantile basata su interventi comprendenti l’intera famiglia è ancora in discussione.
Di questo sono convinti i ricercatori inglesi del Department of Epidemiology and Public Health e del Cancer Research UK Health Behaviour Research Centre.
Sono stati, in proposito, osservati i dati antropometrici (peso, altezza, BMI, indice di massa magra) la pressione sistolica e alcune misure psicosociali di 72 bambini obesi che venivano posti a confronto con un gruppo di controllo.
Le misure venivano rilevate al tempo 0, dopo 6 mesi e dopo 12 mesi. Si procedeva con un’analisi dei dati rilevati secondo un modello ITT (intent – to treat) selezionando un gruppo di trattamento con quello di controllo.
Si è così evidenziato che entrambi i gruppi mostravano, a 12 mesi, una significativa riduzione del sovrappeso, ma al confronto tra i due non vi erano altre differenze significative.
Fonte:
Family-based behavioural treatment of childhood obesity in a UK national health service setting: randomized controlled trial.
Fonte: Int J Obes (Lond). 2011 Sep 20. doi: 10.1038/ijo.2011.182. [Epub ahead of print]
Di questo sono convinti i ricercatori inglesi del Department of Epidemiology and Public Health e del Cancer Research UK Health Behaviour Research Centre.
Sono stati, in proposito, osservati i dati antropometrici (peso, altezza, BMI, indice di massa magra) la pressione sistolica e alcune misure psicosociali di 72 bambini obesi che venivano posti a confronto con un gruppo di controllo.
Le misure venivano rilevate al tempo 0, dopo 6 mesi e dopo 12 mesi. Si procedeva con un’analisi dei dati rilevati secondo un modello ITT (intent – to treat) selezionando un gruppo di trattamento con quello di controllo.
Si è così evidenziato che entrambi i gruppi mostravano, a 12 mesi, una significativa riduzione del sovrappeso, ma al confronto tra i due non vi erano altre differenze significative.
Fonte:
Family-based behavioural treatment of childhood obesity in a UK national health service setting: randomized controlled trial.
Fonte: Int J Obes (Lond). 2011 Sep 20. doi: 10.1038/ijo.2011.182. [Epub ahead of print]
Quanto rapido deve essere il calo ponderale ?
I traguardi temporali sono oggetto di continua investigazione clinica
La perdita intenzionale del peso corporeo si accompagna ad un indiscusso miglioramento della qualità di vita.
La riduzione dei depositi di tessuto adiposo permette infatti di arginare una serie di complicazioni metaboliche che possono determinare l’insorgenza di pericolose patologie.
Il tipo di strategia alimentrare, ma soprattutto i traguardi ponderali da raggiungere e gli obiettivi temporali da rispettare restano tuttavia in discussione e oggetto di continua investigazione clinica.
Uno studio ha messo a confronto due tipi di internventi dietari mirati alla riduzione del peso corporeo che differivano nei tempi di realizzazione e nella composizione delle diete impiegate.
Un recente studio ha coinvolto individui obesi caratterizzati da un indice di massa corporea compreso tra 30 e 40, ricercando l’effetto dei due programmi sul miglioramento di alcune misure antropometriche e biomarker sanguigni.
Il programma 1 prevedeva una dieta a basso apporto calorico (LED) (5000-6000 Kj al giorno) mirato a produrre una lento ma costante perdita di peso nel corso di 12 settimane.
Il programma 2 (VLED) prevedeva invece una dieta a contenuto energetico estremamente basso di (3000 kJ al giorno) che utilizzava alimenti sostitutivi dei pasti per ottenere una perdita di peso rapida durante un perdiodo di 4 settimane, seguite poi da 10 settimane di stabilizzazione ponderale per prevenire il riaumento di peso.
All’inizio dello studio, così come al raggiungmento della riduzione del peso desiderato, sono stati raccolti campioni di sangue a digiuno e sono state valutate le misure antropomentriche.
Nel gruppo LED, la riduzione media di peso è stata di 3,17 Kg (3,7%) mentre nel gruppo VLED è stata di 6,54 Kg (7%) Al termine del programma, il gruppo VLED presentava inoltre una maggiore riduzione della massa grassa (13,9% rispetto al 8,% del grupo LED).
Allo stesso modo, sono state registrate maggiori riduzioni della glicemia, del colesterolo e delle lipoprorteine a bassa densità, così come della circonferenza in vita, nel gruppo VLED rispetto al LED.
Il programma attuato in tempi più brevi si è dimostrato più efficace nel determinare la minima riduzione del peso corporeo richiesta (5%) capace di minimizzare le anomalie metaboliche associate al sovrappeso, responsabili dei potenziali rischi per la salute.
Autore: Irene A. Munro and Manohar L. Garg
Fonte: Food Funct., 2011
La perdita intenzionale del peso corporeo si accompagna ad un indiscusso miglioramento della qualità di vita.
La riduzione dei depositi di tessuto adiposo permette infatti di arginare una serie di complicazioni metaboliche che possono determinare l’insorgenza di pericolose patologie.
Il tipo di strategia alimentrare, ma soprattutto i traguardi ponderali da raggiungere e gli obiettivi temporali da rispettare restano tuttavia in discussione e oggetto di continua investigazione clinica.
Uno studio ha messo a confronto due tipi di internventi dietari mirati alla riduzione del peso corporeo che differivano nei tempi di realizzazione e nella composizione delle diete impiegate.
Un recente studio ha coinvolto individui obesi caratterizzati da un indice di massa corporea compreso tra 30 e 40, ricercando l’effetto dei due programmi sul miglioramento di alcune misure antropometriche e biomarker sanguigni.
Il programma 1 prevedeva una dieta a basso apporto calorico (LED) (5000-6000 Kj al giorno) mirato a produrre una lento ma costante perdita di peso nel corso di 12 settimane.
Il programma 2 (VLED) prevedeva invece una dieta a contenuto energetico estremamente basso di (3000 kJ al giorno) che utilizzava alimenti sostitutivi dei pasti per ottenere una perdita di peso rapida durante un perdiodo di 4 settimane, seguite poi da 10 settimane di stabilizzazione ponderale per prevenire il riaumento di peso.
All’inizio dello studio, così come al raggiungmento della riduzione del peso desiderato, sono stati raccolti campioni di sangue a digiuno e sono state valutate le misure antropomentriche.
Nel gruppo LED, la riduzione media di peso è stata di 3,17 Kg (3,7%) mentre nel gruppo VLED è stata di 6,54 Kg (7%) Al termine del programma, il gruppo VLED presentava inoltre una maggiore riduzione della massa grassa (13,9% rispetto al 8,% del grupo LED).
Allo stesso modo, sono state registrate maggiori riduzioni della glicemia, del colesterolo e delle lipoprorteine a bassa densità, così come della circonferenza in vita, nel gruppo VLED rispetto al LED.
Il programma attuato in tempi più brevi si è dimostrato più efficace nel determinare la minima riduzione del peso corporeo richiesta (5%) capace di minimizzare le anomalie metaboliche associate al sovrappeso, responsabili dei potenziali rischi per la salute.
Autore: Irene A. Munro and Manohar L. Garg
Fonte: Food Funct., 2011
Prodotti "quasi integrali" per bambini
Sostituendo una parte delle farine raffinate nei prodotti da forno di largo consumo, con farine integrali, si riesce ad aumentare il consumo di queste ultime.
Questo è quanto nella sostanza risulta dai dati di uno studio di sorveglianza sui consumi, condotto in America, dal Dipartimento dell’Agricoltura, su un campione rappresentativo di 2.349 ragazzi dai 9 ai 18 anni.
L’assunzione di farine integrali è stata “modellata” sostituendo proporzioni variabili di farina raffinata in alimenti come crosta di pizza, pasta, pane e altri prodotti da forno con farina integrale, e una parte di riso bianco con riso integrale.
Controllando i consumi degli alimenti dopo la sostituzione si è visto che le principali fonti di farine integrali venivano dai consumi di: pane (28,0%), pizza (14,2%), cereali per la colazione (11,0%), riso / pasta (10,6%), pane tipo tortillas, muffin, cialde (10,8 %), altri prodotti da forno (9,9%) e da snack salati a base di cereali diversi tipo popcorn (7,3%).
Inoltre si è visto che i consumi dei prodotti non modificati erano correlati al grado d’indigenza delle famiglie, mentre i consumi degli alimenti dopo la sostituzione con le farine integrali no.
Questo lavoro sottolinea l’importanza di disporre di programmi computerizzati per la preparazione di un piano dietetico che siano basati su un numero molto elevato di ingredienti e ricette.
Fonte:
Dietary Modeling Shows that Substitution of Whole-Grain for Refined-Grain Ingredients of Foods Commonly Consumed by US Children and Teens Can Increase Intake of Whole Grains.
Fonte: J Am Diet Assoc. 2011 Sep;111(9):1322-8.
Questo è quanto nella sostanza risulta dai dati di uno studio di sorveglianza sui consumi, condotto in America, dal Dipartimento dell’Agricoltura, su un campione rappresentativo di 2.349 ragazzi dai 9 ai 18 anni.
L’assunzione di farine integrali è stata “modellata” sostituendo proporzioni variabili di farina raffinata in alimenti come crosta di pizza, pasta, pane e altri prodotti da forno con farina integrale, e una parte di riso bianco con riso integrale.
Controllando i consumi degli alimenti dopo la sostituzione si è visto che le principali fonti di farine integrali venivano dai consumi di: pane (28,0%), pizza (14,2%), cereali per la colazione (11,0%), riso / pasta (10,6%), pane tipo tortillas, muffin, cialde (10,8 %), altri prodotti da forno (9,9%) e da snack salati a base di cereali diversi tipo popcorn (7,3%).
Inoltre si è visto che i consumi dei prodotti non modificati erano correlati al grado d’indigenza delle famiglie, mentre i consumi degli alimenti dopo la sostituzione con le farine integrali no.
Questo lavoro sottolinea l’importanza di disporre di programmi computerizzati per la preparazione di un piano dietetico che siano basati su un numero molto elevato di ingredienti e ricette.
Fonte:
Dietary Modeling Shows that Substitution of Whole-Grain for Refined-Grain Ingredients of Foods Commonly Consumed by US Children and Teens Can Increase Intake of Whole Grains.
Fonte: J Am Diet Assoc. 2011 Sep;111(9):1322-8.
Infiammazione intestinale, a rischio anche i giovani sovrappeso
L’allarme giunge dell’università Federico II di Napoli e avverte su nuovi rischi legati al sovrappeso infantile
L’obesità infantile non è un problema non da poco. A questo sono infatti legati disturbi che si manifestano già nella giovane età e che possono progredire verso patologie vere e proprie.
Alla base delle anomalie metaboliche riscontrate nei soggetti obesi, indipendentemente dall’età, vi sarebbe uno stato di infiammazione cronica, dovuto proprio all’eccesso di tessuto adiposo e sostenuto dalle sue cellule, capaci di produrre molecole pro-infiammatorie.
Evidenze epidemiologiche dimostrano una forte associazione tra l’obesità e la presenza di disturbi infiammatori intestinali nella popolazione adulta.
Un’altra ben nota relazione è quella tra il sovrappeso e il rischo di sviluppo del cancro colon-rettale, la cui insorgenza sembra essere mediata appunto dallo stato infiammatorio cronico.
Nei bambini, l’infiammazione intestinale è una condizione piuttosto rara e presenta, generalmente, eziologie distinte.
Il sovrappeso, invece, sembrerebbe favorire l’insorgenza di questa condizione già in età giovanissma.
Lo studio
40 bambini di età media 10 anni moderatamente e severamente obesi sono stati esaminati mediante test di tolleranza al glucosio e della resistenza all’insulina per stabilire il grado di disfunzione metabolica.
Per valutare il livello dello stato infiammatorio, i ricercatori partenopei hanno invece condotto test non-invasivi volti a rilevare le concentrazioni di ossido nitrico e calprotectina fecale, due indicatori dell’infiammazione delle mucose intestinali e della proteina C reattiva, un marker dell’infiammazione sistemica.
Come atteso, in oltre il 70% dei partecipanti erano presenti disturbi nel metabolismo del glucosio.
I valori relativi all’infiammazione sistemica ed intestinale erano patologici in un’altrettanta significativa percentuale dei giovani pazienti.
I risultati hanno confermato precedenti osservazioni riguardanti le preoccupanti disfunzioni metaboliche associate all’obesità infantile – iperinsulinemia, ridotta tolleranza al glucosio e diabete di tipo 2 – ma hanno anche avvertito, per la prima volta, sull’esistenza di un’altra pericolosa condizione.
L’infiammazione intestinale era infatti presente nelle diverse categorie di sovrappeso e il suo grado aumentava linearmente con la severità del sovrappeso.
Autore: MI Spagnuolo, MP Cicalese, MA Caiazzo
Fonte: Ital J Pediatr.
L’obesità infantile non è un problema non da poco. A questo sono infatti legati disturbi che si manifestano già nella giovane età e che possono progredire verso patologie vere e proprie.
Alla base delle anomalie metaboliche riscontrate nei soggetti obesi, indipendentemente dall’età, vi sarebbe uno stato di infiammazione cronica, dovuto proprio all’eccesso di tessuto adiposo e sostenuto dalle sue cellule, capaci di produrre molecole pro-infiammatorie.
Evidenze epidemiologiche dimostrano una forte associazione tra l’obesità e la presenza di disturbi infiammatori intestinali nella popolazione adulta.
Un’altra ben nota relazione è quella tra il sovrappeso e il rischo di sviluppo del cancro colon-rettale, la cui insorgenza sembra essere mediata appunto dallo stato infiammatorio cronico.
Nei bambini, l’infiammazione intestinale è una condizione piuttosto rara e presenta, generalmente, eziologie distinte.
Il sovrappeso, invece, sembrerebbe favorire l’insorgenza di questa condizione già in età giovanissma.
Lo studio
40 bambini di età media 10 anni moderatamente e severamente obesi sono stati esaminati mediante test di tolleranza al glucosio e della resistenza all’insulina per stabilire il grado di disfunzione metabolica.
Per valutare il livello dello stato infiammatorio, i ricercatori partenopei hanno invece condotto test non-invasivi volti a rilevare le concentrazioni di ossido nitrico e calprotectina fecale, due indicatori dell’infiammazione delle mucose intestinali e della proteina C reattiva, un marker dell’infiammazione sistemica.
Come atteso, in oltre il 70% dei partecipanti erano presenti disturbi nel metabolismo del glucosio.
I valori relativi all’infiammazione sistemica ed intestinale erano patologici in un’altrettanta significativa percentuale dei giovani pazienti.
I risultati hanno confermato precedenti osservazioni riguardanti le preoccupanti disfunzioni metaboliche associate all’obesità infantile – iperinsulinemia, ridotta tolleranza al glucosio e diabete di tipo 2 – ma hanno anche avvertito, per la prima volta, sull’esistenza di un’altra pericolosa condizione.
L’infiammazione intestinale era infatti presente nelle diverse categorie di sovrappeso e il suo grado aumentava linearmente con la severità del sovrappeso.
Autore: MI Spagnuolo, MP Cicalese, MA Caiazzo
Fonte: Ital J Pediatr.
La valutazione psicologica del paziente obeso
I questionari di autocompilazione sono strumenti altamente affidabili e sensibili per la valutazione psicometrica del paziente obeso
I professionisti che si occupano alla gestione delle complicazioni legate all’obesità si trovano quotidianamente ad affrontare e misurare l’impatto che questa condizione ha sulla salute mentale del paziente.
La valutazione del profilo psicologico del paziente obeso non si limita, infatti, alla ricerca delle cause coinvolte nella psicopatologia dei disturbi alimentari, ma si prefigge di stimare in quale misura la malattia influenzi la qualità di vita del paziente ed infine indaga i fattori implicati nel riaumento di peso a distanza da un intervento bariatrico o una terapia alimentare apparentemente condotta con successo.
I questionari di auto-compilazione, inizialmente sviluppati e validati su pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione, rappresentano oggigiorno uno strumento indispensabile nella pratica clinica per la gestione del paziente severamente obeso candidato alla chirurgia bariatrica.
Il questionario IWQOL, acronimo di Impact of Weight on Quality of Life questionnaire, è stato il primo test appositamente sviluppato per valutare l’impatto dell’obesità sulla qualità di vita.
La versione aggiornata dello strumento (IWQOL)-Lite consiste in un questionario di 31 punti che fornisce sia un punteggio totale, sia punteggi specifici relativi a cinque ambiti o sottodomini della vita quotidiana: funzionalità fisica, autostima, attività sessuale, stress sociale e ambiente di lavoro.
Le proprietà psicometriche dello strumento IWQOL-Lite sono recentemente testate in uno studio spagnolo coinvolgente un gruppo di pazienti in attesa di intervento di chirurgia bariatrica di bypass gastrico.
Lo studio ha confermato la sensibilità dello strumento nel rilevare differenze nella qualità di vita all’interno del gruppo di individui, evidenziandone la validità psicometrica.
Autore: Andrés A, Saldaña C, Mesa J, Lecube A.
Fonte: Obes Surg.
I professionisti che si occupano alla gestione delle complicazioni legate all’obesità si trovano quotidianamente ad affrontare e misurare l’impatto che questa condizione ha sulla salute mentale del paziente.
La valutazione del profilo psicologico del paziente obeso non si limita, infatti, alla ricerca delle cause coinvolte nella psicopatologia dei disturbi alimentari, ma si prefigge di stimare in quale misura la malattia influenzi la qualità di vita del paziente ed infine indaga i fattori implicati nel riaumento di peso a distanza da un intervento bariatrico o una terapia alimentare apparentemente condotta con successo.
I questionari di auto-compilazione, inizialmente sviluppati e validati su pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione, rappresentano oggigiorno uno strumento indispensabile nella pratica clinica per la gestione del paziente severamente obeso candidato alla chirurgia bariatrica.
Il questionario IWQOL, acronimo di Impact of Weight on Quality of Life questionnaire, è stato il primo test appositamente sviluppato per valutare l’impatto dell’obesità sulla qualità di vita.
La versione aggiornata dello strumento (IWQOL)-Lite consiste in un questionario di 31 punti che fornisce sia un punteggio totale, sia punteggi specifici relativi a cinque ambiti o sottodomini della vita quotidiana: funzionalità fisica, autostima, attività sessuale, stress sociale e ambiente di lavoro.
Le proprietà psicometriche dello strumento IWQOL-Lite sono recentemente testate in uno studio spagnolo coinvolgente un gruppo di pazienti in attesa di intervento di chirurgia bariatrica di bypass gastrico.
Lo studio ha confermato la sensibilità dello strumento nel rilevare differenze nella qualità di vita all’interno del gruppo di individui, evidenziandone la validità psicometrica.
Autore: Andrés A, Saldaña C, Mesa J, Lecube A.
Fonte: Obes Surg.
Fitoterapici per il sovrappeso, il caso dell'aglio
Alcuni composti contenuti nel bulbo sembrano esercitare effetti diretti sui depositi di tessuto adiposo
Curare l’obesità con la dieta? Nulla di strano, specialmente quando alcuni alimenti possiedono vere e proprie proprietà farmacologiche.
L’attenzione è ora rivolta all’aglio, insostituibile elemento della dieta mediterranea e, forse non a caso, alimento indicato per la prevenzione di un vasto spettro di patologie tra cui aterosclerosi, alcune forme di tumore, ipercolesterolemia, diabete di tipo 2, ipertensione e, a quanto pare, anche l’obesità.
Alcuni composti contenuti nel bulbo, principalmente tiosolfonati e polifenoli, sembrano infatti esercitare effetti diretti sui depositi di tessuto adiposo, promuovendo la loro riduzione e stimolando il consumo delle riserve energetiche.
Recenti studi di biologia sperimentale hanno identificato i precisi meccanismi di azione dei composti, indicando come alcuni di questi potrebbero trovare applicazione come soluzioni medicinali per la lotta al sovrappeso.
Queste sostanze interferiscono nel normale ciclo vitale delle cellule del tessuto adiposo, gli adipociti, bloccando il loro processo di maturazione da semplici fibroblasti ad adipociti maturi contenenti lipidi.
Gli effetti anti-obesità dell’aglio, testati su modelli animali hanno prodotto risultati stimolanti. La dieta contenente dosi moderate di aglio determinava infatti una sostanziale riduzione dei depositi adiposi corporei dell’animale obeso e migliorava inoltre il profilo lipidico plasmatico ed epatico.
Questi effetti risultavano mediati da una minore espressione di geni adipogenici responsabili della proliferazione ed accumulo delle cellule del tessuto adiposo. Allo stesso tempo, la dieta favoriva la produzione di una categoria di proteine mitocondriali attivamente coinvolte nel consumo delle riserve energetiche nel tessuto adiposo, fegato e muscolo scheletrico.
A fronte di una sempre meno convincente terapia farmacologica per l’obesità, l’alimentazione sembra offrire le soluzioni più naturali e mirate.
L’esistenza di vari composti anti-adipogenetici contenuti distinti alimenti di origine vegetale suggerisce un loro utilizzo combinato con effetti sinergistici e additivi.
Queste evidenze sperimentali aprono infatti la strada a terapie fitoterapiche combinatoriali, con un profilo di sicurezza e di costi per il paziente decisamente più sicuro ed invitante.
Autore: Lee MS, Kim IH, Kim CT, Kim Y.
Fonte: J Nutr. 2011
Curare l’obesità con la dieta? Nulla di strano, specialmente quando alcuni alimenti possiedono vere e proprie proprietà farmacologiche.
L’attenzione è ora rivolta all’aglio, insostituibile elemento della dieta mediterranea e, forse non a caso, alimento indicato per la prevenzione di un vasto spettro di patologie tra cui aterosclerosi, alcune forme di tumore, ipercolesterolemia, diabete di tipo 2, ipertensione e, a quanto pare, anche l’obesità.
Alcuni composti contenuti nel bulbo, principalmente tiosolfonati e polifenoli, sembrano infatti esercitare effetti diretti sui depositi di tessuto adiposo, promuovendo la loro riduzione e stimolando il consumo delle riserve energetiche.
Recenti studi di biologia sperimentale hanno identificato i precisi meccanismi di azione dei composti, indicando come alcuni di questi potrebbero trovare applicazione come soluzioni medicinali per la lotta al sovrappeso.
Queste sostanze interferiscono nel normale ciclo vitale delle cellule del tessuto adiposo, gli adipociti, bloccando il loro processo di maturazione da semplici fibroblasti ad adipociti maturi contenenti lipidi.
Gli effetti anti-obesità dell’aglio, testati su modelli animali hanno prodotto risultati stimolanti. La dieta contenente dosi moderate di aglio determinava infatti una sostanziale riduzione dei depositi adiposi corporei dell’animale obeso e migliorava inoltre il profilo lipidico plasmatico ed epatico.
Questi effetti risultavano mediati da una minore espressione di geni adipogenici responsabili della proliferazione ed accumulo delle cellule del tessuto adiposo. Allo stesso tempo, la dieta favoriva la produzione di una categoria di proteine mitocondriali attivamente coinvolte nel consumo delle riserve energetiche nel tessuto adiposo, fegato e muscolo scheletrico.
A fronte di una sempre meno convincente terapia farmacologica per l’obesità, l’alimentazione sembra offrire le soluzioni più naturali e mirate.
L’esistenza di vari composti anti-adipogenetici contenuti distinti alimenti di origine vegetale suggerisce un loro utilizzo combinato con effetti sinergistici e additivi.
Queste evidenze sperimentali aprono infatti la strada a terapie fitoterapiche combinatoriali, con un profilo di sicurezza e di costi per il paziente decisamente più sicuro ed invitante.
Autore: Lee MS, Kim IH, Kim CT, Kim Y.
Fonte: J Nutr. 2011
Deficit nutrizionale e risposte immunitarie
La carenza di micronutrienti appare associata a deficit immunitari e di conseguenza a una maggiore incidenza d’infezioni, nei diabetici di tipo 2.
In proposito è stato condotto uno studio allo scopo di accertare gli effetti della supplementazione con micronutrienti sulle funzioni immunitarie e sull’incidenza d’infezioni in un gruppo di pazienti (n=196) ambulatoriali diabetici di tipo 2.
I pazienti reclutati sono stati randomizzati in doppio cieco in due gruppi dei quali uno (n=97) riceveva compresse a base di micronutrienti e l’altro (n=99) un placebo per 6 mesi consecutivi.
Al tempo 0 e dopo 6 mesi venivano rilevati: i parametri antropometrici, le variabili ematochimiche e accertata l’incidenza d’infezioni.
I dati relativi alla dieta abituale, all’esercizio fisico e alle infezioni intercorrenti (respiratorie, cutanee, urinarie, genitali e altre) venivano riportati a partire da 1 mese prima dello studio e ad ogni mese durante il follow-up.
Al termine dei 6 mesi si è potuto sostanzialmente dimostrare che nel gruppo che riceveva supplementi l’incidenza delle infezioni era diminuita rispetto al gruppo che riceveva il placebo grazie all’aumento dell’efficienza immunitaria.
Questi risultati confermano da un lato l’influenza dello stato nutrizionale sulle funzioni immunitarie e dall’altro l’utilità della supplementazione con micronutrienti nei soggetti con deficit immunitario, come di fatto sono i diabetici.
Fonte:
Micronutrients decrease incidence of common infections in type 2 diabetic outpatients.
Fonte: Asia Pac J Clin Nutr. 2011;20(3):375-82
In proposito è stato condotto uno studio allo scopo di accertare gli effetti della supplementazione con micronutrienti sulle funzioni immunitarie e sull’incidenza d’infezioni in un gruppo di pazienti (n=196) ambulatoriali diabetici di tipo 2.
I pazienti reclutati sono stati randomizzati in doppio cieco in due gruppi dei quali uno (n=97) riceveva compresse a base di micronutrienti e l’altro (n=99) un placebo per 6 mesi consecutivi.
Al tempo 0 e dopo 6 mesi venivano rilevati: i parametri antropometrici, le variabili ematochimiche e accertata l’incidenza d’infezioni.
I dati relativi alla dieta abituale, all’esercizio fisico e alle infezioni intercorrenti (respiratorie, cutanee, urinarie, genitali e altre) venivano riportati a partire da 1 mese prima dello studio e ad ogni mese durante il follow-up.
Al termine dei 6 mesi si è potuto sostanzialmente dimostrare che nel gruppo che riceveva supplementi l’incidenza delle infezioni era diminuita rispetto al gruppo che riceveva il placebo grazie all’aumento dell’efficienza immunitaria.
Questi risultati confermano da un lato l’influenza dello stato nutrizionale sulle funzioni immunitarie e dall’altro l’utilità della supplementazione con micronutrienti nei soggetti con deficit immunitario, come di fatto sono i diabetici.
Fonte:
Micronutrients decrease incidence of common infections in type 2 diabetic outpatients.
Fonte: Asia Pac J Clin Nutr. 2011;20(3):375-82
Derivati del latte per contrastare il diabete
Il consumo di prodotti caseari, latte crudo, yogurt e formaggi offre protezione contro lo sviluppo del diabete mellito di tipo 2.
Il consumo di latte e dei suoi derivati è largamente incentivato e costituisce parte di una dieta salutare.
Questi alimenti sarebbero inoltre preferibili ad altri maggiormente ricchi in carboidrati per la prevenzione dei più comuni disturbi metabolici legati all’alimentazione.
Studi epidemiologici hanno infatti rilevato che il consumo di prodotti caseari, latte crudo, yogurt e formaggi offre protezione contro lo sviluppo del diabete mellito di tipo 2.
Una recente analisi sistematica della letteratura scientifica ha riscontrato un’associazione inversa tra il consumo giornaliero di prodotti caseari, specialmente quelli a basso contenuto in grassi, e la probabilità di incorrere nella patologia metabolica per eccellenza.
I meccanismi protettivi offerti dai derivati del latte restano tuttavia incompresi, ma sarebbero attribuibili agli elementi contenuti in elevate concentrazioni come il calcio e il magnesio.
Altri importanti componenti di questi prodotti, come il lattosio e le proteine del latte, sembrano esercitare un effetto benefico in quanto capaci di stimolare il senso di sazietà, contrastando così il rischio sovrappeso e obesità, principali fattori di rischio per l’insorgenza del disordine.
Autore: X Tong, J-Y Dong, Z-W Wu, W Li and L-Q Qin
Fonte: European Journal of Clinical Nutrition
Il consumo di latte e dei suoi derivati è largamente incentivato e costituisce parte di una dieta salutare.
Questi alimenti sarebbero inoltre preferibili ad altri maggiormente ricchi in carboidrati per la prevenzione dei più comuni disturbi metabolici legati all’alimentazione.
Studi epidemiologici hanno infatti rilevato che il consumo di prodotti caseari, latte crudo, yogurt e formaggi offre protezione contro lo sviluppo del diabete mellito di tipo 2.
Una recente analisi sistematica della letteratura scientifica ha riscontrato un’associazione inversa tra il consumo giornaliero di prodotti caseari, specialmente quelli a basso contenuto in grassi, e la probabilità di incorrere nella patologia metabolica per eccellenza.
I meccanismi protettivi offerti dai derivati del latte restano tuttavia incompresi, ma sarebbero attribuibili agli elementi contenuti in elevate concentrazioni come il calcio e il magnesio.
Altri importanti componenti di questi prodotti, come il lattosio e le proteine del latte, sembrano esercitare un effetto benefico in quanto capaci di stimolare il senso di sazietà, contrastando così il rischio sovrappeso e obesità, principali fattori di rischio per l’insorgenza del disordine.
Autore: X Tong, J-Y Dong, Z-W Wu, W Li and L-Q Qin
Fonte: European Journal of Clinical Nutrition
Le arterie e le ossa invecchiano assieme
L'invecchiamento femminile è caratterizzato da l'irrigidimento delle arterie e da una concomitante perdita di matrice ossea
L’irrigidimento delle arterie è uno dei primi sintomi dell’invecchiamento vascolare e costituisce un pericoloso fattore di rischio per l’insorgenza di patologie cardiovascolari.
Una sempre più forte evidenza clinica suggerisce inoltre che questo processo si accompagna ad un’altrettanto dannosa demineralizzazione ossea.
I cambiamenti strutturali delle pareti delle arterie legati all’invecchiamento determinano minore distensibilità e maggiore rigidità dei vasi. Questa condizione è responsabile dello sviluppo dell’ipertensione e può causare un lento declino delle funzioni cognitive.
L’invecchiamento è anche caratterizzato dalla riduzione della densità minerale ossea, un processo che avviene più rapidamente nelle donne a seguito della menopausa e che si traduce nella maggiore suscettibilità a fratture ossee.
I due processi condividono inoltre meccanismi e vie di segnalazione comuni.
Nel presente studio è stato analizzato il grado di associazione tra i due processi, la loro dipendenza dall’età e ne sono stati investigati i possibili meccanismi.
I dati, relativi a 321 uomini e 321 donne di età media 66 anni provenivano dal Baltimore Longitudinal study of Aging, lo studio americano di più lunga durata sull’invecchiamento umano, il cui inizio data al 1958.
I partecipanti sono stati sottoposti ad una misura della rigidità arteriosa mendiate il calcolo della velocità dell’onda di polso (PWV), mentre la stato osseo è stato investigato esaminando lo spessore dell’area dell’osso tibiale attraverso tomografia computerizzata.
Dall’analisi dei dati è emerso che l’età correlava significativamente con il valore di velocità dell’onda di polso, e quindi con una maggiore rigidità arteriosa, sia negli uomini che nelle donne.
Diversamente, l’età correlava con la condizione dell’osso solo nelle donne e non negli uomini.
I processi di calcificazione e demineralizzazione sono finemente regolati e alcuni meccanismi fisio-patologici comuni possono spiegarne l'associazione, come quelli che mediano la deposizione di calcio ed atri collegati dall’infiammazione che favoriscono il processo di osteogenesi in sede vascolare.
Studi sperimentali hanno inoltre dimostrato che, in particolari condizioni, le cellule del muscolo liscio residenti nelle pareti dei vasi e i precursori con potenziale differenziativo mesenchimale possono acquisire proprietà osteogeniche sotto l’influenza di specifiche proteine morfogenetiche.
Queste cellule, simili ad osteoblasti, possono depositare proteine della matrice ossea che in seguito mineralizzano causando l’irrigidimento dei vasi.
Nelle donne in post-menopausa osteoporotiche, il numero elevato di progenitori immaturi circolanti delle cellule ossee sembra avere un ruolo centrale nel processo di irrigidimento arterioso.
Lo studio ha evidenziato un sostanziale differenza tra i due sessi, suggerendo che i mediatori dell’associazione tra rigidità vascolare e demineralizzazione ossea siano probabilmente regolati differentemente sotto l’effetto degli ormoni sessuali, specialmente quelli che coinvolgono il metabolismo minerale.
Tuttavia, resta ancora sconosciuto il fatto se l’irrigidimento arterioso preceda o segua il processo di demineralizzazione ossea.
Autore: Francesco Giallauria, Shari M. Ling, Catherine Schreiber et al.
Fonte: American Journal of Hypertension
L’irrigidimento delle arterie è uno dei primi sintomi dell’invecchiamento vascolare e costituisce un pericoloso fattore di rischio per l’insorgenza di patologie cardiovascolari.
Una sempre più forte evidenza clinica suggerisce inoltre che questo processo si accompagna ad un’altrettanto dannosa demineralizzazione ossea.
I cambiamenti strutturali delle pareti delle arterie legati all’invecchiamento determinano minore distensibilità e maggiore rigidità dei vasi. Questa condizione è responsabile dello sviluppo dell’ipertensione e può causare un lento declino delle funzioni cognitive.
L’invecchiamento è anche caratterizzato dalla riduzione della densità minerale ossea, un processo che avviene più rapidamente nelle donne a seguito della menopausa e che si traduce nella maggiore suscettibilità a fratture ossee.
I due processi condividono inoltre meccanismi e vie di segnalazione comuni.
Nel presente studio è stato analizzato il grado di associazione tra i due processi, la loro dipendenza dall’età e ne sono stati investigati i possibili meccanismi.
I dati, relativi a 321 uomini e 321 donne di età media 66 anni provenivano dal Baltimore Longitudinal study of Aging, lo studio americano di più lunga durata sull’invecchiamento umano, il cui inizio data al 1958.
I partecipanti sono stati sottoposti ad una misura della rigidità arteriosa mendiate il calcolo della velocità dell’onda di polso (PWV), mentre la stato osseo è stato investigato esaminando lo spessore dell’area dell’osso tibiale attraverso tomografia computerizzata.
Dall’analisi dei dati è emerso che l’età correlava significativamente con il valore di velocità dell’onda di polso, e quindi con una maggiore rigidità arteriosa, sia negli uomini che nelle donne.
Diversamente, l’età correlava con la condizione dell’osso solo nelle donne e non negli uomini.
I processi di calcificazione e demineralizzazione sono finemente regolati e alcuni meccanismi fisio-patologici comuni possono spiegarne l'associazione, come quelli che mediano la deposizione di calcio ed atri collegati dall’infiammazione che favoriscono il processo di osteogenesi in sede vascolare.
Studi sperimentali hanno inoltre dimostrato che, in particolari condizioni, le cellule del muscolo liscio residenti nelle pareti dei vasi e i precursori con potenziale differenziativo mesenchimale possono acquisire proprietà osteogeniche sotto l’influenza di specifiche proteine morfogenetiche.
Queste cellule, simili ad osteoblasti, possono depositare proteine della matrice ossea che in seguito mineralizzano causando l’irrigidimento dei vasi.
Nelle donne in post-menopausa osteoporotiche, il numero elevato di progenitori immaturi circolanti delle cellule ossee sembra avere un ruolo centrale nel processo di irrigidimento arterioso.
Lo studio ha evidenziato un sostanziale differenza tra i due sessi, suggerendo che i mediatori dell’associazione tra rigidità vascolare e demineralizzazione ossea siano probabilmente regolati differentemente sotto l’effetto degli ormoni sessuali, specialmente quelli che coinvolgono il metabolismo minerale.
Tuttavia, resta ancora sconosciuto il fatto se l’irrigidimento arterioso preceda o segua il processo di demineralizzazione ossea.
Autore: Francesco Giallauria, Shari M. Ling, Catherine Schreiber et al.
Fonte: American Journal of Hypertension
Il potenziale saziante dei cibi
Per gli adulti, il potenziale saziante di un alimento è un importante determinante delle dimensioni del pasto che si preparano a consumare. E per i bambini?
L’appetibilità è considerata come un fattore determinante nell’apporto energetico dei bambini.
Secondo un gruppo di ricercatori inglesi, le aspettative di sazietà dei bambini, in assenza di precedenti esperienze, dipenderebbero da alcuni fattori fisici del cibo, come avviene per il volume percepito.
Questo è quanto si è evidenziato misurando le aspettative di sazietà di 70 bambini tra gli 11 e i 12 anni ai quali veniva proposto un pasto-test (pasta al sugo di pomodoro) ponendolo a confronto con 6 snack diversi, a loro già familiari.
Si è così evidenziato che le aspettative sulla sazietà, dei bambini testati, erano positivamente correlate alla familiarità che questi avevano per un determinato cibo, e questa associazione si è confermata anche rispetto al gradimento e al volume percepito.
Al momento della pianificazione di una terapia alimentare per bambini, tutti i fattori intervenenti, oltre alla palatabilità, devono essere attentamente considerati.
Fonte:
Children's familiarity with snack foods changes expectations about fullness.
Fonte: Am J Clin Nutr. 2011 Sep 14. [Epub ahead of print]
L’appetibilità è considerata come un fattore determinante nell’apporto energetico dei bambini.
Secondo un gruppo di ricercatori inglesi, le aspettative di sazietà dei bambini, in assenza di precedenti esperienze, dipenderebbero da alcuni fattori fisici del cibo, come avviene per il volume percepito.
Questo è quanto si è evidenziato misurando le aspettative di sazietà di 70 bambini tra gli 11 e i 12 anni ai quali veniva proposto un pasto-test (pasta al sugo di pomodoro) ponendolo a confronto con 6 snack diversi, a loro già familiari.
Si è così evidenziato che le aspettative sulla sazietà, dei bambini testati, erano positivamente correlate alla familiarità che questi avevano per un determinato cibo, e questa associazione si è confermata anche rispetto al gradimento e al volume percepito.
Al momento della pianificazione di una terapia alimentare per bambini, tutti i fattori intervenenti, oltre alla palatabilità, devono essere attentamente considerati.
Fonte:
Children's familiarity with snack foods changes expectations about fullness.
Fonte: Am J Clin Nutr. 2011 Sep 14. [Epub ahead of print]
Circonferenza del polso: nuovo marker della resistenza ad insulina e del rischio cardiovascolare.
La circonferenza del polso può essere facilmente misurabile e potrebbe rappresentare una nuovo predittore della resistenza ad insulina e del rischio cardiovascolare
La misura dell’osso del polso potrebbe rappresentare un nuovo modo per identificare i bambini e gli adolescenti sovrappeso a maggior rischio di sviluppo di patologie cardiovascolari.
Lo studio, pubblicato su Circulation ha fornito per la prima volta evidenza che la circonferenza del polso è fortemente correlata al grado di resistenza ad insulina.
Secondo la dott. Raffaella Buzzetti, autore principale dello studio e professore presso il Dipartimento di Scienze Cliniche dell’Università La Sapienza di Roma, se i risultati dello studio verranno confermati da ulteriori analisi, la misurazione della circonferenza del polso, grazie alla rapidità di esecuzione, potrà rappresentare un predittore clinico della resistenza ad insulina e del rischio cardiovascolare.
Numerosi studi hanno dimostrato i processi che conducono all'aterosclerosi, una condizione caratterizzata dal restringimento del lume delle arterie, iniziano già nell’infanzia.
La resistenza ad insulina, una condizione in cui l’organismo produce insulina ma non è in grado di utilizzarla efficacemente per consumare gli zuccheri presenti nel sangue, rappresenta un fattore di rischio metabolico per lo sviluppo dei patologie cardiovascolari in età adulta ed favorita dal sovrappeso durante l'adolescenza. Livelli elevati di insulina nel sangue aumentano il rischio di sviluppare la resistenza all’ormone e questa condizione rappresenta la base metabolica che predispone all'insorgenza di patologie cardiovascolari.
Nel presente studio, coinvolgente 477 bambini e adolescenti sovrappeso e obesi di età media 10 anni, i ricercatori hanno riscontrato che la circonferenza del polso spiegava il 12 e 17% di varianza totale della resistenza ad insulina. Tuttavia, secondo i ricercatori, la resistenza ad insulina sarebbe correlata alla dimensione della componente ossea del polso e a quella adiposa.
L’eccesso di grasso corporeo costituisce di per se un fattore di rischio per numerose patologie cardiache, tra cui appunto la resistenza ad insulina.
Tuttavia, la misurazione del grasso corporeo nei bambini è complicata per via dei continui cambiamenti dovuti alla rapida crescita durante la pubertà.
Nello studio i ricercatori hanno tentato di definire un nuovo metodo per identificare i giovani individui ad elevato rischio.
Tutti i partecipanti sono stati misurati manualmente per la circonferenza del polso e, solo 51 di essi, sono stati sottoposti ad una misurazione indolore dell’area della sezione ossea e adiposo del polso attraverso risonanza magnetica nucleare. In tutti i bambini è stata inoltre effettuata un misura dei livelli di insulina a digiuno e un calcolo della resistenza ad insulina – test HOMA.
L’analisi dell’intero gruppo di studio ha rivelato che la circonferenza del polso spiegava il 12% della resistenza ad insulina e dei livelli dell’ormone nel sangue. L’analisi di imaging ha invece indicato che la dimensione dell’osso del polso spiegava il 17% della varianza nella resistenza ad insulina.
I ricercatori hanno riscontrato che la correlazione tra l’area della sezione trasversale dell’osso del polso e i livelli di insulina ed il grado di resistenza ad insulina era più forte rispetto a quella tra questi ultimi e il valore di indice di massa corporea (BMI).
Il BMI è un valore numerico di peso e altezza utilizzato nella pratica clinica come stima del sovrappeso e del grado di obesità.
Evidenza sperimentale sempre più forte suggerisce che i livelli elevati di insulina determinano una maggiore massa ossea. L’insulina, infatti, sembra agire da fattore di crescita del tessuto osseo, come dimostrato dalla funzione dell’insulin-like growth factor-1, un ormone con struttura altamente simile all’insulina e coinvolto nella regolazione della produzione di cellule ossee.
Oggigiorno, una delle maggiori priorità della pratica clinica è proprio l’identificazione di giovani individui a rischio di resistenza a insulina e quindi potenzialmente esposti all’insorgenza di patologie cariovascolari. La circonferenza del polso potrebbe dunque rappresentare un nuovo marker clinico di un elevato metabolismo osseo in presenza di abbondanti livelli di insulina.
Autore: Marco Capizzi, Gaetano Leto, Antonio Petrone, Simona Zampetti, Raffaele Edo Papa, Marcello Osimani, Marialuisa Spoletini, Andrea Lenzi, John Osborn, Marco Mastantuono, Andrea Vania, Raffaella Buzzetti
Fonte: Circulation. 2011;123:1757-1762 doi: 10.1161/CIRCULATIONAHA.110.012898
La misura dell’osso del polso potrebbe rappresentare un nuovo modo per identificare i bambini e gli adolescenti sovrappeso a maggior rischio di sviluppo di patologie cardiovascolari.
Lo studio, pubblicato su Circulation ha fornito per la prima volta evidenza che la circonferenza del polso è fortemente correlata al grado di resistenza ad insulina.
Secondo la dott. Raffaella Buzzetti, autore principale dello studio e professore presso il Dipartimento di Scienze Cliniche dell’Università La Sapienza di Roma, se i risultati dello studio verranno confermati da ulteriori analisi, la misurazione della circonferenza del polso, grazie alla rapidità di esecuzione, potrà rappresentare un predittore clinico della resistenza ad insulina e del rischio cardiovascolare.
Numerosi studi hanno dimostrato i processi che conducono all'aterosclerosi, una condizione caratterizzata dal restringimento del lume delle arterie, iniziano già nell’infanzia.
La resistenza ad insulina, una condizione in cui l’organismo produce insulina ma non è in grado di utilizzarla efficacemente per consumare gli zuccheri presenti nel sangue, rappresenta un fattore di rischio metabolico per lo sviluppo dei patologie cardiovascolari in età adulta ed favorita dal sovrappeso durante l'adolescenza. Livelli elevati di insulina nel sangue aumentano il rischio di sviluppare la resistenza all’ormone e questa condizione rappresenta la base metabolica che predispone all'insorgenza di patologie cardiovascolari.
Nel presente studio, coinvolgente 477 bambini e adolescenti sovrappeso e obesi di età media 10 anni, i ricercatori hanno riscontrato che la circonferenza del polso spiegava il 12 e 17% di varianza totale della resistenza ad insulina. Tuttavia, secondo i ricercatori, la resistenza ad insulina sarebbe correlata alla dimensione della componente ossea del polso e a quella adiposa.
L’eccesso di grasso corporeo costituisce di per se un fattore di rischio per numerose patologie cardiache, tra cui appunto la resistenza ad insulina.
Tuttavia, la misurazione del grasso corporeo nei bambini è complicata per via dei continui cambiamenti dovuti alla rapida crescita durante la pubertà.
Nello studio i ricercatori hanno tentato di definire un nuovo metodo per identificare i giovani individui ad elevato rischio.
Tutti i partecipanti sono stati misurati manualmente per la circonferenza del polso e, solo 51 di essi, sono stati sottoposti ad una misurazione indolore dell’area della sezione ossea e adiposo del polso attraverso risonanza magnetica nucleare. In tutti i bambini è stata inoltre effettuata un misura dei livelli di insulina a digiuno e un calcolo della resistenza ad insulina – test HOMA.
L’analisi dell’intero gruppo di studio ha rivelato che la circonferenza del polso spiegava il 12% della resistenza ad insulina e dei livelli dell’ormone nel sangue. L’analisi di imaging ha invece indicato che la dimensione dell’osso del polso spiegava il 17% della varianza nella resistenza ad insulina.
I ricercatori hanno riscontrato che la correlazione tra l’area della sezione trasversale dell’osso del polso e i livelli di insulina ed il grado di resistenza ad insulina era più forte rispetto a quella tra questi ultimi e il valore di indice di massa corporea (BMI).
Il BMI è un valore numerico di peso e altezza utilizzato nella pratica clinica come stima del sovrappeso e del grado di obesità.
Evidenza sperimentale sempre più forte suggerisce che i livelli elevati di insulina determinano una maggiore massa ossea. L’insulina, infatti, sembra agire da fattore di crescita del tessuto osseo, come dimostrato dalla funzione dell’insulin-like growth factor-1, un ormone con struttura altamente simile all’insulina e coinvolto nella regolazione della produzione di cellule ossee.
Oggigiorno, una delle maggiori priorità della pratica clinica è proprio l’identificazione di giovani individui a rischio di resistenza a insulina e quindi potenzialmente esposti all’insorgenza di patologie cariovascolari. La circonferenza del polso potrebbe dunque rappresentare un nuovo marker clinico di un elevato metabolismo osseo in presenza di abbondanti livelli di insulina.
Autore: Marco Capizzi, Gaetano Leto, Antonio Petrone, Simona Zampetti, Raffaele Edo Papa, Marcello Osimani, Marialuisa Spoletini, Andrea Lenzi, John Osborn, Marco Mastantuono, Andrea Vania, Raffaella Buzzetti
Fonte: Circulation. 2011;123:1757-1762 doi: 10.1161/CIRCULATIONAHA.110.012898
Iperandrogenismo e composizione corporea
La misura della FABP4 plasmatica (Fatty acid-binding protein-4) può essere utile nella diagnosi e nella terapia dell’iperandrogenismo femminile
Un gruppo di ricercatori spagnoli ha studiato 97 ragazze non obese con sindrome ovarica policistica: di 39 donne, che avevano una storia di basso peso alla nascita e di pubarca precoce, 26 hanno assunto metformina, 13 non hanno ricevuto alcun farmaco; mentre le rimanenti 58 donne hanno avuto un trattamento con flutamide-metformina a basse dosi e un contraccettivo per os.
L’obiettivo dello studio era il monitoraggio dei seguenti parametri: l’accrescimento, la composizione corporea, i livelli degli androgeni, la glicemia, l’insulinemia, l’omeostasi del rapporto tra insulinemia e glicemia, l’insulino-resistenza, i profili lipidici e i livelli plasmatici della FABP4. Al tempo 0 il livello plasmatico della FABP4 era associato alle misure antropometriche e alla massa grassa . Dopo 2 anni, l’analisi ha dimostrato che il livello della FABP4 subiva variazioni in base ai trattamenti ricevuti, strettamente correlati ai cambiamenti della composizione corporea, a quelli dell’insulino-resistenza e degli altri parametri metabolici. I livelli di FABP4 aumentavano di meno nelle donne con pubarca precoce che sono state trattate; mentre per le donne con ovaio policistico, i livelli basali di FABP4 erano inversamente associati con le variazioni della pressione sistolica, con l’indice HOMA e la massa grassa. Infine, il BMI appariva come marker predittivo indipendente delle variazioni di FBP4. Il lavoro pone l’attenzione sul trattamento farmacologico ma lascia aperta la discussione sul ruolo della dieta nella normalizzazione dei parametri.
Fatty acid-binding protein-4 plasma levels are associated to metabolic abnormalities and response to therapy in girls and young women with androgen excess.
Fonte: Gynecol Endocrinol. 2011 May 24. [Epub ahead of print]
Un gruppo di ricercatori spagnoli ha studiato 97 ragazze non obese con sindrome ovarica policistica: di 39 donne, che avevano una storia di basso peso alla nascita e di pubarca precoce, 26 hanno assunto metformina, 13 non hanno ricevuto alcun farmaco; mentre le rimanenti 58 donne hanno avuto un trattamento con flutamide-metformina a basse dosi e un contraccettivo per os.
L’obiettivo dello studio era il monitoraggio dei seguenti parametri: l’accrescimento, la composizione corporea, i livelli degli androgeni, la glicemia, l’insulinemia, l’omeostasi del rapporto tra insulinemia e glicemia, l’insulino-resistenza, i profili lipidici e i livelli plasmatici della FABP4. Al tempo 0 il livello plasmatico della FABP4 era associato alle misure antropometriche e alla massa grassa . Dopo 2 anni, l’analisi ha dimostrato che il livello della FABP4 subiva variazioni in base ai trattamenti ricevuti, strettamente correlati ai cambiamenti della composizione corporea, a quelli dell’insulino-resistenza e degli altri parametri metabolici. I livelli di FABP4 aumentavano di meno nelle donne con pubarca precoce che sono state trattate; mentre per le donne con ovaio policistico, i livelli basali di FABP4 erano inversamente associati con le variazioni della pressione sistolica, con l’indice HOMA e la massa grassa. Infine, il BMI appariva come marker predittivo indipendente delle variazioni di FBP4. Il lavoro pone l’attenzione sul trattamento farmacologico ma lascia aperta la discussione sul ruolo della dieta nella normalizzazione dei parametri.
Fatty acid-binding protein-4 plasma levels are associated to metabolic abnormalities and response to therapy in girls and young women with androgen excess.
Fonte: Gynecol Endocrinol. 2011 May 24. [Epub ahead of print]
ZAG plasmatica e stato nutrizionale
La glicoproteina ZAG (Zinc-alfa2-glycoprotein - ZAG) secreta dal tessuto adiposo bianco (white adipose tissue- WAT) è stata associata a un' attivazione dei processi catabolici.
La glicoproteina ZAG (Zinc-alfa2-glycoprotein - ZAG) secreta dal tessuto adiposo bianco (white adipose tissue- WAT) è stata associata a un' attivazione dei processi catabolici.
I livelli plasmatici di ZAG sono stati misurati in 10 soggetti sani e in 34 pazienti con una recente diagnosi di cancro gastroenterico.
La potenziale influenza della dieta sulla secrezione della ZAG è stata testata anche sul plasma di 10 donne obese che ricevevano una dieta fortemente ipocalorica.
Al confronto dei dati ottenuti si è visto che solo la ZAG secreta dal WAT (misurata in vitro), al contrario dei livelli plasmatici della ZAG in vivo, era correlata positivamente con uno stato nutrizionale cachettico, ma non con la massa grassa dei pazienti portatori di cancro.
Nei soggetti obesi sottoposti a dieta fortemente ipocalorica, la secrezione della ZAG da parte del WAT era significativamente aumentata, mentre i livelli plasmatici rimanevano inalterati.
Gli autori concludono affermando che sebbene la ZAG sia secreta dal tessuto adiposo, il contributo di questo tessuto sui livelli della stessa misurabili in circolo è irrilevante.
E’ possibile, dunque, che la secrezione locale della ZAG da tessuto adiposo, sia attivata primariamente dallo stato catabolico generale.
Fonte:
Adipose zinc-α2-glycoprotein is a catabolic marker in cancer and noncancerous states.
Fonte: J Intern Med. 2011 Aug 24 [Epub ahead of print]
La glicoproteina ZAG (Zinc-alfa2-glycoprotein - ZAG) secreta dal tessuto adiposo bianco (white adipose tissue- WAT) è stata associata a un' attivazione dei processi catabolici.
I livelli plasmatici di ZAG sono stati misurati in 10 soggetti sani e in 34 pazienti con una recente diagnosi di cancro gastroenterico.
La potenziale influenza della dieta sulla secrezione della ZAG è stata testata anche sul plasma di 10 donne obese che ricevevano una dieta fortemente ipocalorica.
Al confronto dei dati ottenuti si è visto che solo la ZAG secreta dal WAT (misurata in vitro), al contrario dei livelli plasmatici della ZAG in vivo, era correlata positivamente con uno stato nutrizionale cachettico, ma non con la massa grassa dei pazienti portatori di cancro.
Nei soggetti obesi sottoposti a dieta fortemente ipocalorica, la secrezione della ZAG da parte del WAT era significativamente aumentata, mentre i livelli plasmatici rimanevano inalterati.
Gli autori concludono affermando che sebbene la ZAG sia secreta dal tessuto adiposo, il contributo di questo tessuto sui livelli della stessa misurabili in circolo è irrilevante.
E’ possibile, dunque, che la secrezione locale della ZAG da tessuto adiposo, sia attivata primariamente dallo stato catabolico generale.
Fonte:
Adipose zinc-α2-glycoprotein is a catabolic marker in cancer and noncancerous states.
Fonte: J Intern Med. 2011 Aug 24 [Epub ahead of print]
Fibre alimentari per la prevenzione del tumore mammario
Il consumo di fibre alimentari sembra offrire protezione per il rischio del tumore al seno
Ancora pochi, ma decisamente significativi dati epidemiologici suggeriscono un effetto protettivo offerto dalle fibre vegetali introdotte con la dieta nella prevenzione del tumore al seno.
Questo sarebbe specialmente vero per le forme del tumore dipendenti dagli ormoni sessuali circolanti progesterone ed estrogeni.
Precedenti analisi retrospettive hanno identificato una correlazione tra il consumo di questi alimenti ed il rischio della neoplasia.
Uno studio cinese ha valutato l’associazione tra il consumo dietario totale di fibre e specifici tipi di fibre e il rischio di sviluppo della malattia.
Oltre 400 pazienti affette da tumore al seno primario sono state arruolate in uno studio caso-controllo ed intervistate per valutare il loro consumo abituale di fibre vegetali.
Dall’analisi è emersa una significativa associazione inversa tra il contenuto totale in fibre nella dieta e il rischio del tumore mammario.
Fibre di soia, e derivanti da frutta e verdura sembrano offrire il maggior livello di protezione mentre decisamente inferiore è risultato invece l’associazione con il consumo di cereali.
L’effetto protettivo è risultato variare anche in base al sottotipo di tumore, sia estrogeno che progesterone dipendente.
Le fibre vegetali sembrano prevenire il rischio della neoplasia mediante l’inibizione del riassorbimento renale degli estrogeni e l’inibizione stessa della loro sintesi determinando così la riduzione dei livelli circolanti degli ormoni e la proliferazione patologica del tessuto mammario.
Inoltre, questi alimenti sembrano influenzare alcune vie di segnalazione che coinvolgono fattori di crescita simili all’insulina i quali sono notoriamente associati al rischio del tumore e la loro produzione dipende largamente dal tipo di dieta.
Autore: European Journal of Clinical Nutrition Fonte: C-X Zhang, S C Ho1, S-Z Cheng, Y-M Chen, J-H Fu and F-Y Lin
Ancora pochi, ma decisamente significativi dati epidemiologici suggeriscono un effetto protettivo offerto dalle fibre vegetali introdotte con la dieta nella prevenzione del tumore al seno.
Questo sarebbe specialmente vero per le forme del tumore dipendenti dagli ormoni sessuali circolanti progesterone ed estrogeni.
Precedenti analisi retrospettive hanno identificato una correlazione tra il consumo di questi alimenti ed il rischio della neoplasia.
Uno studio cinese ha valutato l’associazione tra il consumo dietario totale di fibre e specifici tipi di fibre e il rischio di sviluppo della malattia.
Oltre 400 pazienti affette da tumore al seno primario sono state arruolate in uno studio caso-controllo ed intervistate per valutare il loro consumo abituale di fibre vegetali.
Dall’analisi è emersa una significativa associazione inversa tra il contenuto totale in fibre nella dieta e il rischio del tumore mammario.
Fibre di soia, e derivanti da frutta e verdura sembrano offrire il maggior livello di protezione mentre decisamente inferiore è risultato invece l’associazione con il consumo di cereali.
L’effetto protettivo è risultato variare anche in base al sottotipo di tumore, sia estrogeno che progesterone dipendente.
Le fibre vegetali sembrano prevenire il rischio della neoplasia mediante l’inibizione del riassorbimento renale degli estrogeni e l’inibizione stessa della loro sintesi determinando così la riduzione dei livelli circolanti degli ormoni e la proliferazione patologica del tessuto mammario.
Inoltre, questi alimenti sembrano influenzare alcune vie di segnalazione che coinvolgono fattori di crescita simili all’insulina i quali sono notoriamente associati al rischio del tumore e la loro produzione dipende largamente dal tipo di dieta.
Autore: European Journal of Clinical Nutrition Fonte: C-X Zhang, S C Ho1, S-Z Cheng, Y-M Chen, J-H Fu and F-Y Lin
Purè di verdure per i bambini
Come fare per aumentare il consumo di verdura dei bambini e ridurre la densità energetica della dieta? Ecco una proposta degli americani.
In uno studio incrociato su 40 bambini dai 3 ai 5 anni si proponevano pasti completi e snacks 1 giorno la settimana per 3 settimane consecutive.
Gli antipasti prima della colazione, del pranzo, della cena e nello spuntino della sera prevedevano la riduzione della densità energetica quotidiana della dieta (ED), introducendo un purè a base di verdure.
Il confronto avveniva tra chi consumava il pasto standard (100% di ED) e chi assumeva un pasto all’85% di ED (contenuto di vegetali triplicato), o un pasto al 75% di ED (contenuto di vegetali quadruplicato).
I bambini, inoltre, potevano mangiare la purea di verdure liberamente e nella quantità desiderata.
Risultati: rispetto a coloro che mangiavano il pasto standard, il contenuto di vegetali aumentava spontaneamente del 50% (52 g) in chi consumava la porzione 85% ED e del 73% (73g) in chi consumava la porzione 75% ED.
L’antipasto a base di verdure non riduceva il consumo dei restanti vegetali usualmente presenti nel piatto.
L’assunzione calorica di un pasto 75% di ED comportava la riduzione di 142 kcal (-12%) rispetto allo standard.
Al termine dell’osservazione si è così evidenziato che la strategia dell’antipasto a base di verdure era molto efficace, sia nell’aumentare il consumo quotidiano di ortaggi e verdure, sia nel ridurre la densità energetica dei pasti consumati.
Dunque, prima di intervenire con le modifiche correttive, sarebbe opportuno conoscere attentamente la densità energetica dei pasti e il contenuto medio di vegetali, mediante l’indagine food intake : a quanto pare le verdure sono ben accette e non sono un problema per i bambini!
Fonte:
Hiding vegetables to reduce energy density: an effective strategy to increase children's vegetable intake and reduce energy intake.
Fonte: Am J Clin Nutr. 2011 Jul 20. [Epub ahead of print]
In uno studio incrociato su 40 bambini dai 3 ai 5 anni si proponevano pasti completi e snacks 1 giorno la settimana per 3 settimane consecutive.
Gli antipasti prima della colazione, del pranzo, della cena e nello spuntino della sera prevedevano la riduzione della densità energetica quotidiana della dieta (ED), introducendo un purè a base di verdure.
Il confronto avveniva tra chi consumava il pasto standard (100% di ED) e chi assumeva un pasto all’85% di ED (contenuto di vegetali triplicato), o un pasto al 75% di ED (contenuto di vegetali quadruplicato).
I bambini, inoltre, potevano mangiare la purea di verdure liberamente e nella quantità desiderata.
Risultati: rispetto a coloro che mangiavano il pasto standard, il contenuto di vegetali aumentava spontaneamente del 50% (52 g) in chi consumava la porzione 85% ED e del 73% (73g) in chi consumava la porzione 75% ED.
L’antipasto a base di verdure non riduceva il consumo dei restanti vegetali usualmente presenti nel piatto.
L’assunzione calorica di un pasto 75% di ED comportava la riduzione di 142 kcal (-12%) rispetto allo standard.
Al termine dell’osservazione si è così evidenziato che la strategia dell’antipasto a base di verdure era molto efficace, sia nell’aumentare il consumo quotidiano di ortaggi e verdure, sia nel ridurre la densità energetica dei pasti consumati.
Dunque, prima di intervenire con le modifiche correttive, sarebbe opportuno conoscere attentamente la densità energetica dei pasti e il contenuto medio di vegetali, mediante l’indagine food intake : a quanto pare le verdure sono ben accette e non sono un problema per i bambini!
Fonte:
Hiding vegetables to reduce energy density: an effective strategy to increase children's vegetable intake and reduce energy intake.
Fonte: Am J Clin Nutr. 2011 Jul 20. [Epub ahead of print]
Lo stato dello zinco
Lo zinco (Zn) è un nutriente essenziale, ma le misure disponibili sullo stato corporeo dello zinco possono dare valori elusivi.
I nutrienti di tipo 1, per esempio il ferro, lo iodio la vitamina A, i folati e il rame, sono necessari per attività e funzioni metaboliche specifiche.
I nutrienti come lo zinco (es. proteine e magnesio), sono invece necessari per il metabolismo in generale e perciò sono chiamati “nutrienti di tipo 2”.
Quando lo zinco introdotto con la dieta è insufficiente interviene immediatamente una riduzione delle perdite dello zinco endogeno.
Se il bilancio non è ripristinato, intervengono altri aggiustamenti metabolici per mobilizzare lo zinco corporeo da piccoli pool endogeni di riserva.
Inoltre, la concentrazione dello zinco plasmatico subisce un decremento notevole in alcune condizioni: infezioni, traumi, stress, uso di steroidi, e subito dopo un pasto.
Questo si deve a una ridistribuzione dello zinco negli altri tessuti.
Proprio tale redistribuzione sembra confondere l’interpretazione delle misure dello zinco plasmatico, specie quando i valori sono bassi e in caso di scarsa nutrizione.
Sono quindi necessari metodi di misura dello zinco nel plasma più sensibili, specifici ed efficaci, proprio per individuare il flusso del minerale proveniente dai vari pool corporei.
E’ probabile che il biomarcatore più efficace in proposito sia una metallotioneina.
Di tutto questo si discute in una recente revisione che rimarca anche l’importanza delle indagini di laboratorio per la determinazione dello stato nutrizionale .
Fonte:
Zinc: an essential but elusive nutrient.
Fonte: Am J Clin Nutr. 2011 Aug;94(2):679S-84S. Epub 2011 Jun 29.
I nutrienti di tipo 1, per esempio il ferro, lo iodio la vitamina A, i folati e il rame, sono necessari per attività e funzioni metaboliche specifiche.
I nutrienti come lo zinco (es. proteine e magnesio), sono invece necessari per il metabolismo in generale e perciò sono chiamati “nutrienti di tipo 2”.
Quando lo zinco introdotto con la dieta è insufficiente interviene immediatamente una riduzione delle perdite dello zinco endogeno.
Se il bilancio non è ripristinato, intervengono altri aggiustamenti metabolici per mobilizzare lo zinco corporeo da piccoli pool endogeni di riserva.
Inoltre, la concentrazione dello zinco plasmatico subisce un decremento notevole in alcune condizioni: infezioni, traumi, stress, uso di steroidi, e subito dopo un pasto.
Questo si deve a una ridistribuzione dello zinco negli altri tessuti.
Proprio tale redistribuzione sembra confondere l’interpretazione delle misure dello zinco plasmatico, specie quando i valori sono bassi e in caso di scarsa nutrizione.
Sono quindi necessari metodi di misura dello zinco nel plasma più sensibili, specifici ed efficaci, proprio per individuare il flusso del minerale proveniente dai vari pool corporei.
E’ probabile che il biomarcatore più efficace in proposito sia una metallotioneina.
Di tutto questo si discute in una recente revisione che rimarca anche l’importanza delle indagini di laboratorio per la determinazione dello stato nutrizionale .
Fonte:
Zinc: an essential but elusive nutrient.
Fonte: Am J Clin Nutr. 2011 Aug;94(2):679S-84S. Epub 2011 Jun 29.
Sale da tavola e rischio cardiovascolare, un dibattito aperto
Ancora una volta, l’invito a moderare il consumo dietario di sale è stato messo in discussione
Un recente studio ha gettato nuovi dubbi sui benefici legati alla riduzione del consumo di sale da tavola, animando calorosamente un dibattito già da tempo aperto fra istituzioni sanitarie, gruppi di ricerca, ma anche aziende del settore alimentare, spesso accusate di pilotare gli studi al fine di correggere a proprio favore le linee guida nutrizionali.
Secondo la provocatoria conclusione degli autori, la riduzione del consumo di sodio non offrirebbe sufficiente protezione contro gli eventi cardiaci e la mortalità per patologie cardiovascolari.
La revisione sistematica dei dati provenienti da 7 studi clinici e relativi a più di 6.500 partecipanti ha infatti dimostrato solo un modesto beneficio sia per i soggetti normotesi che per quelli ipertesi.
Per quanto venisse riscontrato un sensibile abbassamento della pressione sanguigna a seguito della riduzione del consumo di sale, questo miglioramento non veniva mantenuto nel lungo termine.
Inoltre, la riduzione media della non superava 1 mm Hg, non abbastanza dunque per prevenire gli eventi cardiaci e le fatalità.
Per ottenere benefici clinici apprezzabili, hanno precisato gli autori, la riduzione della pressione dovrebbe essere di almeno 2 mm o 3 mm Hg.
Addirittura, da uno degli studi considerati è emerso che un minore apporto di sodio correlava con un maggior rischio di mortalità negli individui affetti da insufficienza cardiaca.
Ancora una volta, l’invito a moderare il consumo dietario di sale da tavola è stato messo in discussione.
Tuttavia, lo studio, pubblicato sull’American Journal of Hypertension, non ha certo un peso sufficiente per potere per scardinare un dogma centrale della prevenzione delle patologie cardiovascolari.
Lo studio, infatti, presentava limitazioni metodologiche non indifferenti.
Il consumo di elevate quantità di sale è un riconosciuto fattore di rischio per lo sviluppo di ipertensione e di altre complicazioni che possono condurre ad eventi cardiaci.
Con la presente pubblicazione è in parte riemerso il falso mito che la riduzione del consumo di sale da tavola costituisca un rischio per la salute, capace di oscurare gli indiscussi benefici clinici legati alla moderazione del sale dietario.
Violenti accuse sull’inconsistenza dei risultati si sono levate da diversi fronti accademici e, in particolare, è sorto un appello da parte delle principali istituzioni che si occupano di patologie cardiovascolari tra cui la American Heart Association, le quali hanno avvertito che i dati dello studio devono essere interpretati cautamente senza trarre alcun tipo di conclusione su cui basare le raccomandazioni alimentari.
La pubblicazione ha però evidenziato l’esistenza di una categoria di pazienti maggiormente sensibili alle variazioni del consumo di sale da tavola e può essere vista come spunto per ravvivare il confronto scientifico sulla relazione tra consumo di sodio alimentare e mortalità per cause cardiovascolari, con maggiore attenzione rivolta al design degli studi.
Autore: Rod S. Taylor, Kate E. Ashton, Tiffany Moxham, Lee Hooper and Shah Ebrahim Fonte: American Journal of Hypertension
Un recente studio ha gettato nuovi dubbi sui benefici legati alla riduzione del consumo di sale da tavola, animando calorosamente un dibattito già da tempo aperto fra istituzioni sanitarie, gruppi di ricerca, ma anche aziende del settore alimentare, spesso accusate di pilotare gli studi al fine di correggere a proprio favore le linee guida nutrizionali.
Secondo la provocatoria conclusione degli autori, la riduzione del consumo di sodio non offrirebbe sufficiente protezione contro gli eventi cardiaci e la mortalità per patologie cardiovascolari.
La revisione sistematica dei dati provenienti da 7 studi clinici e relativi a più di 6.500 partecipanti ha infatti dimostrato solo un modesto beneficio sia per i soggetti normotesi che per quelli ipertesi.
Per quanto venisse riscontrato un sensibile abbassamento della pressione sanguigna a seguito della riduzione del consumo di sale, questo miglioramento non veniva mantenuto nel lungo termine.
Inoltre, la riduzione media della non superava 1 mm Hg, non abbastanza dunque per prevenire gli eventi cardiaci e le fatalità.
Per ottenere benefici clinici apprezzabili, hanno precisato gli autori, la riduzione della pressione dovrebbe essere di almeno 2 mm o 3 mm Hg.
Addirittura, da uno degli studi considerati è emerso che un minore apporto di sodio correlava con un maggior rischio di mortalità negli individui affetti da insufficienza cardiaca.
Ancora una volta, l’invito a moderare il consumo dietario di sale da tavola è stato messo in discussione.
Tuttavia, lo studio, pubblicato sull’American Journal of Hypertension, non ha certo un peso sufficiente per potere per scardinare un dogma centrale della prevenzione delle patologie cardiovascolari.
Lo studio, infatti, presentava limitazioni metodologiche non indifferenti.
Il consumo di elevate quantità di sale è un riconosciuto fattore di rischio per lo sviluppo di ipertensione e di altre complicazioni che possono condurre ad eventi cardiaci.
Con la presente pubblicazione è in parte riemerso il falso mito che la riduzione del consumo di sale da tavola costituisca un rischio per la salute, capace di oscurare gli indiscussi benefici clinici legati alla moderazione del sale dietario.
Violenti accuse sull’inconsistenza dei risultati si sono levate da diversi fronti accademici e, in particolare, è sorto un appello da parte delle principali istituzioni che si occupano di patologie cardiovascolari tra cui la American Heart Association, le quali hanno avvertito che i dati dello studio devono essere interpretati cautamente senza trarre alcun tipo di conclusione su cui basare le raccomandazioni alimentari.
La pubblicazione ha però evidenziato l’esistenza di una categoria di pazienti maggiormente sensibili alle variazioni del consumo di sale da tavola e può essere vista come spunto per ravvivare il confronto scientifico sulla relazione tra consumo di sodio alimentare e mortalità per cause cardiovascolari, con maggiore attenzione rivolta al design degli studi.
Autore: Rod S. Taylor, Kate E. Ashton, Tiffany Moxham, Lee Hooper and Shah Ebrahim Fonte: American Journal of Hypertension
Anoressia : si ricomincia con lo yogurt
Uno yogurt al giorno migliorerebbe le funzioni immunitarie nelle persone defedate.
Alcuni ricercatori americani hanno inserito lo yogurt, o un bicchiere di latte parzialmente scremato, nel programma di refeeding di 30 adolescenti con anoressia e nella dieta abituale di 33 adolescenti sani, posti a confronto. Il follow-up durava 10 settimane consecutive.
Al termine dell’osservazione i ragazzi anoressici riportavano, rispetto ai sani, un netto miglioramento delle funzioni immunitarie rilevabile dal riassetto dei linfociti (incremento del rapporto CD4+/ CD8+).
Inoltre, in entrambi i gruppi si evidenziava un incremento dei livelli plasmatici dell’interferon-gamma (IFN-gamma).
Queste evidenze depongono per un miglioramento complessivo dell’immunocompetenza, soprattutto nei soggetti anoressici che notoriamente hanno uno stato immunitario compromesso, strettamente correlato al decadimento dello stato nutrizionale .
Fonte:
Yogurt may boost immune function in at-risk populations
Fonte: nutraingredients.com
Alcuni ricercatori americani hanno inserito lo yogurt, o un bicchiere di latte parzialmente scremato, nel programma di refeeding di 30 adolescenti con anoressia e nella dieta abituale di 33 adolescenti sani, posti a confronto. Il follow-up durava 10 settimane consecutive.
Al termine dell’osservazione i ragazzi anoressici riportavano, rispetto ai sani, un netto miglioramento delle funzioni immunitarie rilevabile dal riassetto dei linfociti (incremento del rapporto CD4+/ CD8+).
Inoltre, in entrambi i gruppi si evidenziava un incremento dei livelli plasmatici dell’interferon-gamma (IFN-gamma).
Queste evidenze depongono per un miglioramento complessivo dell’immunocompetenza, soprattutto nei soggetti anoressici che notoriamente hanno uno stato immunitario compromesso, strettamente correlato al decadimento dello stato nutrizionale .
Fonte:
Yogurt may boost immune function in at-risk populations
Fonte: nutraingredients.com
Noci e nocciole per i diabetici
Consumando circa 60 grammi al giorno di frutta secca in sostituzione dei carboidrati si possono tenere sotto controllo la glicemia e il quadro lipidico.
Alla conclusione sono arrivati alcuni ricercatori dell’Università di Toronto (Canada) che hanno studiato 117 pazienti diabetici di tipo 2, suddividendoli in 3 gruppi.
Oltre alla dieta abituale il primo gruppo riceveva un piccolo pasto supplementare a base di muffin (dolcetti tipici americani), il secondo riceveva una miscela di noci, nocciole, mandorle, pistacchi, arachidi, anacardi, noccioline americane, e il terzo gruppo, un misto di muffin e nocciole.
Il follow-up durava 3 settimane.
Al termine dell’osservazione si è dimostrato che, i livelli plasmatici di HbA1C del gruppo che riceveva la sola miscela di frutta secca, erano significativamente diminuiti e lo stesso valeva per il colesterolo LDL.
Gli autori suggeriscono, dunque, il consumo di noci e nocciole quotidianamente, come supplementi benefici nelle diete dei diabetici tipo 2 .
Fonte:
Nuts may help prevent diabetes, suggests study
Fonte: nutraingredients.com
Alla conclusione sono arrivati alcuni ricercatori dell’Università di Toronto (Canada) che hanno studiato 117 pazienti diabetici di tipo 2, suddividendoli in 3 gruppi.
Oltre alla dieta abituale il primo gruppo riceveva un piccolo pasto supplementare a base di muffin (dolcetti tipici americani), il secondo riceveva una miscela di noci, nocciole, mandorle, pistacchi, arachidi, anacardi, noccioline americane, e il terzo gruppo, un misto di muffin e nocciole.
Il follow-up durava 3 settimane.
Al termine dell’osservazione si è dimostrato che, i livelli plasmatici di HbA1C del gruppo che riceveva la sola miscela di frutta secca, erano significativamente diminuiti e lo stesso valeva per il colesterolo LDL.
Gli autori suggeriscono, dunque, il consumo di noci e nocciole quotidianamente, come supplementi benefici nelle diete dei diabetici tipo 2 .
Fonte:
Nuts may help prevent diabetes, suggests study
Fonte: nutraingredients.com
Più sazietà con la cicoria
L’oligofruttosio, estratto dalle radici di cicoria, sarebbe in grado di indurre il senso di sazietà riducendo la densità energetica della dieta.
L’oligofruttosio, estratto dalle radici di cicoria, sarebbe in grado di indurre il senso di sazietà riducendo la densità energetica della dieta.
È il risultato di uno studio condotto su 10 volontari sani, che per 13 giorni ricevevano un supplemento di oligofruttosio (5-8 grammi), o una pari quantità di placebo.
L’oligofruttosio, com’è noto, non è scisso dal processo enzimatico digestivo e pertanto svolge gli stessi effetti della fibra dietetica.
L’estratto di radice di cicoria, inoltre, è anche la fonte principale d’inulina, una fibra a sua volta presente in molti alimenti dietetici, come sostituto di zuccheri e grassi. Al momento dell’arruolamento e dopo 13 giorni a tutti i partecipanti veniva misurata la densità energetica della dieta (food intake).
I soggetti che assumevano il supplemento nella quantità più elevata mostravano una riduzione dell’intake energetico quotidiano del 10% rispetto a chi assumeva il placebo.
Inoltre, mostravano valori superiori negli ormoni della sazietà, quali il PYY e il GLP-1.
Sebbene non sia stato possibile dimostrare una riduzione del peso corporeo, data la breve durata dell’esperimento, gli autori ritengono che nel lungo termine la supplementazione di oligofruttosio avrebbe potuto favorire la perdita di peso.
Fonte:
Chicory root fibre could trigger weight loss, finds new research
Fonte: nutraingredients.com
L’oligofruttosio, estratto dalle radici di cicoria, sarebbe in grado di indurre il senso di sazietà riducendo la densità energetica della dieta.
È il risultato di uno studio condotto su 10 volontari sani, che per 13 giorni ricevevano un supplemento di oligofruttosio (5-8 grammi), o una pari quantità di placebo.
L’oligofruttosio, com’è noto, non è scisso dal processo enzimatico digestivo e pertanto svolge gli stessi effetti della fibra dietetica.
L’estratto di radice di cicoria, inoltre, è anche la fonte principale d’inulina, una fibra a sua volta presente in molti alimenti dietetici, come sostituto di zuccheri e grassi. Al momento dell’arruolamento e dopo 13 giorni a tutti i partecipanti veniva misurata la densità energetica della dieta (food intake).
I soggetti che assumevano il supplemento nella quantità più elevata mostravano una riduzione dell’intake energetico quotidiano del 10% rispetto a chi assumeva il placebo.
Inoltre, mostravano valori superiori negli ormoni della sazietà, quali il PYY e il GLP-1.
Sebbene non sia stato possibile dimostrare una riduzione del peso corporeo, data la breve durata dell’esperimento, gli autori ritengono che nel lungo termine la supplementazione di oligofruttosio avrebbe potuto favorire la perdita di peso.
Fonte:
Chicory root fibre could trigger weight loss, finds new research
Fonte: nutraingredients.com
L'ombra materna del sovrappeso infantile
Lo sviluppo del bambino risente dei disturbi metabolici del genitore
E' oramai indiscutibilmente dimostrata l'ereditabilità dell'obesità e numerosi studi hanno stabilito l'influenza dell' "ambiente familiare" nella predisposizione al sovrappeso infantile.
Tuttavia, l'associazione tra l'obesità materna e il sovrappeso del figlio è più forte rispetto a quella paterna.
Questa situazione non sembra derivare dalla trasmissione di un particolare corredo genetico esclusivo della madre ma, più probabilmente, dipende dall'ambiente uterino incontrato dal bambino durante vita fetale.
L'esposizione a determinate condizioni chimico-ormonali durante lo sviluppo sembrano infatti essere responsabili dell'insorgenza di alcuni comportamenti del bambino tipicamente associati al sovrappeso come l'inattività fisica e il consumo smodato di cibo.
Studi condotti su modelli sperimentali animali hanno permesso di identificare alcuni fattori legati al sovrappeso materno capaci di influenzare il bilancio energetico nel nascituro.
Tra questi vi sarebbe il disturbo dei lipidi (dislipidemia), dei livelli di insulina (iperinsulinemia) e del glucosio (iperglicemia) ma anche lo stato infiammatorio cronico presente nell'obesità.
Ad esempio, diversi autori hanno suggerito che l'obesità del bambino derivi da una limitata attività motoria, quest'ultima dovuta ad una ridotta massa muscolare e funzione contrattile.
Lo stato infiammatorio materno sembra infatti ostacolare il corretto sviluppo del muscolo, come dimostrato dallo shift nel differenziamento di cellule staminali mesenchimali da miogenesi ad adipogenesi per azione di mediatori dell'infiammazione.
Poichè il muscolo scheletrico è il principale sito di immagazzinamento del glucosio in seguito a stimolazione insulinica, il corretto sviluppo di questo tessuto è indispensabile per assicurare l'efficiente regolazione del bilancio energetico nel bambino.
L'infiammazione materna è solo uno dei possibili bersagli di strategie necessarie per prevenire i disturbi del nascituro.
Il sovrappeso materno è estrememente dannoso per il bambino non soltanto durante gravidanza, ma anche nella fase dell'allattamento, in quanto gli stessi elementi attivi durante la gestazione vengono ritrovati nel latte.
La prime fasi della vita rappresentano dunque una finestra temporale critica durante la quale è possibile attuare interventi volti a minimizzare il rischio del sovrappeso infantile, prevenendo così il pericoloso sviluppo dell'obesità nell'adolescenza e durante l'età adulta.
La regolazione del consumo materno di carboidrati ed un maggiore livello di attività fisica permettono di controllare la variazione di peso nella gravidanza nei genitori potenzialmente a rischio, assicurando una buona salute del bambino alla nascita.
Solo grazie ad interventi mirati ai fattori di rischio materni è infatti possibile interrompere il pericoloso ciclo obesità materna-infantile.
Autore: K Rooney and S E Ozanne
Fonte: International Journal of Obesity 2011
E' oramai indiscutibilmente dimostrata l'ereditabilità dell'obesità e numerosi studi hanno stabilito l'influenza dell' "ambiente familiare" nella predisposizione al sovrappeso infantile.
Tuttavia, l'associazione tra l'obesità materna e il sovrappeso del figlio è più forte rispetto a quella paterna.
Questa situazione non sembra derivare dalla trasmissione di un particolare corredo genetico esclusivo della madre ma, più probabilmente, dipende dall'ambiente uterino incontrato dal bambino durante vita fetale.
L'esposizione a determinate condizioni chimico-ormonali durante lo sviluppo sembrano infatti essere responsabili dell'insorgenza di alcuni comportamenti del bambino tipicamente associati al sovrappeso come l'inattività fisica e il consumo smodato di cibo.
Studi condotti su modelli sperimentali animali hanno permesso di identificare alcuni fattori legati al sovrappeso materno capaci di influenzare il bilancio energetico nel nascituro.
Tra questi vi sarebbe il disturbo dei lipidi (dislipidemia), dei livelli di insulina (iperinsulinemia) e del glucosio (iperglicemia) ma anche lo stato infiammatorio cronico presente nell'obesità.
Ad esempio, diversi autori hanno suggerito che l'obesità del bambino derivi da una limitata attività motoria, quest'ultima dovuta ad una ridotta massa muscolare e funzione contrattile.
Lo stato infiammatorio materno sembra infatti ostacolare il corretto sviluppo del muscolo, come dimostrato dallo shift nel differenziamento di cellule staminali mesenchimali da miogenesi ad adipogenesi per azione di mediatori dell'infiammazione.
Poichè il muscolo scheletrico è il principale sito di immagazzinamento del glucosio in seguito a stimolazione insulinica, il corretto sviluppo di questo tessuto è indispensabile per assicurare l'efficiente regolazione del bilancio energetico nel bambino.
L'infiammazione materna è solo uno dei possibili bersagli di strategie necessarie per prevenire i disturbi del nascituro.
Il sovrappeso materno è estrememente dannoso per il bambino non soltanto durante gravidanza, ma anche nella fase dell'allattamento, in quanto gli stessi elementi attivi durante la gestazione vengono ritrovati nel latte.
La prime fasi della vita rappresentano dunque una finestra temporale critica durante la quale è possibile attuare interventi volti a minimizzare il rischio del sovrappeso infantile, prevenendo così il pericoloso sviluppo dell'obesità nell'adolescenza e durante l'età adulta.
La regolazione del consumo materno di carboidrati ed un maggiore livello di attività fisica permettono di controllare la variazione di peso nella gravidanza nei genitori potenzialmente a rischio, assicurando una buona salute del bambino alla nascita.
Solo grazie ad interventi mirati ai fattori di rischio materni è infatti possibile interrompere il pericoloso ciclo obesità materna-infantile.
Autore: K Rooney and S E Ozanne
Fonte: International Journal of Obesity 2011
Il Kiwi migliora anche l'insonnia
Sembra che per migliorare la qualità del sonno basti mangiare un paio di kiwi un’ora prima di coricarsi.
Lo suggeriscono i risultati ottenuti su 22 uomini e 2 donne, dai 20 ai 55 anni, invitati a mangiare 2 kiwi, 1 ora prima di coricarsi e per 4 settimane consecutive. Alla fine del periodo di osservazione, tutti i soggetti reclutati erano sottoposti a un questionario, validato per l’accertamento dei disturbi del sonno.
Si è così dimostrato che qualità del sonno, durata e altri problemi, di cui tutti soggetti soffrivano prima dell’esperimento, erano significativamente migliorati. Gi autori enfatizzano i benefici conseguiti, proponendo ulteriori esperimenti a conferma.
È noto che il kiwi ha un buon contenuto di fibre e di antiossidanti e un buon potere saziante, ma in tale studio, è il discreto contenuto di serotonina, il fattore chiamato in causa per dimostrare l’effetto benefico. Il frutto, dunque, potrebbe costituire una proposta alimentare accettabile anche da chi spesso lamenta insonnia.
Da non trascurare l’ipotesi, che sulla base di banche dati degli alimenti complete, si potrebbero sperimentare modelli dietetici ancor più efficaci nella relazione alimento e sonno.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21669584
Asia Pac J Clin Nutr. 2011;20(2):169-74.
Effect of kiwifruit consumption on sleep quality in adults with sleep problems.
Fonte: Asia Pac J Clin Nutr. 2011;20(2):169-74.
Lo suggeriscono i risultati ottenuti su 22 uomini e 2 donne, dai 20 ai 55 anni, invitati a mangiare 2 kiwi, 1 ora prima di coricarsi e per 4 settimane consecutive. Alla fine del periodo di osservazione, tutti i soggetti reclutati erano sottoposti a un questionario, validato per l’accertamento dei disturbi del sonno.
Si è così dimostrato che qualità del sonno, durata e altri problemi, di cui tutti soggetti soffrivano prima dell’esperimento, erano significativamente migliorati. Gi autori enfatizzano i benefici conseguiti, proponendo ulteriori esperimenti a conferma.
È noto che il kiwi ha un buon contenuto di fibre e di antiossidanti e un buon potere saziante, ma in tale studio, è il discreto contenuto di serotonina, il fattore chiamato in causa per dimostrare l’effetto benefico. Il frutto, dunque, potrebbe costituire una proposta alimentare accettabile anche da chi spesso lamenta insonnia.
Da non trascurare l’ipotesi, che sulla base di banche dati degli alimenti complete, si potrebbero sperimentare modelli dietetici ancor più efficaci nella relazione alimento e sonno.
Fonte:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21669584
Asia Pac J Clin Nutr. 2011;20(2):169-74.
Effect of kiwifruit consumption on sleep quality in adults with sleep problems.
Fonte: Asia Pac J Clin Nutr. 2011;20(2):169-74.
Aterosclerosi e osteoporosi: quale ruolo per la vitamina D ?
I meccanismi patofisiologici che connettono aterosclerosi e osteoporosi sono complessi e potrebbero dipendere dall'inadeguatezza dei livelli di vitamina D.
E' ormai evidente la correlazione clinica tra aterosclerosi ed osteoporosi, sia per quanto riguarda la patogenesi tanto per la loro progressione.
In molti pazienti la perdita di tessuto osseo procede contestualmente alla formazione di placche calcificate nella parete delle arterie.
Le due malattie rappresentano condizioni croniche e degenerative tipiche dell'età avanzata e condividono alcuni meccanismi patofisiologici.
Dislipidemia, ipertensione arteriosa, diabete ed iperomocistinemia sono tipici fattori di rischio cardiovascolare ed anche di una riduzione della massa ossea.
Oltre il 90% delle placche aterosclerotiche va incontro a calcificazione, un processo attivo e regolato che porta alla deposizione di tessuto istologicamente indistinguibile da quello osseo contenente tipi cellulari indicativi dell'avvenuta differenziazione di cellule endoteliali in osteoblasti.
La simultanea progressione della calcificazione vascolare e della perdita di matrice minerale ossea presuppone l’esistenza di fattori tessutali locali comuni che governano i processi di biomineralizzazione e di erosione ossea.
I prodotti dell’ossidazione lipidica sono noti promuovere la calcificazione arteriosa mentre il loro accumulo nello spazio subendoteliale dell’osso scheletrico inibisce la formazione di nuovo tessuto osseo.
La perturbazione dell’omeostasi del calcio è un ulteriore fattore responsabile della progressione di entrambe le patologie. Un elevato livello di calcio circolante è, ad esempio, associato all’ispessimento della placca carotidea.
L’inadeguatezza nel consumo di vitamina D si riflette nella ridotta densità minerale ossea e può determinare iperparatiroidismo secondario, un ulteriore condizione che può favorire la calcificazione delle arterie.
La deficienza di vitamina D è inoltre responsabile di uno stato infiammatorio cronico, determinante nel processo di aterogenesi e responsabile dell'instabilità della placca.
Allo stesso tempo, un’eccessiva assunzione di vitamina D (25(OH)D) sembra favorire la calcificazione arteriosa.
Un recente studio ha analizzato l’effetto di elevate dosi supplemnetari di 25-idrossivitamina D concludendo che i benefici ottimali della vitamina per il rischio cardiovascolare sono ottenuti a concentrazioni di 75-110 nmol/l (30-44 ng/ml).
Questi livelli possono essere raggiunti con dosi orali giornaliere di 1,800 to 4,000 IU.
Tuttavia, numerosi soggeti anziani non riescono a raggiungere i livelli ottimali di 25(OH)D durante i mesi estivi suggerendo l’utilità dei supplementi indipendentemente dalla stagione.
Ulteriori studi controllati sono richiesti per valutare i livelli più indicati della vitamina per evitare un sovra e sotto trattamento e per chiarire in maniera più forte la relazione tra aterosclerosi ed osteoporosi.
Autore: Olivera Ilic Stojanovic, Milica Lazovic, Marko Lazovic, Marina Vuceljic
Fonte: Arch Med Sci 2011
E' ormai evidente la correlazione clinica tra aterosclerosi ed osteoporosi, sia per quanto riguarda la patogenesi tanto per la loro progressione.
In molti pazienti la perdita di tessuto osseo procede contestualmente alla formazione di placche calcificate nella parete delle arterie.
Le due malattie rappresentano condizioni croniche e degenerative tipiche dell'età avanzata e condividono alcuni meccanismi patofisiologici.
Dislipidemia, ipertensione arteriosa, diabete ed iperomocistinemia sono tipici fattori di rischio cardiovascolare ed anche di una riduzione della massa ossea.
Oltre il 90% delle placche aterosclerotiche va incontro a calcificazione, un processo attivo e regolato che porta alla deposizione di tessuto istologicamente indistinguibile da quello osseo contenente tipi cellulari indicativi dell'avvenuta differenziazione di cellule endoteliali in osteoblasti.
La simultanea progressione della calcificazione vascolare e della perdita di matrice minerale ossea presuppone l’esistenza di fattori tessutali locali comuni che governano i processi di biomineralizzazione e di erosione ossea.
I prodotti dell’ossidazione lipidica sono noti promuovere la calcificazione arteriosa mentre il loro accumulo nello spazio subendoteliale dell’osso scheletrico inibisce la formazione di nuovo tessuto osseo.
La perturbazione dell’omeostasi del calcio è un ulteriore fattore responsabile della progressione di entrambe le patologie. Un elevato livello di calcio circolante è, ad esempio, associato all’ispessimento della placca carotidea.
L’inadeguatezza nel consumo di vitamina D si riflette nella ridotta densità minerale ossea e può determinare iperparatiroidismo secondario, un ulteriore condizione che può favorire la calcificazione delle arterie.
La deficienza di vitamina D è inoltre responsabile di uno stato infiammatorio cronico, determinante nel processo di aterogenesi e responsabile dell'instabilità della placca.
Allo stesso tempo, un’eccessiva assunzione di vitamina D (25(OH)D) sembra favorire la calcificazione arteriosa.
Un recente studio ha analizzato l’effetto di elevate dosi supplemnetari di 25-idrossivitamina D concludendo che i benefici ottimali della vitamina per il rischio cardiovascolare sono ottenuti a concentrazioni di 75-110 nmol/l (30-44 ng/ml).
Questi livelli possono essere raggiunti con dosi orali giornaliere di 1,800 to 4,000 IU.
Tuttavia, numerosi soggeti anziani non riescono a raggiungere i livelli ottimali di 25(OH)D durante i mesi estivi suggerendo l’utilità dei supplementi indipendentemente dalla stagione.
Ulteriori studi controllati sono richiesti per valutare i livelli più indicati della vitamina per evitare un sovra e sotto trattamento e per chiarire in maniera più forte la relazione tra aterosclerosi ed osteoporosi.
Autore: Olivera Ilic Stojanovic, Milica Lazovic, Marko Lazovic, Marina Vuceljic
Fonte: Arch Med Sci 2011
L'importanza della colazione nei bambini
Il "salto" della colazione è un abitudine comunemente diffusa tra bambini e adolescenti e sembra contribuire ad un maggior rischio di sviluppare disturbi metabolici.
Il sovrappeso infantile è un fenomeno in preoccupante crescita, anche nel nostro paese, e sarebbero alcune abitudini alimentari scorrette, piuttosto che il tipo dei cibi consumati, le principali cause.
Numerosi bambini saltano infatti la prima colazione, spesso su scelta dei genitori, per ragioni di controllo del peso, ma i risultati forniti da studi clinici di associazione ed epidemiologici mostrano risultati opposti.
La composizione della colazione è ovviamente importante e un pasto ideale dovrebbe contenere carboidrati complessi e cereali a basso contenuto in zuccheri e grassi.
Un recente studio condotto dai ricercatori dell’Università di Hong Kong ha analizzato l’associazione tra il consumo della colazione e il valore dell’indice di massa corporea (BMI) nei bambini in età scolare.
Oltre 113000 bambini di 9 anni sono stati seguiti valutando le loro abitudini alimentari in relazione alla crescita nel corso di due anni.
In particolare, l’analisi statistica multivariata ha permesso di valutare la relazione nel tempo tra l’abitudine al consumo o meno della colazione e la variazione nel valore di BMI.
Dallo studio è emerso che i bambini e le bambine che saltano la colazione presentavano maggiore aumento del valore medio di BMI rispetto ai coetanei che consumavano regolarmente il primo pasto del giorno.
Questa associazione è risultata ancora più forte per coloro abituati a saltare anche il pranzo.
Lo studio ha rivelato l’esistenza di un’associazione inaspettata ed in apparenza quasi paradossale tra l’abitudine al salto di un pasto e lo sviluppo del sovrappeso.
I risultati potrebbero essere spiegati dal fatto che l’abitudine alla colazione influenza il pattern alimentare quotidiano regolando positivamente l’assunzione calorica giornaliera totale.
Autore: S P P Tin, S Y Ho, K H Mak, K L Wan and T H Lam
Fonte: International Journal of Obesity (2011)
Il sovrappeso infantile è un fenomeno in preoccupante crescita, anche nel nostro paese, e sarebbero alcune abitudini alimentari scorrette, piuttosto che il tipo dei cibi consumati, le principali cause.
Numerosi bambini saltano infatti la prima colazione, spesso su scelta dei genitori, per ragioni di controllo del peso, ma i risultati forniti da studi clinici di associazione ed epidemiologici mostrano risultati opposti.
La composizione della colazione è ovviamente importante e un pasto ideale dovrebbe contenere carboidrati complessi e cereali a basso contenuto in zuccheri e grassi.
Un recente studio condotto dai ricercatori dell’Università di Hong Kong ha analizzato l’associazione tra il consumo della colazione e il valore dell’indice di massa corporea (BMI) nei bambini in età scolare.
Oltre 113000 bambini di 9 anni sono stati seguiti valutando le loro abitudini alimentari in relazione alla crescita nel corso di due anni.
In particolare, l’analisi statistica multivariata ha permesso di valutare la relazione nel tempo tra l’abitudine al consumo o meno della colazione e la variazione nel valore di BMI.
Dallo studio è emerso che i bambini e le bambine che saltano la colazione presentavano maggiore aumento del valore medio di BMI rispetto ai coetanei che consumavano regolarmente il primo pasto del giorno.
Questa associazione è risultata ancora più forte per coloro abituati a saltare anche il pranzo.
Lo studio ha rivelato l’esistenza di un’associazione inaspettata ed in apparenza quasi paradossale tra l’abitudine al salto di un pasto e lo sviluppo del sovrappeso.
I risultati potrebbero essere spiegati dal fatto che l’abitudine alla colazione influenza il pattern alimentare quotidiano regolando positivamente l’assunzione calorica giornaliera totale.
Autore: S P P Tin, S Y Ho, K H Mak, K L Wan and T H Lam
Fonte: International Journal of Obesity (2011)
Quanti e quali grassi ?
La dieta ipolipidica appare associata alla riduzione del rischio cardiovascolare, ma rimangono ancora alcuni punti da chiarire.
La dieta ipolipidica appare associata alla riduzione del rischio cardiovascolare, ma rimangono ancora alcuni punti da chiarire.
Alcuni ricercatori della Norwich Medical School, University of East Anglia (Norwich, UK), hanno effettuato un’analisi sistematica (Cocrhane Study) di numerose pubblicazioni e reviews sul tema “i grassi nella dieta”.
La sintesi su una popolazione di 65508 individui: riducendo il consumo di grassi saturi si ottiene una riduzione del rischio d’insorgenza degli eventi cardiovascolari maggiore del 14%.
Non emerge, tuttavia, la relazione con la ripartizione tra grassi saturi e insaturi.
Nei trial sui maschi, protratti per almeno due anni, è tangibile l’effetto della riduzione dei grassi saturi sui livelli plasmatici di colesterolo LDL e di trigliceridi; ma questa evidenza non si conferma per le femmine.
Inoltre, negli studi riportanti una popolazione estesa di 71790 individui, si osserva che la riduzione dell’intake di grassi non presenta una chiara correlazione con la riduzione della mortalità, nel lungo termine.
Più che ridurre la quantità di lipidi parrebbe utile modificare, anche di poco, la qualità dei lipidi : meno saturi e più polinsaturi, dunque, per conseguire la riduzione del rischio!
Quale sia la ripartizione e la quantità dei polinsaturi nella dieta ideale è ancora da stabilire.
Limitarsi alla piccola correzione dietetica non è comunque sufficiente a ridurre il rischio; infatti il miglioramento dello stile vita è altrettanto importante nelle strategie di prevenzione.
Fonte: Reduced or modified dietary fat for preventing cardiovascular disease.
Cochrane Database Syst Rev. 2011 Jul 6;7:CD002137
La dieta ipolipidica appare associata alla riduzione del rischio cardiovascolare, ma rimangono ancora alcuni punti da chiarire.
Alcuni ricercatori della Norwich Medical School, University of East Anglia (Norwich, UK), hanno effettuato un’analisi sistematica (Cocrhane Study) di numerose pubblicazioni e reviews sul tema “i grassi nella dieta”.
La sintesi su una popolazione di 65508 individui: riducendo il consumo di grassi saturi si ottiene una riduzione del rischio d’insorgenza degli eventi cardiovascolari maggiore del 14%.
Non emerge, tuttavia, la relazione con la ripartizione tra grassi saturi e insaturi.
Nei trial sui maschi, protratti per almeno due anni, è tangibile l’effetto della riduzione dei grassi saturi sui livelli plasmatici di colesterolo LDL e di trigliceridi; ma questa evidenza non si conferma per le femmine.
Inoltre, negli studi riportanti una popolazione estesa di 71790 individui, si osserva che la riduzione dell’intake di grassi non presenta una chiara correlazione con la riduzione della mortalità, nel lungo termine.
Più che ridurre la quantità di lipidi parrebbe utile modificare, anche di poco, la qualità dei lipidi : meno saturi e più polinsaturi, dunque, per conseguire la riduzione del rischio!
Quale sia la ripartizione e la quantità dei polinsaturi nella dieta ideale è ancora da stabilire.
Limitarsi alla piccola correzione dietetica non è comunque sufficiente a ridurre il rischio; infatti il miglioramento dello stile vita è altrettanto importante nelle strategie di prevenzione.
Fonte: Reduced or modified dietary fat for preventing cardiovascular disease.
Cochrane Database Syst Rev. 2011 Jul 6;7:CD002137
Obesità, rischio cardiovascolare e psoriasi
Confermata l’associazione tra psoriasi e diverse comorbidità nell’obeso.
Alcuni ricercatori dell'University Medical Centre Mannheim (Germany) hanno studiato 100 pazienti con psoriasi, ponendoli a confronto con due gruppi compatibili per età e sesso.
Il primo gruppo di controllo prevedeva soggetti ospedalizzati, mentre il secondo, era composto di lavoratori sani.
Dall’analisi dei dati emerge che i malati di psoriasi la stretta correlazione tra patologia e alcuni parametri, quali: tabagismo, obesità , diabete, insulino-resistenza, colesterolemia, infarto miocardico e diminuzione dei livelli di adiponectina.
Inserendo i dati in un modello di regressione, il colesterolo totale appare significativamente basso, mentre il rapporto LDL/HDL è fortemente aumentato in senso pro-aterogenico, sempre nei soggetti con psoriasi.
Inoltre, i malati mostravano elevati livelli plasmatici di CRP rispetto ai lavoratori sani.
I risultati pongono l’accento sull’importanza di non limitarsi alla diagnostica classica della psoriasi – si veda in quest’ambito l’uso dell’indagine capillaroscopica – ma anche di approfondire lo stato nutrizionale dei pazienti, per la stretta relazione tra comorbidità cardiovascolare e la patologia stessa.
Cardiovascular and metabolic risk profile in German patients with moderate and severe psoriasis: a case control study.
Fonte: Eur J Dermatol. 2011 Jul 7. [Epub ahead of print]
Alcuni ricercatori dell'University Medical Centre Mannheim (Germany) hanno studiato 100 pazienti con psoriasi, ponendoli a confronto con due gruppi compatibili per età e sesso.
Il primo gruppo di controllo prevedeva soggetti ospedalizzati, mentre il secondo, era composto di lavoratori sani.
Dall’analisi dei dati emerge che i malati di psoriasi la stretta correlazione tra patologia e alcuni parametri, quali: tabagismo, obesità , diabete, insulino-resistenza, colesterolemia, infarto miocardico e diminuzione dei livelli di adiponectina.
Inserendo i dati in un modello di regressione, il colesterolo totale appare significativamente basso, mentre il rapporto LDL/HDL è fortemente aumentato in senso pro-aterogenico, sempre nei soggetti con psoriasi.
Inoltre, i malati mostravano elevati livelli plasmatici di CRP rispetto ai lavoratori sani.
I risultati pongono l’accento sull’importanza di non limitarsi alla diagnostica classica della psoriasi – si veda in quest’ambito l’uso dell’indagine capillaroscopica – ma anche di approfondire lo stato nutrizionale dei pazienti, per la stretta relazione tra comorbidità cardiovascolare e la patologia stessa.
Cardiovascular and metabolic risk profile in German patients with moderate and severe psoriasis: a case control study.
Fonte: Eur J Dermatol. 2011 Jul 7. [Epub ahead of print]
Dieta con le spezie: gusto e salute
Aggiungere spezie al pasto potrebbe avere effetti significativi sul metabolismo e migliorare il potere antiossidante della dieta.
Ricercatori della Pennsylvania State University, hanno prescritto una dieta di 1200 kcal a 6 uomini sani e volontari in sovrappeso, con l’aggiunta di una miscela di spezie antiossidanti (14 g) in un pasto.
Dopo una settimana, proponevano lo stesso pasto senza le spezie.
I campioni di sangue erano raccolti prima di ogni pasto, e rispettivamente dopo 30 min e dopo 3,5 ore. Risultati: il pasto “speziato” abbassava del 21 e del 31% i livelli postprandiali dell’insulina e dei trigliceridi, rispetto ai livelli misurati dopo il pasto di controllo. È, questa, una riduzione importante, quanto inaspettata nei valori percentuali.
Le spezie, inoltre, aumentavano significativamente il potenziale antiossidante del pasto. L’elaborazione di ricette opportunamente speziate potrebbe rappresentare un plus terapeutico e non solo una semplice modalità gastronomica per rendere il pasto più appetibile.
Rimane da stabilire se la quantità e la qualità delle spezie, impiegate nello studio, siano congruenti con il modello mediterraneo delle ricette italiane, comunque di per sé ricco di spezie e di aromi dal potere antiossidante.
Di certo, si conferma ancora la seguente osservazione: la prescrizione dietetica dovrebbe escludere il modello basato sulle razioni di scambio, con il quale le sostituzioni sono articolate sugli alimenti principali, preferendo le diete che prevedono ricette, gastronomicamente modificabili anche negli ingredienti secondari.
Fonte: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21697300
J Nutr. 2011 Jun 22. [Epub ahead of print]
A High Antioxidant Spice Blend Attenuates Postprandial Insulin and Triglyceride Responses and Increases Some Plasma Measures of Antioxidant Activity in Healthy, Overweight Men.
Fonte: J Nutr. 2011 Jun 22. [Epub ahead of print]
Ricercatori della Pennsylvania State University, hanno prescritto una dieta di 1200 kcal a 6 uomini sani e volontari in sovrappeso, con l’aggiunta di una miscela di spezie antiossidanti (14 g) in un pasto.
Dopo una settimana, proponevano lo stesso pasto senza le spezie.
I campioni di sangue erano raccolti prima di ogni pasto, e rispettivamente dopo 30 min e dopo 3,5 ore. Risultati: il pasto “speziato” abbassava del 21 e del 31% i livelli postprandiali dell’insulina e dei trigliceridi, rispetto ai livelli misurati dopo il pasto di controllo. È, questa, una riduzione importante, quanto inaspettata nei valori percentuali.
Le spezie, inoltre, aumentavano significativamente il potenziale antiossidante del pasto. L’elaborazione di ricette opportunamente speziate potrebbe rappresentare un plus terapeutico e non solo una semplice modalità gastronomica per rendere il pasto più appetibile.
Rimane da stabilire se la quantità e la qualità delle spezie, impiegate nello studio, siano congruenti con il modello mediterraneo delle ricette italiane, comunque di per sé ricco di spezie e di aromi dal potere antiossidante.
Di certo, si conferma ancora la seguente osservazione: la prescrizione dietetica dovrebbe escludere il modello basato sulle razioni di scambio, con il quale le sostituzioni sono articolate sugli alimenti principali, preferendo le diete che prevedono ricette, gastronomicamente modificabili anche negli ingredienti secondari.
Fonte: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21697300
J Nutr. 2011 Jun 22. [Epub ahead of print]
A High Antioxidant Spice Blend Attenuates Postprandial Insulin and Triglyceride Responses and Increases Some Plasma Measures of Antioxidant Activity in Healthy, Overweight Men.
Fonte: J Nutr. 2011 Jun 22. [Epub ahead of print]
Può l'alimentazione curare il cancro ?
Il consumo di ridotte quantità di carboidrati sembra rallentare la crescita di alcune forme di tumore.
La risposta arriva da uno studio condotto dai ricercatori della University of British Columbia, Vancouver, i quali hanno dimostrato che un'alimentazione a basso contenuto di carboidrati rallentava la crescita dei tumori e preveniva l'insorgenza della neoplasia nell’animale da laboratorio.
Lo studio si è basato sull’ipotesi che un basso livello di glucosio nel sangue potesse limitare l’espansione dei tumori.
Le cellule tumorali infatti, a differenza di quelle normali, utilizzano principalmente il glucosio per il proprio metabolismo e non la normale respirazione cellulare.
Il metabolismo anaerobico, o glicolisi, garantisce indiscussi vantaggi alle cellule cancerose.
Nonostante risulti meno efficace nella produzione di energia, la via glicolitica non causa la totale distruzione delle molecole di glucosio, rendendo codì disponibili catene di carbonio sufficientemente lunghe per la nuova sintesi di acidi nucleici, proteine e lipidi, essenziali per la proliferazione tumorale.
Questo tipo di metabolismo non è unico dei tumori solidi ma viene sfruttato anche delle leucemie linfoidi.
Inoltre, l'utilizzo preferenziale del glucosio da origine alla formazione di acido lattico, un sottoprodotto metabolico che può causare morte cellulare, angiogenesi, degradazione della matrice extracellulare ed inibisce le risposte immunitarie anti-tumorali favorendo così la metastasi.
Il glucosio plasmatico induce la secrezione pancreatica di insulina che, in questo modo, determina la captazione dello zucchero delle cellule tumorali.
Nello studio i ricercatori hanno alimentato gli animali con due tipi di diete: una (CHO) a basso contenuto di carboidrati - 15% amilosio, 58% proteine e 26% grassi - ed una di tipo “occidentale” a maggior contenuto in grassi e zuccheri, dimostrando che la prima limitava la crescita dei tumori impiantati negli animali. Le due diete erano isoenergetiche, non differivano cioè nell’apporto calorico ma solo nella loro composizione.
La dieta CHO manteneva bassi i livelli di glucosio e di insulina nel sangue e rallentava di fatto l'espansione delle cellule di carcinoma iniettate. La stessa dieta impediva inoltre l’insorgenza spontanea del tumore mammario nel modello animale geneticamente predisposto allo sviluppo della neoplasia.
Infine, i ricercatori hanno testato l’efficacia delle diverse diete in combinazione con due comuni agenti terapeutici anti-tumorali: CCI-779 e Celebrex, riscontrando un notevole effetto additivo fra la dieta CHO ed entrambi i farmaci.
Questi risultati supportano il ruolo dell’alimentazione nella cura del cancro, specialmente per quelle forme di cancro umano altamente dipendenti dal glucosio come il tumore pancreatico, mammario, colorettale, endometriale ed esofageo.
Autore: Victor W. Ho, Kelvin Leung, Anderson Hsu, et al.
Fonte: 2011Cancer Res
La risposta arriva da uno studio condotto dai ricercatori della University of British Columbia, Vancouver, i quali hanno dimostrato che un'alimentazione a basso contenuto di carboidrati rallentava la crescita dei tumori e preveniva l'insorgenza della neoplasia nell’animale da laboratorio.
Lo studio si è basato sull’ipotesi che un basso livello di glucosio nel sangue potesse limitare l’espansione dei tumori.
Le cellule tumorali infatti, a differenza di quelle normali, utilizzano principalmente il glucosio per il proprio metabolismo e non la normale respirazione cellulare.
Il metabolismo anaerobico, o glicolisi, garantisce indiscussi vantaggi alle cellule cancerose.
Nonostante risulti meno efficace nella produzione di energia, la via glicolitica non causa la totale distruzione delle molecole di glucosio, rendendo codì disponibili catene di carbonio sufficientemente lunghe per la nuova sintesi di acidi nucleici, proteine e lipidi, essenziali per la proliferazione tumorale.
Questo tipo di metabolismo non è unico dei tumori solidi ma viene sfruttato anche delle leucemie linfoidi.
Inoltre, l'utilizzo preferenziale del glucosio da origine alla formazione di acido lattico, un sottoprodotto metabolico che può causare morte cellulare, angiogenesi, degradazione della matrice extracellulare ed inibisce le risposte immunitarie anti-tumorali favorendo così la metastasi.
Il glucosio plasmatico induce la secrezione pancreatica di insulina che, in questo modo, determina la captazione dello zucchero delle cellule tumorali.
Nello studio i ricercatori hanno alimentato gli animali con due tipi di diete: una (CHO) a basso contenuto di carboidrati - 15% amilosio, 58% proteine e 26% grassi - ed una di tipo “occidentale” a maggior contenuto in grassi e zuccheri, dimostrando che la prima limitava la crescita dei tumori impiantati negli animali. Le due diete erano isoenergetiche, non differivano cioè nell’apporto calorico ma solo nella loro composizione.
La dieta CHO manteneva bassi i livelli di glucosio e di insulina nel sangue e rallentava di fatto l'espansione delle cellule di carcinoma iniettate. La stessa dieta impediva inoltre l’insorgenza spontanea del tumore mammario nel modello animale geneticamente predisposto allo sviluppo della neoplasia.
Infine, i ricercatori hanno testato l’efficacia delle diverse diete in combinazione con due comuni agenti terapeutici anti-tumorali: CCI-779 e Celebrex, riscontrando un notevole effetto additivo fra la dieta CHO ed entrambi i farmaci.
Questi risultati supportano il ruolo dell’alimentazione nella cura del cancro, specialmente per quelle forme di cancro umano altamente dipendenti dal glucosio come il tumore pancreatico, mammario, colorettale, endometriale ed esofageo.
Autore: Victor W. Ho, Kelvin Leung, Anderson Hsu, et al.
Fonte: 2011Cancer Res
Sonno alterato e abitudini alimentari scorrette
Chi va a letto tardi abitualmente consuma meno porzioni di frutta e verdura, più cibi insalubri e bevande caloriche e introduce più calorie giornaliere.
Un recente studio ha dimostrato che lo spostamento in avanti degli orari del ciclo sonno veglia influenza le abitudini alimentari, la qualità dei pasti e l’assunzione calorica giornaliero.
L’orario di inizio del sonno varia largamente tra gli indiviui ma, nell’adulto, coincide generalmente con la mezzanotte. Tuttavia una significativa percentuale della popolazione tende ad addormentarsi abitualmente ad ore più tarde, intorno alle 3 di notte o oltre.
La perturbazione cronica del ciclo del sonno può avere ripercussioni deleterie sulla fisiologia corporea e la salute psicologica compromettendo la produttività e le relazioni sociali durante il giorno.
Ultimamente sta divenendo sempre più evidente che il “disallineamento” fra gli orari del sonno e i ritmi circadiani endogeni può causare disfunzioni cardio-metaboliche. Allo stesso modo, verrebbe influenzato il comportamento alimentare e si avrebbe una maggiore predisposizione al sovrappeso.
Infine, la preferenza per l’attività notturna favorisce abitudini scorrette come il fumo e il consumo di caffeina ed alcool.
In breve, nello studio sono stati reclutati 50 volontari istruiti a registrare l’orario, il luogo, il tipo, le quantità dei cibi e delle bevande consumati durante la giornata. Inoltre, i partecipanti indossavano al polso un dispositivo per il monitoraggio attigrafico della durata e degli orari del ciclo del sonno.
Gli individui con l’abitudine a "fare le ore piccole" presentavano una durata del sonno globalmente più breve, indicavano una preferenza per le attività notturne e riportavano sintomi depressivi.
Questi soggetti consumavano pasti più ravvicinati e le loro diete icludevano meno della metà delle porzioni di frutta e verdura e quasi il doppio di cibi fast-food e bevande caloriche rispetto ai soggetti con orari normali.
Il ciclo ritardato del sonno era associato ad una minore assunzione di calorie prima delle 9 di mattina ma ad una significativamente più elevata dopo le otto di sera.
Il dato più importante dello studio è stato che il consumo di calorie dopo questo orario correlava con il valore indice di massa corporea (BMI) dei partrecipanti, indipendentemente dall’età e dall’orario di inizio e durata del sonno.
Autore: Kelly G. Baron, Kathryn J. Reid, Andrew S. Kern and Phyllis C. Zee
Fonte: Obesity (2011) 19; 7, 1374-1381
Un recente studio ha dimostrato che lo spostamento in avanti degli orari del ciclo sonno veglia influenza le abitudini alimentari, la qualità dei pasti e l’assunzione calorica giornaliero.
L’orario di inizio del sonno varia largamente tra gli indiviui ma, nell’adulto, coincide generalmente con la mezzanotte. Tuttavia una significativa percentuale della popolazione tende ad addormentarsi abitualmente ad ore più tarde, intorno alle 3 di notte o oltre.
La perturbazione cronica del ciclo del sonno può avere ripercussioni deleterie sulla fisiologia corporea e la salute psicologica compromettendo la produttività e le relazioni sociali durante il giorno.
Ultimamente sta divenendo sempre più evidente che il “disallineamento” fra gli orari del sonno e i ritmi circadiani endogeni può causare disfunzioni cardio-metaboliche. Allo stesso modo, verrebbe influenzato il comportamento alimentare e si avrebbe una maggiore predisposizione al sovrappeso.
Infine, la preferenza per l’attività notturna favorisce abitudini scorrette come il fumo e il consumo di caffeina ed alcool.
In breve, nello studio sono stati reclutati 50 volontari istruiti a registrare l’orario, il luogo, il tipo, le quantità dei cibi e delle bevande consumati durante la giornata. Inoltre, i partecipanti indossavano al polso un dispositivo per il monitoraggio attigrafico della durata e degli orari del ciclo del sonno.
Gli individui con l’abitudine a "fare le ore piccole" presentavano una durata del sonno globalmente più breve, indicavano una preferenza per le attività notturne e riportavano sintomi depressivi.
Questi soggetti consumavano pasti più ravvicinati e le loro diete icludevano meno della metà delle porzioni di frutta e verdura e quasi il doppio di cibi fast-food e bevande caloriche rispetto ai soggetti con orari normali.
Il ciclo ritardato del sonno era associato ad una minore assunzione di calorie prima delle 9 di mattina ma ad una significativamente più elevata dopo le otto di sera.
Il dato più importante dello studio è stato che il consumo di calorie dopo questo orario correlava con il valore indice di massa corporea (BMI) dei partrecipanti, indipendentemente dall’età e dall’orario di inizio e durata del sonno.
Autore: Kelly G. Baron, Kathryn J. Reid, Andrew S. Kern and Phyllis C. Zee
Fonte: Obesity (2011) 19; 7, 1374-1381
Supplementi proteici per il paziente in emodialisi
I pazienti in dialisi sono soggetti a profonde alterazioni metaboliche e nutrizionali che modificano l'equilibrio energetico in forma cronica e persistente
Nei pazienti con insufficienza renale cronica sottoposti a emodialisi si assiste al femoneno della Protein Energy Wasting (PEW), una situazione distinta dalla malnutrizione, caratterizzata da un elevato consumo energetico e riposo.
Questa condizione si manifesta con bassi livelli serici di albumina e prealbumina, sarcopenia e perdita di peso e costituisce un forte predittore di mortalità.
I pazienti in dialisi sono soggetti a profonde alterazioni metaboliche e nutrizionali che modificano l’equilibrio energetico in forma cronica e persistente.
Il catabolismo proteico, richiesto per mantenere un substrato amminoacidico plasmatico per la sintesi di proteine della fase acuta dell’infiammazione, può avere forti ripercussioni sul muscolo scheletrico e può determinare frequenti infezioni ed eventi cardiovascolari acuti, riproducendo uno stato di semi-denutrizione.
La deficienza nutrizionale è inoltre dovuta alla perdita di amminoacidi nel liquido dializzato equivalente a 6–8 g per sessione per un totale di 6,5 kg all’anno.
Circa due terzi dei pazienti in dialisi soffrono ipo-albuminemia ed rischio di mortalità è elevato in presenza di concentrazioni seriche di albumina inferiori a <40 g/l.
Numerosi studi hanno dimostrato che la PEW può essere mitigata o corretta mediante un supporto nutrizionale enterale incentrato sull’assunzione di proteine.
I supplementi nutrizionali costituiscono infatti la strategia più indicata per ristabilire le concentrazioni di albumina plasmatica ed aumentare la sopravvivenza di questi pazienti. I supplementi orali possono fornire 7–10 kcal/kg giornaliere aggiuntive necessarie al raggiungimento delle dosi raccomendate.
Le richieste alimentari e il supporto nutrizionale entrale devono essere considerati anche in pazienti con IRC e diabete mellito, nei pazienti sottoposti a dialisi peritoneale e nei riceventi di trapianti renale.
I pazienti in dialisi peritoneale perdono infatti circa 5-7 grammi di proteine al giorno nel liquido dializzato. Queste perdite sono ancor più consistenti durante gli episodi di peritonite
La risposta immunitaria al trapianto, la frequenza e severità degli eventi di rigetto, il grado di compromissione della funzione renale e l’utilizzo di regimi immuno-soppressivi possono favorire la PEW nei riceventi di trapianto renale.
Un cattivo stato nutrizionale prima e dopo l’intervento è associato a minore sopravvivenza di questi pazienti.
Il supporto nutrizionale entrale può fornire una serie di macronutrienti e micronutrienti oltre alle calorie e le proteine. Tra questi, gli amminoacidi essenziali, i composti inattivi della proteina D nativa ed altre vitamine antiossidanti, possono essere consumate sottoforma di preparazioni multivitaminiche o come ingredienti aggiunti ai supplementi nutrizionali orali.
Altre preparazioni possono migliorare lo stato nutrizionale dei pazienti sottoposti l’emodialisi come gli stimolanti dell’appetito, gli ormoni anabolici, i fattori di crescita e gli agenti anti-ossidativi e anti-infiammatori.
Infine, altri interventi non nutrizionali devono essere considerati riguardanti le modalità di trattamento dialitico e le tecniche per la prevenzione dell’infiammazione e della perdita di proteine.
Autore: Kamyar Kalantar-Zadeh, Noël J. Cano, Klemens Budde, Charles Chazot, Csaba P. Kovesdy, Robert H. Mak, Rajnish Mehrotra, Dominic S. Raj, Ashwini R. Sehgal, Peter Fonte: Nature Reviews Nephrology 7, 369-384 (July 2011)
Nei pazienti con insufficienza renale cronica sottoposti a emodialisi si assiste al femoneno della Protein Energy Wasting (PEW), una situazione distinta dalla malnutrizione, caratterizzata da un elevato consumo energetico e riposo.
Questa condizione si manifesta con bassi livelli serici di albumina e prealbumina, sarcopenia e perdita di peso e costituisce un forte predittore di mortalità.
I pazienti in dialisi sono soggetti a profonde alterazioni metaboliche e nutrizionali che modificano l’equilibrio energetico in forma cronica e persistente.
Il catabolismo proteico, richiesto per mantenere un substrato amminoacidico plasmatico per la sintesi di proteine della fase acuta dell’infiammazione, può avere forti ripercussioni sul muscolo scheletrico e può determinare frequenti infezioni ed eventi cardiovascolari acuti, riproducendo uno stato di semi-denutrizione.
La deficienza nutrizionale è inoltre dovuta alla perdita di amminoacidi nel liquido dializzato equivalente a 6–8 g per sessione per un totale di 6,5 kg all’anno.
Circa due terzi dei pazienti in dialisi soffrono ipo-albuminemia ed rischio di mortalità è elevato in presenza di concentrazioni seriche di albumina inferiori a <40 g/l.
Numerosi studi hanno dimostrato che la PEW può essere mitigata o corretta mediante un supporto nutrizionale enterale incentrato sull’assunzione di proteine.
I supplementi nutrizionali costituiscono infatti la strategia più indicata per ristabilire le concentrazioni di albumina plasmatica ed aumentare la sopravvivenza di questi pazienti. I supplementi orali possono fornire 7–10 kcal/kg giornaliere aggiuntive necessarie al raggiungimento delle dosi raccomendate.
Le richieste alimentari e il supporto nutrizionale entrale devono essere considerati anche in pazienti con IRC e diabete mellito, nei pazienti sottoposti a dialisi peritoneale e nei riceventi di trapianti renale.
I pazienti in dialisi peritoneale perdono infatti circa 5-7 grammi di proteine al giorno nel liquido dializzato. Queste perdite sono ancor più consistenti durante gli episodi di peritonite
La risposta immunitaria al trapianto, la frequenza e severità degli eventi di rigetto, il grado di compromissione della funzione renale e l’utilizzo di regimi immuno-soppressivi possono favorire la PEW nei riceventi di trapianto renale.
Un cattivo stato nutrizionale prima e dopo l’intervento è associato a minore sopravvivenza di questi pazienti.
Il supporto nutrizionale entrale può fornire una serie di macronutrienti e micronutrienti oltre alle calorie e le proteine. Tra questi, gli amminoacidi essenziali, i composti inattivi della proteina D nativa ed altre vitamine antiossidanti, possono essere consumate sottoforma di preparazioni multivitaminiche o come ingredienti aggiunti ai supplementi nutrizionali orali.
Altre preparazioni possono migliorare lo stato nutrizionale dei pazienti sottoposti l’emodialisi come gli stimolanti dell’appetito, gli ormoni anabolici, i fattori di crescita e gli agenti anti-ossidativi e anti-infiammatori.
Infine, altri interventi non nutrizionali devono essere considerati riguardanti le modalità di trattamento dialitico e le tecniche per la prevenzione dell’infiammazione e della perdita di proteine.
Autore: Kamyar Kalantar-Zadeh, Noël J. Cano, Klemens Budde, Charles Chazot, Csaba P. Kovesdy, Robert H. Mak, Rajnish Mehrotra, Dominic S. Raj, Ashwini R. Sehgal, Peter Fonte: Nature Reviews Nephrology 7, 369-384 (July 2011)
Le bevande dolci e il rischio di diabete tipo 2
Il rischio d’insorgenza del diabete mellito di tipo 2 appare fortemente associato al consumo di bevande dolcificate con lo zucchero, ma l’associazione perde valore se è un dolcificante
È stato analizzato il consumo di zucchero presente in molte bevande (soda, punch alla frutta, limonata, succhi di frutta), su 40,389 uomini sani partecipanti allo studio di coorte Health Professionals Follow-Up Study, confrontandolo con quello dei dolcificanti presenti nelle bevande dietetiche, o light.
I dati, estrapolati mediante il questionario di anamnesi alimentare FFQ , sono stati valutati secondo l’incidenza del diabete mellito di tipo 2.
Nei venti anni di follow-up sono emersi, in totale, 2680 nuovi casi di diabete di tipo 2.
Dall’analisi multivariata, che prevedeva la correzione dei dati con tutti i fattori confondenti - storia familiare, assetto multivitaminico, ipertrigliceridemia al tempo 0, ipertensione arteriosa, assunzione di diuretici, variazioni di peso prima dell’arruolamento, tipo di dieta, assunzione energetica totale quotidiana e variazioni del BMI– è emerso che l’incidenza del diabete di tipo 2 era significativamente più elevata nei forti consumatori di bevande con zucchero.
Nel dettaglio: l’intake dei dolcificanti era associato con il diabete di tipo 2, quando si considerava solo il fattore età; ma nell’analisi multivariata si perdeva la correlazione.
Al contrario, la semplice sostituzione di una tazza di caffè zuccherato con una con dolcificante, portava a una riduzione del rischio del 17%.
La relazione tra rischio di diabete e consumo di bevande dolcificate, quindi, appare significativa solo nelle persone che prima dell’arruolamento mostravano una dieta e uno stato nutrizionale predisponente.
Autore: Sugar-sweetened and artificially sweetened beverage consumption and risk of type 2 diabetes in men.
Fonte: Am J Clin Nutr. 2011 Jun;93(6):1321-7. Epub 2011 Mar 23.
È stato analizzato il consumo di zucchero presente in molte bevande (soda, punch alla frutta, limonata, succhi di frutta), su 40,389 uomini sani partecipanti allo studio di coorte Health Professionals Follow-Up Study, confrontandolo con quello dei dolcificanti presenti nelle bevande dietetiche, o light.
I dati, estrapolati mediante il questionario di anamnesi alimentare FFQ , sono stati valutati secondo l’incidenza del diabete mellito di tipo 2.
Nei venti anni di follow-up sono emersi, in totale, 2680 nuovi casi di diabete di tipo 2.
Dall’analisi multivariata, che prevedeva la correzione dei dati con tutti i fattori confondenti - storia familiare, assetto multivitaminico, ipertrigliceridemia al tempo 0, ipertensione arteriosa, assunzione di diuretici, variazioni di peso prima dell’arruolamento, tipo di dieta, assunzione energetica totale quotidiana e variazioni del BMI– è emerso che l’incidenza del diabete di tipo 2 era significativamente più elevata nei forti consumatori di bevande con zucchero.
Nel dettaglio: l’intake dei dolcificanti era associato con il diabete di tipo 2, quando si considerava solo il fattore età; ma nell’analisi multivariata si perdeva la correlazione.
Al contrario, la semplice sostituzione di una tazza di caffè zuccherato con una con dolcificante, portava a una riduzione del rischio del 17%.
La relazione tra rischio di diabete e consumo di bevande dolcificate, quindi, appare significativa solo nelle persone che prima dell’arruolamento mostravano una dieta e uno stato nutrizionale predisponente.
Autore: Sugar-sweetened and artificially sweetened beverage consumption and risk of type 2 diabetes in men.
Fonte: Am J Clin Nutr. 2011 Jun;93(6):1321-7. Epub 2011 Mar 23.
Perchè è più difficile curare il paziente obeso ?
Limiti e ostacoli delle terapie farmacologiche in presenza del sovrappeso
Il trattamento farmacologico dei pazienti sovrappeso ed obesi pone incertezze cliniche non certo di poca importanza.
L’efficacia e sicurezza di numerosi farmaci sono infatti compromesse in presenza di un aumento del volume corporeo.
Tuttavia, non esiste sufficiente informazione e consapevolezza riguardo la distinta azione dei farmaci nell’obesità.
Le etichette e i fogli descrittivi dei prodotti forniscono limitate indicazioni per l’utilizzo e il dosaggio dei farmaci in questa categoria di pazienti.
L’obesità raduna una serie di fattori di rischio per numerosi disturbi cronici e la fisiologia del paziente sovrappeso presenta significative alterazioni del flusso sanguigno regionale, della gittata cardiaca e delle componenti di massa grassa e magra corporea. Queste, ed altre, situazioni patofisiologiche influenzano le proprietà farmaco cinetiche e farmaco dinamiche dei farmaci, per i quali possono essere richieste correzioni del dosaggio, spesso su base individuale.
Nell’obesità è tipico l’aumento del grasso sottocutaneo e l’assorbimento di un farmaco somministrato per via transdermica o intramuscolare può risentirne largamente. Anche l’assorbimento orale dei farmaci è compromesso nei pazienti obesi per via dello svuotamento gastrico più rapido e di alterazioni del ricircolo entero-epatico.
La distribuzione del farmaco dipende dalle proprietà fisico-chimiche della sostanza come il suo peso molecolare, la solubilità lipidica, il legame con proteine plasmatiche e dei tessuti e la capacità di attraversare le membrane biologiche.
L’obesità è caratterizzata da un’alterazione delle proteine plasmatiche e da una ridotta perfusione tessutale. L’alterazione di questi ed altri parametri influenza la disponibilità del farmaco nell’organismo. Il volume di distribuzione è un’altro importante parametro farmaco cinetico alterato nei pazienti obesi.
Nel caso dell’obesità severa, l’infiltrazione grassa del fegato può compromettere la funzionalità dell’organo causando un aumento del metabolismo dei farmaci ad opera di enzimi detossificanti appartenenti alla famiglia dei citocromi.
Inoltre, nei soggetti obesi, è stata descritta un’elevata attività epatica di modificazione dei farmaci attraverso glucuronidazione e solfatazione.
Infine, il sovrappeso sembra modificare la fisiologia del rene influenzando i processi di filtrazione glomerulare, secrezione tubulare e di riassorbimento.
L’impatto dell’obesità sulle proprietà farmacodinamiche dei farmaci, ossia sugli effetti delle sostanze, sembra dipendere da fattori di tipo genetico e da cambiamenti fisiologici e nutrizionali legati alla patologia.
Un’indagine condotta tra i nuovi principi farmaceutici approvati dalla FDA tra il 2004 e 2010 ha rivelato che su 137 prodotti analizzati solo due riportavano informazioni sulla sicurezza, l’efficacia, la farmacocinetica e il dosaggio relativo ai soggetti sovrappeso.
Una seconda ricerca, estesa a tutto il prontuario farmaceutico, ha identificato 72 prodotti per i quali l’obesità veniva semplicemente descritta come “potenziale fattore di rischio” per eventi cardiovascolari e disordini metabolici come acidosi lattica e diabete.
Investigando le procedure di approvazione per la sicurezza clinica a cui vengono sottoposti i nuovi farmaci è emerso che i trial coinvolgono, generalmente, solo soggetti obesi di classe I e quasi nessun individuo di classe II e III severamente obeso.
Inoltre non esiste un descrittore della dimensione corporea condiviso su cui basare le raccomandazioni di dosaggio dei farmaci nei pazienti obesi.
Solo alcune aree terapeutiche considerano all’impatto dell’obesità sull’efficacia e la sicurezza dei trattamenti farmacologici.
I contraccettivi orali, utilizzati dalle donne indipendentemente dal proprio status corporeo, possono presentare una limitata efficacia in presenza di un eccessivo volume corporeo. Inoltre, l’obesità costituisce di per se un fattore di rischio per la trombosi e dunque la prescrizione di contraccettivi orali in donne con indice di massa corporea (BMI) superiore a 25 kg/m2 può costituire un forte rischio.
La terapia ormonale sostitutiva per la cura dei sintomi della menopausa nelle donne obese richiede particolare attenzione per il potenziale rischio di patologie cardiovascolari, tromboembolismo venoso e tumore al seno associato alla terapia farmacologica e favorito ulteriorimente dal sovrappeso.
Infine, il trattamento di alcune patologie infettive nei pazienti obesi presuppone una chiara comprensione dell’impatto dell’obesità sui farmaci antimicrobici, necessaria per raggiungere la massima efficacia e sicurezza della terapia.
Il principale ostacolo all terapie farmacologiche nell’obesità è dovuto al fatto che le linee guida per lo sviluppo e la valutazione della sicurezza di nuovi prodotti farmaceutici non prevedono l’inclusione di differenti categorie di pazienti obesi nei trial e la valutazione dell’impatto del sovrappeso sulle proprietà cinetiche e dinamiche dei farmaci è largamnente trascurata.
Per superare questo limite intrinseco è necessario operare valutazioni sistematiche seguendo specifici gruppi di soggetti con diversi gradi di insufficienza renale o epatica durante tutte le fasi di studio di una nuova preparazione. Solo in questo modo sarà resa possibile l’ottimizzazione del dosaggio e l’individualizzazione delle terapie farmacologiche nei pazienti obesi.
Autore: R Jain S M Chung L Jain M Khurana, S W J Lau, J E Lee, J Vaidyanathan, I Zadezensky, S Choe and C G Sahajwalla
Fonte: Clinical Pharmacology & Therapeutics (2011)
Il trattamento farmacologico dei pazienti sovrappeso ed obesi pone incertezze cliniche non certo di poca importanza.
L’efficacia e sicurezza di numerosi farmaci sono infatti compromesse in presenza di un aumento del volume corporeo.
Tuttavia, non esiste sufficiente informazione e consapevolezza riguardo la distinta azione dei farmaci nell’obesità.
Le etichette e i fogli descrittivi dei prodotti forniscono limitate indicazioni per l’utilizzo e il dosaggio dei farmaci in questa categoria di pazienti.
L’obesità raduna una serie di fattori di rischio per numerosi disturbi cronici e la fisiologia del paziente sovrappeso presenta significative alterazioni del flusso sanguigno regionale, della gittata cardiaca e delle componenti di massa grassa e magra corporea. Queste, ed altre, situazioni patofisiologiche influenzano le proprietà farmaco cinetiche e farmaco dinamiche dei farmaci, per i quali possono essere richieste correzioni del dosaggio, spesso su base individuale.
Nell’obesità è tipico l’aumento del grasso sottocutaneo e l’assorbimento di un farmaco somministrato per via transdermica o intramuscolare può risentirne largamente. Anche l’assorbimento orale dei farmaci è compromesso nei pazienti obesi per via dello svuotamento gastrico più rapido e di alterazioni del ricircolo entero-epatico.
La distribuzione del farmaco dipende dalle proprietà fisico-chimiche della sostanza come il suo peso molecolare, la solubilità lipidica, il legame con proteine plasmatiche e dei tessuti e la capacità di attraversare le membrane biologiche.
L’obesità è caratterizzata da un’alterazione delle proteine plasmatiche e da una ridotta perfusione tessutale. L’alterazione di questi ed altri parametri influenza la disponibilità del farmaco nell’organismo. Il volume di distribuzione è un’altro importante parametro farmaco cinetico alterato nei pazienti obesi.
Nel caso dell’obesità severa, l’infiltrazione grassa del fegato può compromettere la funzionalità dell’organo causando un aumento del metabolismo dei farmaci ad opera di enzimi detossificanti appartenenti alla famiglia dei citocromi.
Inoltre, nei soggetti obesi, è stata descritta un’elevata attività epatica di modificazione dei farmaci attraverso glucuronidazione e solfatazione.
Infine, il sovrappeso sembra modificare la fisiologia del rene influenzando i processi di filtrazione glomerulare, secrezione tubulare e di riassorbimento.
L’impatto dell’obesità sulle proprietà farmacodinamiche dei farmaci, ossia sugli effetti delle sostanze, sembra dipendere da fattori di tipo genetico e da cambiamenti fisiologici e nutrizionali legati alla patologia.
Un’indagine condotta tra i nuovi principi farmaceutici approvati dalla FDA tra il 2004 e 2010 ha rivelato che su 137 prodotti analizzati solo due riportavano informazioni sulla sicurezza, l’efficacia, la farmacocinetica e il dosaggio relativo ai soggetti sovrappeso.
Una seconda ricerca, estesa a tutto il prontuario farmaceutico, ha identificato 72 prodotti per i quali l’obesità veniva semplicemente descritta come “potenziale fattore di rischio” per eventi cardiovascolari e disordini metabolici come acidosi lattica e diabete.
Investigando le procedure di approvazione per la sicurezza clinica a cui vengono sottoposti i nuovi farmaci è emerso che i trial coinvolgono, generalmente, solo soggetti obesi di classe I e quasi nessun individuo di classe II e III severamente obeso.
Inoltre non esiste un descrittore della dimensione corporea condiviso su cui basare le raccomandazioni di dosaggio dei farmaci nei pazienti obesi.
Solo alcune aree terapeutiche considerano all’impatto dell’obesità sull’efficacia e la sicurezza dei trattamenti farmacologici.
I contraccettivi orali, utilizzati dalle donne indipendentemente dal proprio status corporeo, possono presentare una limitata efficacia in presenza di un eccessivo volume corporeo. Inoltre, l’obesità costituisce di per se un fattore di rischio per la trombosi e dunque la prescrizione di contraccettivi orali in donne con indice di massa corporea (BMI) superiore a 25 kg/m2 può costituire un forte rischio.
La terapia ormonale sostitutiva per la cura dei sintomi della menopausa nelle donne obese richiede particolare attenzione per il potenziale rischio di patologie cardiovascolari, tromboembolismo venoso e tumore al seno associato alla terapia farmacologica e favorito ulteriorimente dal sovrappeso.
Infine, il trattamento di alcune patologie infettive nei pazienti obesi presuppone una chiara comprensione dell’impatto dell’obesità sui farmaci antimicrobici, necessaria per raggiungere la massima efficacia e sicurezza della terapia.
Il principale ostacolo all terapie farmacologiche nell’obesità è dovuto al fatto che le linee guida per lo sviluppo e la valutazione della sicurezza di nuovi prodotti farmaceutici non prevedono l’inclusione di differenti categorie di pazienti obesi nei trial e la valutazione dell’impatto del sovrappeso sulle proprietà cinetiche e dinamiche dei farmaci è largamnente trascurata.
Per superare questo limite intrinseco è necessario operare valutazioni sistematiche seguendo specifici gruppi di soggetti con diversi gradi di insufficienza renale o epatica durante tutte le fasi di studio di una nuova preparazione. Solo in questo modo sarà resa possibile l’ottimizzazione del dosaggio e l’individualizzazione delle terapie farmacologiche nei pazienti obesi.
Autore: R Jain S M Chung L Jain M Khurana, S W J Lau, J E Lee, J Vaidyanathan, I Zadezensky, S Choe and C G Sahajwalla
Fonte: Clinical Pharmacology & Therapeutics (2011)
Grassi polinsaturi e sindrome metabolica
« La qualità dei grassi introdotti con la dieta può influenzare lo sviluppo della sindrome metabolica »
Un eccesso di grasso corporeo, in particolare quello accumulato in sede addominale, può alterare l’equilibrio del metabolismo glucidico e lipidico e così causare iperinsulinemia o resistenza all’insulina.
Questa situazione può favorire l’insorgenza del diabete o di una malattia plurifattoriale conosciuta come sindrome metabolica.
La sindrome metabolica descrive infatti l’insieme dei seguenti fattori di rischio per le malattie cardiocircolatorie: obesità addominale, dislipidemia, resistenza all’insulina e ipertensione.
I soggetti affetti da sindrome metabolica presentano un elevato grado di stress ossidativo e infiammazione e la qualità dei grassi introdotti con la dieta sembra essere implicata nello sviluppo di questa condizione.
Gli alimenti contengono combinazioni di diversi tipi di acidi grassi, le cui proprietà dipendono dalla struttura chimica e dal numero di molecole di cui sono composti. Esistono tre tipi principali di acidi grassi: saturi, monoinsaturi e polinsaturi, presenti in quantità differenti nei cibi.
Normalmente si ritiene che i grassi saturi siano associati ad un elevato contenuto di colesterolo LDL "cattivo" nel sangue, quest’ultimo correlato ad un alto rischio di sviluppare malattie cardiocircolatorie.
I grassi monoinsaturi e polinsaturi sono invece considerati più salutari.
L’olio d’oliva ed altri oli vegetali sono ricche fonti di grassi monoinsaturi e polinsaturi. Un altro tipo di lipidi sono gli acidi grassi polinsaturi a catena lunga n-3 che si trovano nel pesce.
L’impatto dei diversi tipi di grassi sulla malattia è stato valutato mediante un intervento comportamentale di modifica del tipo di acidi grassi introdotti con la dieta. Lo studio ha analizzato l’effetto della riduzione del consumo di grassi saturi, alterando isoenergeticamente la qualità dei lipidi, sui fattori di rischio associati alla sindrome metabolica.
I risultati sono stati raccolti dallo studio Lipgene, un’analisi multicentrica internazionale conclusasi nel 2009 che ha investigato il ruolo dei grassi saturi sui fattori di rischio molecolari e metabolici della sindrome metabolica e l’impatto di alcuni comuni polimorfismi, varianti geniche diffuse nella popolazione sulla risposta alla terapia alimentare.
Lo studio ha coinvolto 417 partecipanti di entrambi i sessi con indice di massa corporea (BMI) incluso tra 20-40 kg/m2 provenienti da 8 paesi europei.
I partecipanti sono stati assegnati casualmente ad una di quattro diversi programmi alimentari isoenergetici che si differenziavano per la qualità e quantità dei grassi contenuti. I programmi prevedevano: una dieta con elevate quantità di acidi grassi saturi, una ad elevato contenuto di grassi monoinsaturi, due diete a basso contenuto di grassi ricche in carboidrati complessi e supplementate con grassi polinsaturi a lunga catena n-3.
La resistenza ad insulina è stata valutata attraverso test intravenoso di tolleranza al glucosio. Inoltre sono stati valutati alcuni marker lipidici e dell’infiammazione associati alla sindrome metabolica - metabolismo delle lipoproteine, profili infiammatori delle citochine, fattori della coagulazione e della fibrinolisi e lo stato ossidativi.
Nei soggetti affetti da sindrome metabolica la riduzione del consumo di grassi saturi non aveva alcun impatto né sulla resistenza ad insulina nè sulle concentrazioni di lipoproteine a bassa densità e colesterolo, né sui marker dell’infiammazione.
Le diete a basso contenuto in grassi hanno invece permesso di ridurre le concentrazioni plasmatiche di triacilgliceroli e acidi grassi non esterificati, specialmente negli uomini.
La supplementazione di grassi polinsaturi a lunga catena n-3 in associazione ad un dieta a basso contenuto di grassi sembra dunque la strategia alimentare più indicata per prevenire l’insorgenza della sindrome e per migliorare il profilo della malattia nei soggetti che presentano i fattori di rischio cardiovascolare.
Autore: A C Tierney, J McMonagle, D I Shaw, H L Gulseth, O Helal, W H M Saris, J A Paniagua, C Defoort, C M Williams, B Vessby, A Dembinska-Kiec, E E Blaak, C A Drevon, M J Gibney, J A Lovegrove and H M Roc
Fonte: International Journal of Obesity 35, June 2011
Un eccesso di grasso corporeo, in particolare quello accumulato in sede addominale, può alterare l’equilibrio del metabolismo glucidico e lipidico e così causare iperinsulinemia o resistenza all’insulina.
Questa situazione può favorire l’insorgenza del diabete o di una malattia plurifattoriale conosciuta come sindrome metabolica.
La sindrome metabolica descrive infatti l’insieme dei seguenti fattori di rischio per le malattie cardiocircolatorie: obesità addominale, dislipidemia, resistenza all’insulina e ipertensione.
I soggetti affetti da sindrome metabolica presentano un elevato grado di stress ossidativo e infiammazione e la qualità dei grassi introdotti con la dieta sembra essere implicata nello sviluppo di questa condizione.
Gli alimenti contengono combinazioni di diversi tipi di acidi grassi, le cui proprietà dipendono dalla struttura chimica e dal numero di molecole di cui sono composti. Esistono tre tipi principali di acidi grassi: saturi, monoinsaturi e polinsaturi, presenti in quantità differenti nei cibi.
Normalmente si ritiene che i grassi saturi siano associati ad un elevato contenuto di colesterolo LDL "cattivo" nel sangue, quest’ultimo correlato ad un alto rischio di sviluppare malattie cardiocircolatorie.
I grassi monoinsaturi e polinsaturi sono invece considerati più salutari.
L’olio d’oliva ed altri oli vegetali sono ricche fonti di grassi monoinsaturi e polinsaturi. Un altro tipo di lipidi sono gli acidi grassi polinsaturi a catena lunga n-3 che si trovano nel pesce.
L’impatto dei diversi tipi di grassi sulla malattia è stato valutato mediante un intervento comportamentale di modifica del tipo di acidi grassi introdotti con la dieta. Lo studio ha analizzato l’effetto della riduzione del consumo di grassi saturi, alterando isoenergeticamente la qualità dei lipidi, sui fattori di rischio associati alla sindrome metabolica.
I risultati sono stati raccolti dallo studio Lipgene, un’analisi multicentrica internazionale conclusasi nel 2009 che ha investigato il ruolo dei grassi saturi sui fattori di rischio molecolari e metabolici della sindrome metabolica e l’impatto di alcuni comuni polimorfismi, varianti geniche diffuse nella popolazione sulla risposta alla terapia alimentare.
Lo studio ha coinvolto 417 partecipanti di entrambi i sessi con indice di massa corporea (BMI) incluso tra 20-40 kg/m2 provenienti da 8 paesi europei.
I partecipanti sono stati assegnati casualmente ad una di quattro diversi programmi alimentari isoenergetici che si differenziavano per la qualità e quantità dei grassi contenuti. I programmi prevedevano: una dieta con elevate quantità di acidi grassi saturi, una ad elevato contenuto di grassi monoinsaturi, due diete a basso contenuto di grassi ricche in carboidrati complessi e supplementate con grassi polinsaturi a lunga catena n-3.
La resistenza ad insulina è stata valutata attraverso test intravenoso di tolleranza al glucosio. Inoltre sono stati valutati alcuni marker lipidici e dell’infiammazione associati alla sindrome metabolica - metabolismo delle lipoproteine, profili infiammatori delle citochine, fattori della coagulazione e della fibrinolisi e lo stato ossidativi.
Nei soggetti affetti da sindrome metabolica la riduzione del consumo di grassi saturi non aveva alcun impatto né sulla resistenza ad insulina nè sulle concentrazioni di lipoproteine a bassa densità e colesterolo, né sui marker dell’infiammazione.
Le diete a basso contenuto in grassi hanno invece permesso di ridurre le concentrazioni plasmatiche di triacilgliceroli e acidi grassi non esterificati, specialmente negli uomini.
La supplementazione di grassi polinsaturi a lunga catena n-3 in associazione ad un dieta a basso contenuto di grassi sembra dunque la strategia alimentare più indicata per prevenire l’insorgenza della sindrome e per migliorare il profilo della malattia nei soggetti che presentano i fattori di rischio cardiovascolare.
Autore: A C Tierney, J McMonagle, D I Shaw, H L Gulseth, O Helal, W H M Saris, J A Paniagua, C Defoort, C M Williams, B Vessby, A Dembinska-Kiec, E E Blaak, C A Drevon, M J Gibney, J A Lovegrove and H M Roc
Fonte: International Journal of Obesity 35, June 2011
Microflora intestinale e peso corporeo
« La qualità della dieta influenza la composizione della microflora intestinale e l’assorbimento dei nutrienti con implicazioni anche sul controllo del peso corporeo »
La qualità della dieta influenza la composizione della microflora intestinale e l’assorbimento dei nutrienti con implicazioni anche sul controllo del peso corporeo.
Analizzando la composizione della flora intestinale di 9 uomini obesi e paragonandola a quella di 12 uomini magri, si è visto che la popolazione batterica intestinale cambiava in funzione delle calorie consumate e in un tempo relativamente breve.
L’assorbimento dei nutrienti appare rapidamente influenzato da queste variazioni.
L’iperalimentazione sembra indurre l’incremento del 20% dei batteri gram positivi Firmicutes, rispetto ai Bacteroidetes che invece decrescono, e la variazione del rapporto comporterebbe un maggior assorbimento calorico, pari a 150 calorie.
L’evidenza, quindi, ipotizza che il maggior assorbimento di calorie nell’obesità è facilitato dalla peculiare flora intestinale ed è anche tale da tradursi in un minor costo per la termogenesi indotta dalla dieta. Adottando una dieta ipocalorica, il rapporto tra Firmicutes e Bacteroidetes s’inverte e, con esso, si riduce la capacità intestinale di assorbire calorie e aumenta l’energia persa con le feci. Di conseguenza, non avendo nella routine ambulatoriale la possibilità di monitorare la flora delle feci e dell’intestino, si dovrebbe porre attenzione al bilancio energetico individuale e pertanto gioverebbe analizzare con la calorimetria indiretta il REE (Resting Expenditure Energy) dopo 4 ore dal pasto.
Fonte:
http://www.nutraingredients-usa.com/Research/Study-highlights-role-of-gut-bacteria-for-nutrient-harvest-and-weight-gain
Fonte: Study highlights role of gut bacteria for nutrient harvest and weight gain
La qualità della dieta influenza la composizione della microflora intestinale e l’assorbimento dei nutrienti con implicazioni anche sul controllo del peso corporeo.
Analizzando la composizione della flora intestinale di 9 uomini obesi e paragonandola a quella di 12 uomini magri, si è visto che la popolazione batterica intestinale cambiava in funzione delle calorie consumate e in un tempo relativamente breve.
L’assorbimento dei nutrienti appare rapidamente influenzato da queste variazioni.
L’iperalimentazione sembra indurre l’incremento del 20% dei batteri gram positivi Firmicutes, rispetto ai Bacteroidetes che invece decrescono, e la variazione del rapporto comporterebbe un maggior assorbimento calorico, pari a 150 calorie.
L’evidenza, quindi, ipotizza che il maggior assorbimento di calorie nell’obesità è facilitato dalla peculiare flora intestinale ed è anche tale da tradursi in un minor costo per la termogenesi indotta dalla dieta. Adottando una dieta ipocalorica, il rapporto tra Firmicutes e Bacteroidetes s’inverte e, con esso, si riduce la capacità intestinale di assorbire calorie e aumenta l’energia persa con le feci. Di conseguenza, non avendo nella routine ambulatoriale la possibilità di monitorare la flora delle feci e dell’intestino, si dovrebbe porre attenzione al bilancio energetico individuale e pertanto gioverebbe analizzare con la calorimetria indiretta il REE (Resting Expenditure Energy) dopo 4 ore dal pasto.
Fonte:
http://www.nutraingredients-usa.com/Research/Study-highlights-role-of-gut-bacteria-for-nutrient-harvest-and-weight-gain
Fonte: Study highlights role of gut bacteria for nutrient harvest and weight gain
Troppa televisione fa male al cuore
« Più di due ore giornaliere trascorse di fronte alla tv aumentano il rischio di sviluppare diabete di tipo 2 e patologie cardiovascolari »
I ricercatori della Harvard School of Public Health hanno riscontrato una forte associazione un prolungato tempo trascorso in fronte alla televisione ed il rischio di sviluppo di patologie croniche - diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari - e mortalità prematura.
Il tempo speso davanti ad uno schermo, sia questo quello della televisione o del computer, sarebbe secondo solo a quello trascorso sul posto di lavoro e al sonno.
Buona parte della popolazione dei paesi occidentali divide infatti il proprio tempo tra queste attività. Gli europei trascorrono in media il 40% del proprio tempo libero di fronte alla TV. Questo corrisponde a circa tre o quattro ore di visione, poco meno rispetto alle 5 dell’americano medio.
L’impatto di questi comportamenti a rischio sullo sviluppo di patologie croniche è stato investigati in precedenti studi che hanno considerato anche l’ulteriore associazione con i livelli di attività fisica e le abitudini alimentari scorrette.
Gli autori del presente studio hanno condotto una metanalisi, ovvero una revisione sistematica della letteratura pubblicata tra il 1970 e il 2011 riguardante l’associazione tra il tempo trascorso di fronte alla TV e il rischio di diabete, patologie cardiovascolari e mortalità.
La bibliografia di riferimento è stata selezionata attraverso una ricerca sul database MEDLINE dal 1970 fino a marzo 2011 e su EMBASE dal 1974 fino marzo 2011 includendo solo gli studi di coorte che riportavano stime del rischio relativo con intervalli di confidenza del 95% per le associazioni di interesse.
I dati sono stati estratti indipendentemente dall’autore e le stime sommarie delle associazioni ottenute utilizzando un modello random-effects.
La ricerca ha selezionato otto vasti studi prospettici di popolazione di produzione americana, europea e australiana.
Lo studio è stato pubblicato sul Journal of the American Medical Association.
Dai risultati è emerso che più di due ore giornaliere trascorse di fronte alla tv aumentano il rischio di sviluppare diabete di tipo 2 e patologie cardiovascolari.
L’associazione tra il tempo trascorso di fronte alla televisione ed il rischio di patologie croniche era lineare mentre la mortalità per qualsiasi aumentava per una durata superiore a 3 ore al giorno. Per ogni due ore aggiuntive di tv, il rischio di patologie croniche e mortalità prematura aumentavano infatti del 20, 15, e 13% rispettivamente.
Gli effetti deleteri di un tempo eccessivo trascorso di fronte allo schermo sull’incidenza di diabete sono in parte spiegati dalle scorrette abitudini alimentari e dall’elevata sedentarietà promossi da questo comportamento.
Entrambi i fattori sono riconosciuti elementi di rischio alla base della patogenesi del diabete e delle patologie cardiovascolari.
Per contrastare la diffusione sempre più preoccupante di questi disturbi cronici non basterebbe solamente promuovere l’attività fisica ma occorrerebbe anche sottrarre tempo a queste abitudini insalubri.
La ricerca futura dovrà inoltre considerare gli effetti dell’uso prolungato dei nuovi dispositivi e delle applicazioni mediatiche basate sulla rete - smartphone, laptop e palmari - sull’equilibrio energetico e il rischio di sviluppo di patologie croniche.
Autore: Grøntved A, Hu FB.
Fonte: JAMA 2011; 3058(23):2448-2455
I ricercatori della Harvard School of Public Health hanno riscontrato una forte associazione un prolungato tempo trascorso in fronte alla televisione ed il rischio di sviluppo di patologie croniche - diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari - e mortalità prematura.
Il tempo speso davanti ad uno schermo, sia questo quello della televisione o del computer, sarebbe secondo solo a quello trascorso sul posto di lavoro e al sonno.
Buona parte della popolazione dei paesi occidentali divide infatti il proprio tempo tra queste attività. Gli europei trascorrono in media il 40% del proprio tempo libero di fronte alla TV. Questo corrisponde a circa tre o quattro ore di visione, poco meno rispetto alle 5 dell’americano medio.
L’impatto di questi comportamenti a rischio sullo sviluppo di patologie croniche è stato investigati in precedenti studi che hanno considerato anche l’ulteriore associazione con i livelli di attività fisica e le abitudini alimentari scorrette.
Gli autori del presente studio hanno condotto una metanalisi, ovvero una revisione sistematica della letteratura pubblicata tra il 1970 e il 2011 riguardante l’associazione tra il tempo trascorso di fronte alla TV e il rischio di diabete, patologie cardiovascolari e mortalità.
La bibliografia di riferimento è stata selezionata attraverso una ricerca sul database MEDLINE dal 1970 fino a marzo 2011 e su EMBASE dal 1974 fino marzo 2011 includendo solo gli studi di coorte che riportavano stime del rischio relativo con intervalli di confidenza del 95% per le associazioni di interesse.
I dati sono stati estratti indipendentemente dall’autore e le stime sommarie delle associazioni ottenute utilizzando un modello random-effects.
La ricerca ha selezionato otto vasti studi prospettici di popolazione di produzione americana, europea e australiana.
Lo studio è stato pubblicato sul Journal of the American Medical Association.
Dai risultati è emerso che più di due ore giornaliere trascorse di fronte alla tv aumentano il rischio di sviluppare diabete di tipo 2 e patologie cardiovascolari.
L’associazione tra il tempo trascorso di fronte alla televisione ed il rischio di patologie croniche era lineare mentre la mortalità per qualsiasi aumentava per una durata superiore a 3 ore al giorno. Per ogni due ore aggiuntive di tv, il rischio di patologie croniche e mortalità prematura aumentavano infatti del 20, 15, e 13% rispettivamente.
Gli effetti deleteri di un tempo eccessivo trascorso di fronte allo schermo sull’incidenza di diabete sono in parte spiegati dalle scorrette abitudini alimentari e dall’elevata sedentarietà promossi da questo comportamento.
Entrambi i fattori sono riconosciuti elementi di rischio alla base della patogenesi del diabete e delle patologie cardiovascolari.
Per contrastare la diffusione sempre più preoccupante di questi disturbi cronici non basterebbe solamente promuovere l’attività fisica ma occorrerebbe anche sottrarre tempo a queste abitudini insalubri.
La ricerca futura dovrà inoltre considerare gli effetti dell’uso prolungato dei nuovi dispositivi e delle applicazioni mediatiche basate sulla rete - smartphone, laptop e palmari - sull’equilibrio energetico e il rischio di sviluppo di patologie croniche.
Autore: Grøntved A, Hu FB.
Fonte: JAMA 2011; 3058(23):2448-2455
Lo stile italiano a tavola previene l'ictus
« La dieta italiana mediterranea fornisce protezione contro il rischio di patologie cerebrovascolari »
L’infarto ischemico cerebrale, o ictus, è una patologia favorita da cattive abitudini alimentari e stili di vita scorretti, primo fra tutti il fumo di sigaretta.
Le diete che includono cibi grassi e sono povere in alimenti di origine vegetale predispongono all'aterosclerosi, la principale causa di ischemia cardiaca e cerebrale.
La dieta mediterranea, abbondante in olio di oliva, pesce, cereali integrali, frutta e verdura, è invece associata ad una bassa incidenza di patologie croniche cardiovascolari.
Questo regime alimentare offre protezione per le strutture vascolari in quanto ricca in sostanze antiossidanti che contrastano i processi l'infiammatori coinvolti nella patogenesi dell’infarto ischemico cerebrale.
Un recente studio italiano ha investigato l’associazione tra l’incidenza di ictus e l’aderenza regolare ad uno dei quattro seguenti regimi alimentari: l’Healthy Eating Index 2005 (HEI-2005) basato linee guida alimentari statunitensi, la dieta Dietary Approaches to Stop Hypertension (DASH) sviluppata per la prevenzione dell’ipertensione e le versioni greca ed italiana della dieta mediterranea (Greek Mediterranean Index e Italian Mediterranean Index).
Lo studio, denominato EPICOR ed allestito per rispondere a quesiti di ordine eziologico e patogenetico sulle malattie cardiovascolari, è parte del più esteso studio prospettico epidemiologico sulle cause del cancro in Europa, EPIC (European Investigation into Cancer and Nutrition), nato dalla collaborazione fra centri internazionali e caratterizzato da un’elevata qualità di rilevazione delle informazioni e dei dati sullo stile di vita, soprattutto alimentare.
Il progetto cardiovascolare ha già fornito importanti, seppur preliminari, indicazioni sulla relazione tra abitudini alimentari e malattie cardiovascolari in Italia raccolte da circa 50.000 persone residenti in varie aree italiane tra cui Torino, Varese, Firenze, Napoli e Ragusa.
Dopo una periodo medio di 7,9 anni, dallo studio è emerso che tre delle diete considerate, ad eccezione fatta dell’HEI, offrivano protezione per il rischio di ictus a differente eziologia, è proprio quella italiana presentava l’associazione più forte [HR = 0.47 (95%CI = 0.30-0.75); terzo vs.primo terzile].
Tutti i regimi alimentari erano inversamente associati agli eventi di infarto ischemico, ad esclusione della dieta greca. Anche in questo caso la dieta italiana mostrava l’associazione più forte [HR = 0.37 (95%CI = 0.19-0.70); terzo vs. primo terzile] e solo questo tipo di alimentazione risultava protettiva per l’ictus emorragico [HR = 0.51 (95%CI = 0.22-1.20); P = 0.07)].
La dieta sul modello mediterraneo italiano offre dunque una maggiore protezione sul rischio di ictus a differente eziologia. Questa situazione, nel nostro paese, è favorita dalla larga disponibilità di prodotti inclusi nel regime alimentare considerato e da una tendenza culturalmente orientata al consumo di questi cibi.
Autore: Agnoli C, Krogh V, Grioni S, Sieri S, Palli D, Masala G, Sacerdote C, Vineis P, Tumino R, Frasca G, Pala V, Berrino F, Chiodini P, Mattiello A, Panico S.
Fonte: J Nutr. 2011 May 31.
L’infarto ischemico cerebrale, o ictus, è una patologia favorita da cattive abitudini alimentari e stili di vita scorretti, primo fra tutti il fumo di sigaretta.
Le diete che includono cibi grassi e sono povere in alimenti di origine vegetale predispongono all'aterosclerosi, la principale causa di ischemia cardiaca e cerebrale.
La dieta mediterranea, abbondante in olio di oliva, pesce, cereali integrali, frutta e verdura, è invece associata ad una bassa incidenza di patologie croniche cardiovascolari.
Questo regime alimentare offre protezione per le strutture vascolari in quanto ricca in sostanze antiossidanti che contrastano i processi l'infiammatori coinvolti nella patogenesi dell’infarto ischemico cerebrale.
Un recente studio italiano ha investigato l’associazione tra l’incidenza di ictus e l’aderenza regolare ad uno dei quattro seguenti regimi alimentari: l’Healthy Eating Index 2005 (HEI-2005) basato linee guida alimentari statunitensi, la dieta Dietary Approaches to Stop Hypertension (DASH) sviluppata per la prevenzione dell’ipertensione e le versioni greca ed italiana della dieta mediterranea (Greek Mediterranean Index e Italian Mediterranean Index).
Lo studio, denominato EPICOR ed allestito per rispondere a quesiti di ordine eziologico e patogenetico sulle malattie cardiovascolari, è parte del più esteso studio prospettico epidemiologico sulle cause del cancro in Europa, EPIC (European Investigation into Cancer and Nutrition), nato dalla collaborazione fra centri internazionali e caratterizzato da un’elevata qualità di rilevazione delle informazioni e dei dati sullo stile di vita, soprattutto alimentare.
Il progetto cardiovascolare ha già fornito importanti, seppur preliminari, indicazioni sulla relazione tra abitudini alimentari e malattie cardiovascolari in Italia raccolte da circa 50.000 persone residenti in varie aree italiane tra cui Torino, Varese, Firenze, Napoli e Ragusa.
Dopo una periodo medio di 7,9 anni, dallo studio è emerso che tre delle diete considerate, ad eccezione fatta dell’HEI, offrivano protezione per il rischio di ictus a differente eziologia, è proprio quella italiana presentava l’associazione più forte [HR = 0.47 (95%CI = 0.30-0.75); terzo vs.primo terzile].
Tutti i regimi alimentari erano inversamente associati agli eventi di infarto ischemico, ad esclusione della dieta greca. Anche in questo caso la dieta italiana mostrava l’associazione più forte [HR = 0.37 (95%CI = 0.19-0.70); terzo vs. primo terzile] e solo questo tipo di alimentazione risultava protettiva per l’ictus emorragico [HR = 0.51 (95%CI = 0.22-1.20); P = 0.07)].
La dieta sul modello mediterraneo italiano offre dunque una maggiore protezione sul rischio di ictus a differente eziologia. Questa situazione, nel nostro paese, è favorita dalla larga disponibilità di prodotti inclusi nel regime alimentare considerato e da una tendenza culturalmente orientata al consumo di questi cibi.
Autore: Agnoli C, Krogh V, Grioni S, Sieri S, Palli D, Masala G, Sacerdote C, Vineis P, Tumino R, Frasca G, Pala V, Berrino F, Chiodini P, Mattiello A, Panico S.
Fonte: J Nutr. 2011 May 31.
Allarme pillole dimagranti in vendita su internet
« L'allarme è esteso a tutti i presunti prodotti naturali per perdere peso commercializzati in rete »
L’agenzia Swissmedic, l’Istituto Svizzero per i Prodotti Terapeutici, ha messo in guardia per l’esistenza di rimedi erboristici in vendita online contenenti invece sostanze illegali e pericolose.
L’allarme è esteso a tutti i presunti prodotti naturali dimagranti commercializzati in rete.
122 prodotti sequestrati dalle dogane elvetiche nel 2010 sono stati sottoposti a test di laboratorio per analizzarne il contenuto prima della loro distruzione.
Circa il 90% dei prodotti testati, pubblicizzati come rimedi dimagranti naturali contenevano, al contrario, sibutramina e ribonabant, due sostanze illegali in Europa e con pericolosi effetti collaterali.
Le pillole erano vendute a prezzi estremamente bassi e contenevano elevate dosi dei due farmaci.
Alcuni dei prodotti contenevano dosi tre volte superiori a quelle tollerabili di sibutramine, un farmaco antiobesità ritirato dal mercato più di un anno fa perchè con potenziali rischi cardiocircolatori.
Rimonabant, un’altra sostanza ritirata dal commercio per via dell’elevato rapporto rischi/benefici era presente nei prodotti.
Il farmaco viene ancora prodotto, principalmente in Cina, e venduto attraverso siti internet illegali.
Lo scorso anno le autorità svizzere partner di Swissmedic avevano identificato 74 prodotti dimagranti presuntamene erboristici contenenti sibutramina in dosi elevate. I prodotti, di importazione Asiatica, erano presentati come rimedi erborisitici a base di teina e caffeina.
Fonte: Swissmedic
L’agenzia Swissmedic, l’Istituto Svizzero per i Prodotti Terapeutici, ha messo in guardia per l’esistenza di rimedi erboristici in vendita online contenenti invece sostanze illegali e pericolose.
L’allarme è esteso a tutti i presunti prodotti naturali dimagranti commercializzati in rete.
122 prodotti sequestrati dalle dogane elvetiche nel 2010 sono stati sottoposti a test di laboratorio per analizzarne il contenuto prima della loro distruzione.
Circa il 90% dei prodotti testati, pubblicizzati come rimedi dimagranti naturali contenevano, al contrario, sibutramina e ribonabant, due sostanze illegali in Europa e con pericolosi effetti collaterali.
Le pillole erano vendute a prezzi estremamente bassi e contenevano elevate dosi dei due farmaci.
Alcuni dei prodotti contenevano dosi tre volte superiori a quelle tollerabili di sibutramine, un farmaco antiobesità ritirato dal mercato più di un anno fa perchè con potenziali rischi cardiocircolatori.
Rimonabant, un’altra sostanza ritirata dal commercio per via dell’elevato rapporto rischi/benefici era presente nei prodotti.
Il farmaco viene ancora prodotto, principalmente in Cina, e venduto attraverso siti internet illegali.
Lo scorso anno le autorità svizzere partner di Swissmedic avevano identificato 74 prodotti dimagranti presuntamene erboristici contenenti sibutramina in dosi elevate. I prodotti, di importazione Asiatica, erano presentati come rimedi erborisitici a base di teina e caffeina.
Fonte: Swissmedic
Vitamina D nelle donne obese
« Una bassa concentrazione plasmatica di vitamina D potrebbe essere associata al maggior rischio di cancro e di patologie cardiovascolari nelle donne in sovrappeso, o obese. »
Oltre 430 donne in postmenopausa, in sovrappeso o obese, al momento dell’arruolamento erano suddivise in 4 gruppi che ricevevano rispettivamente: il primo solo una dieta ipocalorica, il secondo solo un programma di esercizio fisico , il terzo dieta ipocalorica ed esercizio fisico e, infine, il quarto era il gruppo di controllo.
L’esercizio consisteva in un’attività aerobica per 5 giorni alla settimana, d’intensità oscillante da moderata a vigorosa, della durata di 45 minuti.
Dopo un anno, confrontando i gruppi delle donne sottoposte ai vari programmi d’intervento con le donne del gruppo di controllo, non si rilevavano significativi cambiamenti nei livelli plasmatici della 25-idrossivitamina D.
I risultati: tutte le donne in trattamento calavano di peso (dal 5% fino al 15% rispetto al basale) e il livello della vitamina D cresceva parallelamente all’entità del calo ponderale. Il livello basale della 25-idrossivitamina D non sembra avere influenza sui cambiamenti della composizione corporea e sulla variazione percentuale del peso.
Effects of weight loss on serum vitamin D in postmenopausal women.
Fonte: Am J Clin Nutr. 2011 May 25. [Epub ahead of print]
Oltre 430 donne in postmenopausa, in sovrappeso o obese, al momento dell’arruolamento erano suddivise in 4 gruppi che ricevevano rispettivamente: il primo solo una dieta ipocalorica, il secondo solo un programma di esercizio fisico , il terzo dieta ipocalorica ed esercizio fisico e, infine, il quarto era il gruppo di controllo.
L’esercizio consisteva in un’attività aerobica per 5 giorni alla settimana, d’intensità oscillante da moderata a vigorosa, della durata di 45 minuti.
Dopo un anno, confrontando i gruppi delle donne sottoposte ai vari programmi d’intervento con le donne del gruppo di controllo, non si rilevavano significativi cambiamenti nei livelli plasmatici della 25-idrossivitamina D.
I risultati: tutte le donne in trattamento calavano di peso (dal 5% fino al 15% rispetto al basale) e il livello della vitamina D cresceva parallelamente all’entità del calo ponderale. Il livello basale della 25-idrossivitamina D non sembra avere influenza sui cambiamenti della composizione corporea e sulla variazione percentuale del peso.
Effects of weight loss on serum vitamin D in postmenopausal women.
Fonte: Am J Clin Nutr. 2011 May 25. [Epub ahead of print]
Obesità e depressione, unite nel male e nel bene
« Le due condizioni sono mutualmente legate sia nella patogenesi che nella remissione »
"Obesità e depressione sono due compagni di viaggio, spesso protagonisti di un circolo vizioso."
Le due condizioni possono insorgere e sostenersi vicendevolmente compromettendo significativamente la qualità di vita e rendendo particolarmente arduo l’intervento terapeutico, a qualunque età.
L’esistenza di un disagio psicologico durante l’infanzia è spesso la causa dell’insorgenza dell’obesità nell’adolescenza e, allo stesso modo, il sovrappeso nella giovane età è tipicamente associato a sintomi depressivi nell’età adulta. Le due condizioni sembrano infatti alimentarsi reciprocamente, sia nella loro genesi come nell’evoluzione clinica.
Al contrario, la perdita di peso, sia questa ottenuta attraverso restrizione calorica, attività fisica o chirurgia bariatrica, promuove un recupero dei sintomi depressivi e facilita l’instaurarsi di un circolo virtuoso che conduce al miglioramento del profilo psicologico e fornisce un rinnovato stimolo motivazionale nel raggiungimento di una migliore forma corporea.
Nel presente studio è stata riscontrata una simile associazione tra la perdita di peso, ottenuta con un programma terapeutico comportamentale, e il miglioramento del profilo psicologico in un grosso gruppo di pazienti donne obese con sintomi depressivi.
Le partecipanti sono state assegnate casualmente a due gruppi di trattamento: uno incentrato unicamente sul controllo del peso ed un secondo combinato rivolto anche alla gestione dei sintomi depressivi.
Il programma di riduzione del peso si basava sulla restrizione dell’assunzione calorica e forniva indicazioni comportamentali per controllare gli stimoli alimentari ed incentivare l’attività fisica.
Il programma combinato prevedeva, oltre a quanto sopracitato, un supporto psicoterapeutico di approccio cognitivo-comportamentale per il trattamento della depressione.
Entrambi i programmi si sono svolti in 12 sessioni di gruppo settimanali, 10 bisettimanali e 4 mensili.
A distanza di sei mesi dall’inizio trattamento, il 31% delle partecipanti ha ridotto il proprio peso corporeo almeno del 5%, indipendentemente dal programma assegnato.
Analizzando i risultati dal punto di vista del miglioramento del profilo psicologico, valutato come riduzione di almeno mezza unità nel punteggio del test per la depressione autosomministrato PHQ-9, il numero di pazienti che hanno ridotto il proprio peso almeno del 5% unitamente ad un recupero dei sintomi depressivi è stato quasi doppio (38%) rispetto alle partecipanti che non hanno riportato un significativo miglioramento del profilo psicologico (21%).
Inoltre, il parziale recupero dei sintomi depressivi si accompagnava ad un incremento dei livelli di attività fisica, necessari al mantenimento del peso raggiunto.
Lo studio ha confermato precedenti osservazioni riguardo l’effetto del miglioramento dei sintomi depressivi sulla facilitazione della riduzione di peso, sottolinenando come le due condizioni siano mutualmente legate sia nella patogenesi che nella remissione.
Autore: Gregory E. Simon M.D., Paul Rohde, Evette J. Ludman, Robert W. Jeffery, Jennifer A. Linde, Belinda H. Operskalski and David Arterburn
Fonte: General Hospital Psychiatry doi:10.1016
"Obesità e depressione sono due compagni di viaggio, spesso protagonisti di un circolo vizioso."
Le due condizioni possono insorgere e sostenersi vicendevolmente compromettendo significativamente la qualità di vita e rendendo particolarmente arduo l’intervento terapeutico, a qualunque età.
L’esistenza di un disagio psicologico durante l’infanzia è spesso la causa dell’insorgenza dell’obesità nell’adolescenza e, allo stesso modo, il sovrappeso nella giovane età è tipicamente associato a sintomi depressivi nell’età adulta. Le due condizioni sembrano infatti alimentarsi reciprocamente, sia nella loro genesi come nell’evoluzione clinica.
Al contrario, la perdita di peso, sia questa ottenuta attraverso restrizione calorica, attività fisica o chirurgia bariatrica, promuove un recupero dei sintomi depressivi e facilita l’instaurarsi di un circolo virtuoso che conduce al miglioramento del profilo psicologico e fornisce un rinnovato stimolo motivazionale nel raggiungimento di una migliore forma corporea.
Nel presente studio è stata riscontrata una simile associazione tra la perdita di peso, ottenuta con un programma terapeutico comportamentale, e il miglioramento del profilo psicologico in un grosso gruppo di pazienti donne obese con sintomi depressivi.
Le partecipanti sono state assegnate casualmente a due gruppi di trattamento: uno incentrato unicamente sul controllo del peso ed un secondo combinato rivolto anche alla gestione dei sintomi depressivi.
Il programma di riduzione del peso si basava sulla restrizione dell’assunzione calorica e forniva indicazioni comportamentali per controllare gli stimoli alimentari ed incentivare l’attività fisica.
Il programma combinato prevedeva, oltre a quanto sopracitato, un supporto psicoterapeutico di approccio cognitivo-comportamentale per il trattamento della depressione.
Entrambi i programmi si sono svolti in 12 sessioni di gruppo settimanali, 10 bisettimanali e 4 mensili.
A distanza di sei mesi dall’inizio trattamento, il 31% delle partecipanti ha ridotto il proprio peso corporeo almeno del 5%, indipendentemente dal programma assegnato.
Analizzando i risultati dal punto di vista del miglioramento del profilo psicologico, valutato come riduzione di almeno mezza unità nel punteggio del test per la depressione autosomministrato PHQ-9, il numero di pazienti che hanno ridotto il proprio peso almeno del 5% unitamente ad un recupero dei sintomi depressivi è stato quasi doppio (38%) rispetto alle partecipanti che non hanno riportato un significativo miglioramento del profilo psicologico (21%).
Inoltre, il parziale recupero dei sintomi depressivi si accompagnava ad un incremento dei livelli di attività fisica, necessari al mantenimento del peso raggiunto.
Lo studio ha confermato precedenti osservazioni riguardo l’effetto del miglioramento dei sintomi depressivi sulla facilitazione della riduzione di peso, sottolinenando come le due condizioni siano mutualmente legate sia nella patogenesi che nella remissione.
Autore: Gregory E. Simon M.D., Paul Rohde, Evette J. Ludman, Robert W. Jeffery, Jennifer A. Linde, Belinda H. Operskalski and David Arterburn
Fonte: General Hospital Psychiatry doi:10.1016
Sindrome da apnee del sonno: meno grasso aiuta
Nei pazienti obesi che soffrono di apnea ostruttiva del sonno, la perdita di peso migliora la condizione respiratoria notturna.
La sindrome da apnee ostruttive del sonno è una condizione piuttosto comune, spesso non diagnosticata e con gravi ripercussioni sulla salute.
Questa situazione può compromettere il livello di attenzione durante il giorno aumentando il rischio di pericolose distrazioni alla guida e di incidenti lavorativi e determinando un peggiomento globale della qualità di vita.
La sindrome è tipica degli individui sovrappeso e obesi e numerose osservazioni cliniche hanno dimostrato una relazione tra la riduzione del peso coreporeo ed il miglioramento nell’indice apnea-ipoapnea, la misura del numero totale degli arresti della respirazione e di ostruzioni parziali durante il sonno di almeno 10 secondi. Tuttavia, non è chiaro se gli effetti determinati dalla riduzione del peso vengano mantenuti a lungo termine.
Per valutare questo è stato allestito uno studio in cui individui di età compresa tra 30 e 65 anni obesi affetti sindrome da apnea del sonno moderata e severa (più di 15 eventi all’ora) e trattati con ventilazione meccanica sono stati sottoposti ad un programma alimentare ipocalorico della durata di 9 settimane.
La terapia alimentare è stata seguita da un intervento di mantenimento del peso basato su un programma di educazione alimentare e attività fisica.
Al termine delle 52 settimane del programma completo, nella maggior parte dei partecipanti è stata registrata una significativa riduzione del peso corporeo, della circonferenza dei fianchi e del collo, della percentuale di grasso corporeo ed un miglioramento generale della qualità di vita e di alcuni parametri metabolici tra cui dislipidemia e resistenza ad insulina.
I miglioramenti sono stati maggiori negli individui che soffrivano di apnea severa rispetto a quelli con un a forma lieve.
Inoltre, è stata notata una relazione dose-risposta tra i cambiamenti nell’adiposità e l’indice di apnea.
I pazienti che hanno perso più di 15 kg infatti presentavano, al termine del programma, profili respiratori migliori rispetto a coloro che avevano ridotto il proprio peso corporeo in misura minore. Il miglioramento veniva osservato fino ad un anno di distanza dalla fine del trattamento. In questo modo lo studio infine chiarito l'efficacia nel lungo termine degli effetti della riduzione del peso sulla gravità della sindrome respiratoria.
Autore: Kari Johansson, Erik Hemmingsson, Richard Harlid, Ylva Trolle Lagerros, Fredrik Granath, Stephan Rössner, Martin Neovius
Fonte: BMJ 2011; 342:d3017 doi: 10.1136/bmj.d3017
La sindrome da apnee ostruttive del sonno è una condizione piuttosto comune, spesso non diagnosticata e con gravi ripercussioni sulla salute.
Questa situazione può compromettere il livello di attenzione durante il giorno aumentando il rischio di pericolose distrazioni alla guida e di incidenti lavorativi e determinando un peggiomento globale della qualità di vita.
La sindrome è tipica degli individui sovrappeso e obesi e numerose osservazioni cliniche hanno dimostrato una relazione tra la riduzione del peso coreporeo ed il miglioramento nell’indice apnea-ipoapnea, la misura del numero totale degli arresti della respirazione e di ostruzioni parziali durante il sonno di almeno 10 secondi. Tuttavia, non è chiaro se gli effetti determinati dalla riduzione del peso vengano mantenuti a lungo termine.
Per valutare questo è stato allestito uno studio in cui individui di età compresa tra 30 e 65 anni obesi affetti sindrome da apnea del sonno moderata e severa (più di 15 eventi all’ora) e trattati con ventilazione meccanica sono stati sottoposti ad un programma alimentare ipocalorico della durata di 9 settimane.
La terapia alimentare è stata seguita da un intervento di mantenimento del peso basato su un programma di educazione alimentare e attività fisica.
Al termine delle 52 settimane del programma completo, nella maggior parte dei partecipanti è stata registrata una significativa riduzione del peso corporeo, della circonferenza dei fianchi e del collo, della percentuale di grasso corporeo ed un miglioramento generale della qualità di vita e di alcuni parametri metabolici tra cui dislipidemia e resistenza ad insulina.
I miglioramenti sono stati maggiori negli individui che soffrivano di apnea severa rispetto a quelli con un a forma lieve.
Inoltre, è stata notata una relazione dose-risposta tra i cambiamenti nell’adiposità e l’indice di apnea.
I pazienti che hanno perso più di 15 kg infatti presentavano, al termine del programma, profili respiratori migliori rispetto a coloro che avevano ridotto il proprio peso corporeo in misura minore. Il miglioramento veniva osservato fino ad un anno di distanza dalla fine del trattamento. In questo modo lo studio infine chiarito l'efficacia nel lungo termine degli effetti della riduzione del peso sulla gravità della sindrome respiratoria.
Autore: Kari Johansson, Erik Hemmingsson, Richard Harlid, Ylva Trolle Lagerros, Fredrik Granath, Stephan Rössner, Martin Neovius
Fonte: BMJ 2011; 342:d3017 doi: 10.1136/bmj.d3017
Una pillola per controllare diabete e colesterolo
Una nuova preparazione farmacologica orale da assumere prima dei pasti potrebbe favorire il controllo della glicemia e dei lipidi plasmatici
Un gruppo di ricercatori della Hebrew University di Gerusalemme e Harvard University di Boston ha sviluppato un complesso a base di naringenina con potenziali applicazioni nel trattamento del diabete e delle dislipidemie.
La preparazione andrebbe assunta prima dei pasti come misura preventiva, a differenza delle altre medicazioni normalmente prescritte in presenza di displipidemia.
I polifenoli, e in particolare i flavonoidi, sono una classe di sostanze di origine vegetale con proprietà anti-ossidanti, anti-aterogeniche e normolipidemiche.
Uno fra i composti più abbondanti di questa famiglia è la naringina, un flavonoide presente in alte concentrazioni nel pompelmo e reponsabile del tipico gusto agre di questo frutto.
Questa molecola, dopo essere stata ingerita viene idrolizzata dalla flora batterica intestinale e convertita in naringenina, la forma biologicamente attiva e assorbita.
La naringenina presenta proprietà antiossidanti, anticarcinogeniche ed antinfiammatorie.
Alcuni studi hanno evidenziato le proprietà ipolipidemiche della naringenina suggerendone un utilizzo nel trattamento del diabete e dell’obesità.
Questo flavonoide riduce infatti la secrezione di lipoproteine a bassissima densità (VLDL) da parte di epatociti in coltura. Recentemente, lo stesso gruppo di studio ha dimostrato che l’ inibizione dell’assemblaggio delle VLDL bloccherebbe la produzione particelle infettive di virus dell’epatite C.
Tuttavia, come per altri farmaci, l’efficacia della molecola attiva dipende dalla sua biodisponibilità nell’organismo.
La rilevanza clinica della naringenina è però limitata per via della scarsa solubilità e biodisponibilità della molecola. La natura idrofobica della molecola ne limita infatti l’assorbimento nel tratto gastrointestinale.
Nello studio i ricercatori hanno cercato aumentare la solubilità e l’assorbimento enterale complessando la molecola di naringenina con l’eccipiente zuccherino non tossico ciclodestrina (HPβCD), un tipo di eccipiente largamente utilizzato nell’industria farmaceutica ed alimentare.
La particolare struttura ad anello delle ciclodestrine permette a questi oligosaccaridi di accomodare al prorpio interno piccole molecole e farmaci idrofobici quali appunto la naringenina conferendole una solubilità 400 volte superiore e favorendone il trasporto attraverso l’epitelio intestinale.
Un ulteriore vantaggio derivante dalla complessazione della naringenina con ciclodestrina è il mascheramento del gusto agre con quello zuccherino dell’oligosaccaride.
I ricercatori hanno testato la preparazione in animali da laboratorio riscontrando che il complesso aumentava la concentrazione plasmatica di naringenina di 7,4 volte rispetto alla somministrazione della sostanza da sola.
Inoltre, quando la preparazione veniva somministrata prima del pasto riduceva i livelli di lipoproteine a bassissima densità del 42% aumentando invece la clearance del glucosio del 63% rispetto alla forma non complessata.
L’esame istologico e biochimico del sangue ha mostrato che questa formulazione non produce alcun danno intestinale, del rene o del fegato.
Diversi effetti possono spiegare il maggiore trasporto attraverso la parete intestinale tra cui cinetiche di dissoluzione più rapide, una maggiore solubilità e minore degradazione, alterazioni delle proprietà della membrana intestinale e un’aumento della concentrazione del farmaco nella parete intestinale.
I risultati dello studio suggeriscono un possibile utilizzo di questa nuova preparazione in sostituzione di fibrati, i tiazolidinedioni e le statine.
La complessazione di naringenina con ciclodestrine potrebbe rappresentare una valida e sicura formulazione orale per il trattamento della dislipidemia del diabete e delle infezioni da virus dell’epatite C.
Autore: Shulman M, Cohen M, Soto-Gutierrez A, Yagi H, Wang H, et al. Fonte: PLoS ONE 6(4): e18033. doi:10.1371/journal.pone.0018033
Un gruppo di ricercatori della Hebrew University di Gerusalemme e Harvard University di Boston ha sviluppato un complesso a base di naringenina con potenziali applicazioni nel trattamento del diabete e delle dislipidemie.
La preparazione andrebbe assunta prima dei pasti come misura preventiva, a differenza delle altre medicazioni normalmente prescritte in presenza di displipidemia.
I polifenoli, e in particolare i flavonoidi, sono una classe di sostanze di origine vegetale con proprietà anti-ossidanti, anti-aterogeniche e normolipidemiche.
Uno fra i composti più abbondanti di questa famiglia è la naringina, un flavonoide presente in alte concentrazioni nel pompelmo e reponsabile del tipico gusto agre di questo frutto.
Questa molecola, dopo essere stata ingerita viene idrolizzata dalla flora batterica intestinale e convertita in naringenina, la forma biologicamente attiva e assorbita.
La naringenina presenta proprietà antiossidanti, anticarcinogeniche ed antinfiammatorie.
Alcuni studi hanno evidenziato le proprietà ipolipidemiche della naringenina suggerendone un utilizzo nel trattamento del diabete e dell’obesità.
Questo flavonoide riduce infatti la secrezione di lipoproteine a bassissima densità (VLDL) da parte di epatociti in coltura. Recentemente, lo stesso gruppo di studio ha dimostrato che l’ inibizione dell’assemblaggio delle VLDL bloccherebbe la produzione particelle infettive di virus dell’epatite C.
Tuttavia, come per altri farmaci, l’efficacia della molecola attiva dipende dalla sua biodisponibilità nell’organismo.
La rilevanza clinica della naringenina è però limitata per via della scarsa solubilità e biodisponibilità della molecola. La natura idrofobica della molecola ne limita infatti l’assorbimento nel tratto gastrointestinale.
Nello studio i ricercatori hanno cercato aumentare la solubilità e l’assorbimento enterale complessando la molecola di naringenina con l’eccipiente zuccherino non tossico ciclodestrina (HPβCD), un tipo di eccipiente largamente utilizzato nell’industria farmaceutica ed alimentare.
La particolare struttura ad anello delle ciclodestrine permette a questi oligosaccaridi di accomodare al prorpio interno piccole molecole e farmaci idrofobici quali appunto la naringenina conferendole una solubilità 400 volte superiore e favorendone il trasporto attraverso l’epitelio intestinale.
Un ulteriore vantaggio derivante dalla complessazione della naringenina con ciclodestrina è il mascheramento del gusto agre con quello zuccherino dell’oligosaccaride.
I ricercatori hanno testato la preparazione in animali da laboratorio riscontrando che il complesso aumentava la concentrazione plasmatica di naringenina di 7,4 volte rispetto alla somministrazione della sostanza da sola.
Inoltre, quando la preparazione veniva somministrata prima del pasto riduceva i livelli di lipoproteine a bassissima densità del 42% aumentando invece la clearance del glucosio del 63% rispetto alla forma non complessata.
L’esame istologico e biochimico del sangue ha mostrato che questa formulazione non produce alcun danno intestinale, del rene o del fegato.
Diversi effetti possono spiegare il maggiore trasporto attraverso la parete intestinale tra cui cinetiche di dissoluzione più rapide, una maggiore solubilità e minore degradazione, alterazioni delle proprietà della membrana intestinale e un’aumento della concentrazione del farmaco nella parete intestinale.
I risultati dello studio suggeriscono un possibile utilizzo di questa nuova preparazione in sostituzione di fibrati, i tiazolidinedioni e le statine.
La complessazione di naringenina con ciclodestrine potrebbe rappresentare una valida e sicura formulazione orale per il trattamento della dislipidemia del diabete e delle infezioni da virus dell’epatite C.
Autore: Shulman M, Cohen M, Soto-Gutierrez A, Yagi H, Wang H, et al. Fonte: PLoS ONE 6(4): e18033. doi:10.1371/journal.pone.0018033
Più Vitamina D per i maschi danesi
La vitamina D potrebbe giocare un ruolo importante nel miglioramento dell’attività riproduttiva maschile.
È l’evidenza sorta in uno studio condotto in Danimarca, che ha coinvolto 300 uomini sani. Partendo dall’ipotesi che un deficit di vitamina D nei topi provoca una ridotta motilità del liquido seminale, si è soppressa l’attività del recettore della vitamina D e si è verificata una diminuita motilità spermatica e la riduzione del numero degli spermatozoi attivi. L’osservazione traslata sugli uomini, ha dimostrato che per un livello plasmatico elevato di vitamina D (> 75 nmol/l) c’è una mobilità spermatica significativamente più elevata, rispetto a quella degli uomini carenti di vitamina D (<25 nmol/l). Gli autori, cautamente suggeriscono la possibilità di un’eventuale supplementazione di vitamina D per tutti gli uomini che hanno problemi di fertilità e di coppia. In ogni caso la raccomandazione varrebbe solo per i maschi danesi: in altri studi di popolazione, infatti, avevano dimostrato di avere una ridotta attività riproduttiva.
Fonte: Male reproductive health could benefit from vitamin D: Study
È l’evidenza sorta in uno studio condotto in Danimarca, che ha coinvolto 300 uomini sani. Partendo dall’ipotesi che un deficit di vitamina D nei topi provoca una ridotta motilità del liquido seminale, si è soppressa l’attività del recettore della vitamina D e si è verificata una diminuita motilità spermatica e la riduzione del numero degli spermatozoi attivi. L’osservazione traslata sugli uomini, ha dimostrato che per un livello plasmatico elevato di vitamina D (> 75 nmol/l) c’è una mobilità spermatica significativamente più elevata, rispetto a quella degli uomini carenti di vitamina D (<25 nmol/l). Gli autori, cautamente suggeriscono la possibilità di un’eventuale supplementazione di vitamina D per tutti gli uomini che hanno problemi di fertilità e di coppia. In ogni caso la raccomandazione varrebbe solo per i maschi danesi: in altri studi di popolazione, infatti, avevano dimostrato di avere una ridotta attività riproduttiva.
Fonte: Male reproductive health could benefit from vitamin D: Study
I crudisti non rischiano l'ictus
Elevati consumi di ortaggi e frutta crudi sembrano proteggere dal rischio d’insorgenza dell’ictus.
In proposito, un gruppo di ricercatori olandesi della Wageningen University ha condotto un lavoro analitico, utilizzando i dati provenienti da uno studio di sorveglianza sulle abitudini alimentari di oltre 20000 soggetti tra uomini e donne, che al tempo dell’arruolamento non presentavano patologie cardiovascolari. L’arruolamento è durato dal 1993 al 1997 e la dieta abituale era calcolata in base alle risposte a un questionario (FFQ - 178 item) già validato.
Secondo un follow up medio della durata di 10 anni è stata documentata un’incidenza di 233 nuovi casi di ictus in quella popolazione. Riguardo ai consumi di frutta e vegetali, si è visto che nessuna associazione significativa era rilevabile se si considerava il consumo di elevate quantità di frutta e ortaggi trasformati, cotti o comunque cucinati. Ma per i soggetti che dichiaravano elevati consumi di frutta e ortaggi crudi l’incidenza dei nuovi casi di ictus si abbassava del 30%. Gli autori concludono affermando che un elevato consumo di frutta e ortaggi crudi potrebbe avere un effetto protettivo nei confronti dell’ictus. Una grande vittoria per i crudisti, e, in generale, per la nostra dieta mediterranea; anche se appare poco applicabile nei soggetti con problemi masticatori, specie nei pazienti anziani.
Fonte: Raw and processed fruit and vegetable consumption and 10-year stroke incidence in a population-based cohort study in the Netherlands. Eur J Clin Nutr. 2011 Mar 23. [Epub ahead of print]
In proposito, un gruppo di ricercatori olandesi della Wageningen University ha condotto un lavoro analitico, utilizzando i dati provenienti da uno studio di sorveglianza sulle abitudini alimentari di oltre 20000 soggetti tra uomini e donne, che al tempo dell’arruolamento non presentavano patologie cardiovascolari. L’arruolamento è durato dal 1993 al 1997 e la dieta abituale era calcolata in base alle risposte a un questionario (FFQ - 178 item) già validato.
Secondo un follow up medio della durata di 10 anni è stata documentata un’incidenza di 233 nuovi casi di ictus in quella popolazione. Riguardo ai consumi di frutta e vegetali, si è visto che nessuna associazione significativa era rilevabile se si considerava il consumo di elevate quantità di frutta e ortaggi trasformati, cotti o comunque cucinati. Ma per i soggetti che dichiaravano elevati consumi di frutta e ortaggi crudi l’incidenza dei nuovi casi di ictus si abbassava del 30%. Gli autori concludono affermando che un elevato consumo di frutta e ortaggi crudi potrebbe avere un effetto protettivo nei confronti dell’ictus. Una grande vittoria per i crudisti, e, in generale, per la nostra dieta mediterranea; anche se appare poco applicabile nei soggetti con problemi masticatori, specie nei pazienti anziani.
Fonte: Raw and processed fruit and vegetable consumption and 10-year stroke incidence in a population-based cohort study in the Netherlands. Eur J Clin Nutr. 2011 Mar 23. [Epub ahead of print]
Il latte crudo è raccomandabile?
Il consumo di latte vaccino non pastorizzato è stato implicato nelle allergie, sia con un ruolo scatenante, sia con un effetto preventivo; ma il dibattito è ancora aperto.
Se ne discute in una revisione pubblicata dal Swiss Tropical and Public Health Institute (Basel, Switzerland) che focalizza il problema del consumo di latte vaccino non pastorizzato. Alcuni studi epidemiologici recenti, tuttavia, hanno evidenziato che il consumo di latte vaccino crudo, potrebbe avere un effetto protettivo nei confronti del rischio d’insorgenza dell’asma, della febbre da fieno e di altre reazioni avverse dell’atopia. Nella review si discute sui possibili meccanismi sottesi a questo effetto preventivo, cercando di definire il possibile ruolo dei batteri, degli acidi grassi e delle proteine del siero, senza giungere a risposte del tutto chiare. Gli autori concludono suggerendo la necessità di ulteriori studi in proposito e, comunque, sconsigliando il consumo di latte crudo come misura preventiva verso le malattie allergiche.
Fonte: Clin Exp Allergy. 2011 Jan;41(1):29-35. doi: 10.1111/j.1365-2222.2010.03665.x.
Se ne discute in una revisione pubblicata dal Swiss Tropical and Public Health Institute (Basel, Switzerland) che focalizza il problema del consumo di latte vaccino non pastorizzato. Alcuni studi epidemiologici recenti, tuttavia, hanno evidenziato che il consumo di latte vaccino crudo, potrebbe avere un effetto protettivo nei confronti del rischio d’insorgenza dell’asma, della febbre da fieno e di altre reazioni avverse dell’atopia. Nella review si discute sui possibili meccanismi sottesi a questo effetto preventivo, cercando di definire il possibile ruolo dei batteri, degli acidi grassi e delle proteine del siero, senza giungere a risposte del tutto chiare. Gli autori concludono suggerendo la necessità di ulteriori studi in proposito e, comunque, sconsigliando il consumo di latte crudo come misura preventiva verso le malattie allergiche.
Fonte: Clin Exp Allergy. 2011 Jan;41(1):29-35. doi: 10.1111/j.1365-2222.2010.03665.x.
Cacao e colesterolo
Un consumo quotidiano di 40 grammi di polvere di cacao e 550 ml di latte scremato sono associati a un aumento del colesterolo HDL e a una riduzione dell'LDL.
Un gruppo di ricercatori dell'università di Barcellona ha condotto uno studio su 42 soggetti volontari sani di età media 70 anni, che ricevevano per 4 settimane consecutive 500 ml di latte scremato e 40 g di polvere di cacao, al giorno. Al termine dell'osservazione i ricercatori hanno dimostrato che i livelli di colesterolo HDL erano aumentati del 5% rispetto al valore iniziale e quelli del colesterolo LDL erano diminuiti del 14%. In 40 grammi di polvere di cacao vi sono ben 495.2 mg di polifenoli e 425.7 mg di pro-antocianidine, due molecole dalla forte azione anti ossidante. Sebbene i meccanismi non siano del tutto compresi, i risultati sembrano dovuti al forte contenuto in polifenoli del cacao: i polifenoli potenzierebbero la produzione dell'apolipoproteina (Apo) A1, la maggior componente proteica delle HDL. Ritorna al modello di dieta antiossidante, la nostra osservazione inevitabilmente ricade sul primo articolo, che poneva la relazione tra latte e acne; in pratica: la colazione con solo un bicchiere di latte e tanto cacao in polvere, oltre a renderla più gustosa, salvaguarderebbe il ruolo delle HDL e la specifica funzione protettiva delle stesse.
Fonte: Nutr Metab Cardiovasc Dis. 2011 May 5. [Epub ahead of print]Regular consumption of cocoa powder with milk increases HDL cholesterol and reduces oxidized LDL levels in subjects at high-risk of cardiovascular disease
Un gruppo di ricercatori dell'università di Barcellona ha condotto uno studio su 42 soggetti volontari sani di età media 70 anni, che ricevevano per 4 settimane consecutive 500 ml di latte scremato e 40 g di polvere di cacao, al giorno. Al termine dell'osservazione i ricercatori hanno dimostrato che i livelli di colesterolo HDL erano aumentati del 5% rispetto al valore iniziale e quelli del colesterolo LDL erano diminuiti del 14%. In 40 grammi di polvere di cacao vi sono ben 495.2 mg di polifenoli e 425.7 mg di pro-antocianidine, due molecole dalla forte azione anti ossidante. Sebbene i meccanismi non siano del tutto compresi, i risultati sembrano dovuti al forte contenuto in polifenoli del cacao: i polifenoli potenzierebbero la produzione dell'apolipoproteina (Apo) A1, la maggior componente proteica delle HDL. Ritorna al modello di dieta antiossidante, la nostra osservazione inevitabilmente ricade sul primo articolo, che poneva la relazione tra latte e acne; in pratica: la colazione con solo un bicchiere di latte e tanto cacao in polvere, oltre a renderla più gustosa, salvaguarderebbe il ruolo delle HDL e la specifica funzione protettiva delle stesse.
Fonte: Nutr Metab Cardiovasc Dis. 2011 May 5. [Epub ahead of print]Regular consumption of cocoa powder with milk increases HDL cholesterol and reduces oxidized LDL levels in subjects at high-risk of cardiovascular disease
Colesterolo HDL multiprotettivo
La frazione lipoproteica delle HDL del colesterolo plasmatico sembra possedere molteplici funzioni protettive, non solo verso le malattie vascolari.
È ormai consolidato che la composizione lipidica delle HDL, al contrario di quello che avviene per le altre frazioni lipoproteiche, possiede un forte potenziale di protezione del sistema cardiovascolare. Tale potenziale sarebbe focalizzato sull'attività antiossidante e antinfiammatoria posseduta dalle HDL, oltre che sulla qualità antiaterogenica tipica della peculiare composizione lipidica. Ultimamente lo stress ossidativo, che comprende anche la lipoperossidazione, è ritenuto uno dei molti fattori di rischio implicati anche nella malattia di Alzheimer. Questa review pone in risalto come una dieta antiaterogenica e antiossidante prevenga non solo le cardiovasculopatie, ma anche le patologie neurodegenerative. La dieta e uno stile di vita attivo e salutare, favorendo l'aumento delle HDL, diminuirebbero il rischio d'insorgenza di alcuni tumori, dell'Alzheimer e dei linfomi non-Hodgkin. Oltre a garantire la presenza di nutrienti con attività anti ossidante e a preferire i grassi insaturi, diventa fondamentale attivare il monitoraggio dell'attività fisica giornaliera.
Fonte: Cholesterol. 2011;2011:496925. Epub 2010 Dec 23.The role of high-density lipoproteins in reducing the risk of vascular diseases, neurogenerative disorders, and cancer.
È ormai consolidato che la composizione lipidica delle HDL, al contrario di quello che avviene per le altre frazioni lipoproteiche, possiede un forte potenziale di protezione del sistema cardiovascolare. Tale potenziale sarebbe focalizzato sull'attività antiossidante e antinfiammatoria posseduta dalle HDL, oltre che sulla qualità antiaterogenica tipica della peculiare composizione lipidica. Ultimamente lo stress ossidativo, che comprende anche la lipoperossidazione, è ritenuto uno dei molti fattori di rischio implicati anche nella malattia di Alzheimer. Questa review pone in risalto come una dieta antiaterogenica e antiossidante prevenga non solo le cardiovasculopatie, ma anche le patologie neurodegenerative. La dieta e uno stile di vita attivo e salutare, favorendo l'aumento delle HDL, diminuirebbero il rischio d'insorgenza di alcuni tumori, dell'Alzheimer e dei linfomi non-Hodgkin. Oltre a garantire la presenza di nutrienti con attività anti ossidante e a preferire i grassi insaturi, diventa fondamentale attivare il monitoraggio dell'attività fisica giornaliera.
Fonte: Cholesterol. 2011;2011:496925. Epub 2010 Dec 23.The role of high-density lipoproteins in reducing the risk of vascular diseases, neurogenerative disorders, and cancer.
Consumi di latticini e acne
L'acne giovanile, specie nei Paesi con stile di vita occidentale, appare associata agli effetti insulinotropici causa un consumo eccessivo di latte e latticini.
I prodotti a base di siero di latte contribuirebbero all'elevazione postprandiale dell'insulina plasmatica e dei livelli basali di IGF (Insulin-like growth factor-I). Com'è noto, il latte dei mammiferi promuove la crescita e lo sviluppo del neonato nel periodo dell'allattamento e, in particolare, le proteine del siero di latte sono potenti induttori della secrezione d'insulina, attraverso la produzione di un polipeptide intestinale che stimola le beta-cellule pancreatiche. L'aumento del segnale IGF-I/insulina diminuirebbe il contenuto nucleare del fattore di trascrizione FoxO1: la chiave che regola i geni target dell'acne. Un deficit del fattore nucleare starebbe alla base della patogenesi dell'acne, dell'infiammazione follicolare, dell'attivazione dei recettori androgeni, della genesi comedonica e dell'aumento del sebo cutaneo. Tutto questo è approfondito in una review che auspica futuri sviluppi della terapia dell'acne, basati sulla riduzione del consumo di latte, o sull'impiego di un latte biotecnologicamente trasformato in modo da ridurre il potenziale insulinotropico. Data l'importanza nutrizionale del latte nella nostra dieta, rimane aperto il quesito riguardante la quantità ritenuta "eccessiva", sotto la quale la relazione tra latte e acne verrebbe a decadere. L'osservazione delle abitudini alimentari italiane, inoltre, evidenzierebbe la minor assunzione di latte rispetto agli altri paesi occidentali, soprattutto per quanto riguarda l'abituale colazione. Per il momento, la nostra dieta, se ben bilanciata e variata con pane integrale, frutta e ortaggi, e se povera di grassi saturi appare ancora fondamentale per gli adolescenti colpiti dall'acne, e non solo.
Fonte: Nestle Nutr Workshop Ser Pediatr Program. 2011;67:131-45. Epub 2011 Feb 16.Evidence for acne-promoting effects of milk and other insulinotropic dairy products
I prodotti a base di siero di latte contribuirebbero all'elevazione postprandiale dell'insulina plasmatica e dei livelli basali di IGF (Insulin-like growth factor-I). Com'è noto, il latte dei mammiferi promuove la crescita e lo sviluppo del neonato nel periodo dell'allattamento e, in particolare, le proteine del siero di latte sono potenti induttori della secrezione d'insulina, attraverso la produzione di un polipeptide intestinale che stimola le beta-cellule pancreatiche. L'aumento del segnale IGF-I/insulina diminuirebbe il contenuto nucleare del fattore di trascrizione FoxO1: la chiave che regola i geni target dell'acne. Un deficit del fattore nucleare starebbe alla base della patogenesi dell'acne, dell'infiammazione follicolare, dell'attivazione dei recettori androgeni, della genesi comedonica e dell'aumento del sebo cutaneo. Tutto questo è approfondito in una review che auspica futuri sviluppi della terapia dell'acne, basati sulla riduzione del consumo di latte, o sull'impiego di un latte biotecnologicamente trasformato in modo da ridurre il potenziale insulinotropico. Data l'importanza nutrizionale del latte nella nostra dieta, rimane aperto il quesito riguardante la quantità ritenuta "eccessiva", sotto la quale la relazione tra latte e acne verrebbe a decadere. L'osservazione delle abitudini alimentari italiane, inoltre, evidenzierebbe la minor assunzione di latte rispetto agli altri paesi occidentali, soprattutto per quanto riguarda l'abituale colazione. Per il momento, la nostra dieta, se ben bilanciata e variata con pane integrale, frutta e ortaggi, e se povera di grassi saturi appare ancora fondamentale per gli adolescenti colpiti dall'acne, e non solo.
Fonte: Nestle Nutr Workshop Ser Pediatr Program. 2011;67:131-45. Epub 2011 Feb 16.Evidence for acne-promoting effects of milk and other insulinotropic dairy products
Allarme sugli additivi chimici negli alimenti
PERICOLOSO ATTENTATO ALLA SALUTE DEI CONSUMATORI. RIVEDERE IL CODEX ALIMENTARIUS
Quello che doveva essere uno strumento a difesa della sicurezza alimentare e della salute dei consumatori (il Codex Alimentarius) sta rivelando la sua vera faccia.
Per la produzione e la commercializzazione di prodotti alimentari su tutto il globo terrestre, infatti, viene autorizzato l'utilizzo di sostanze chimiche che ne dovrebbero garantire la sicurezza sotto il profilo di igienicità. Ma nulla viene detto sui possibili effetti collaterali e sul residuo potere nutrizionali degli alimenti trattati con sostanze quali micotossine, idrocarburi aromatici policiclici; desoxynivasol; acrilamide, cadmio. Per i pesci si teme per il metilmercurio e per il piombo. Recentissima è poi l'autorizzazione ad aumentare fino a quasi il doppio il livello delle aflatossine nelle nocciole, noci, pistacchi e fave di cacao.
Eppure è risaputo che fin dagli anni 60 le aflatossine venivano utilizzate dai ricercatori per indurre i tumori negli animali per poi studiarli. Pertanto, le stesse non sono "potenzialmente" cancerogene; ma SONO cancerogene e basta! Di conseguenza nessuno ci dice il livello personale (e non quello statistico) di sopportazione di tali additivi.
Uno dei prodotti, vanto della genialità italiana, il gelato, rischia di subire conseguenze gravissime dall'aggiunta delle aflatossine; se pensiamo che il latte (componente principale del gelato) viene munto da mucche trattate con l'ormone della crescita, allevate con prodotti transgenici, mescolati ad elevate dosi di antibiotici; e che a ciò si aggiungono le aflatossine delle nocciole,dei pistacchi e del CACAO (altro componente fondamentale), i gelatieri italiani non possono non condurre una strenua opposizione per la eliminazione degli additivi dannosi e per la tutela di un prodotto sano e sicuro, a reale tutela della salute dei consumatori alla quale parteciperà il CODACONS.
Il CODACONS - dichiara l'avv. Giuseppe Ursini - interviene a tutela della salute dei consumatori italiani, chiedendo che vengano riparametrati le componenti del Codex (al momento libellus) Alimentarius attraverso la realizzazione di accordi che in primo luogo rispettino i prodotti naturali e la loro commercializzazione, ed in secondo luogo tutelino la salute dei consumatori (garantita dall'art. 32 della Cost.) ponendosi al di sopra di interessi privatistici e commerciali di qualsiasi natura e provenienza. A tale scopo si sollecita sin d'ora gli organi competenti a formulare le rituali opposizioni (per le aflatossine) nelle sedi competenti.
Fonte : Codacons
Quello che doveva essere uno strumento a difesa della sicurezza alimentare e della salute dei consumatori (il Codex Alimentarius) sta rivelando la sua vera faccia.
Per la produzione e la commercializzazione di prodotti alimentari su tutto il globo terrestre, infatti, viene autorizzato l'utilizzo di sostanze chimiche che ne dovrebbero garantire la sicurezza sotto il profilo di igienicità. Ma nulla viene detto sui possibili effetti collaterali e sul residuo potere nutrizionali degli alimenti trattati con sostanze quali micotossine, idrocarburi aromatici policiclici; desoxynivasol; acrilamide, cadmio. Per i pesci si teme per il metilmercurio e per il piombo. Recentissima è poi l'autorizzazione ad aumentare fino a quasi il doppio il livello delle aflatossine nelle nocciole, noci, pistacchi e fave di cacao.
Eppure è risaputo che fin dagli anni 60 le aflatossine venivano utilizzate dai ricercatori per indurre i tumori negli animali per poi studiarli. Pertanto, le stesse non sono "potenzialmente" cancerogene; ma SONO cancerogene e basta! Di conseguenza nessuno ci dice il livello personale (e non quello statistico) di sopportazione di tali additivi.
Uno dei prodotti, vanto della genialità italiana, il gelato, rischia di subire conseguenze gravissime dall'aggiunta delle aflatossine; se pensiamo che il latte (componente principale del gelato) viene munto da mucche trattate con l'ormone della crescita, allevate con prodotti transgenici, mescolati ad elevate dosi di antibiotici; e che a ciò si aggiungono le aflatossine delle nocciole,dei pistacchi e del CACAO (altro componente fondamentale), i gelatieri italiani non possono non condurre una strenua opposizione per la eliminazione degli additivi dannosi e per la tutela di un prodotto sano e sicuro, a reale tutela della salute dei consumatori alla quale parteciperà il CODACONS.
Il CODACONS - dichiara l'avv. Giuseppe Ursini - interviene a tutela della salute dei consumatori italiani, chiedendo che vengano riparametrati le componenti del Codex (al momento libellus) Alimentarius attraverso la realizzazione di accordi che in primo luogo rispettino i prodotti naturali e la loro commercializzazione, ed in secondo luogo tutelino la salute dei consumatori (garantita dall'art. 32 della Cost.) ponendosi al di sopra di interessi privatistici e commerciali di qualsiasi natura e provenienza. A tale scopo si sollecita sin d'ora gli organi competenti a formulare le rituali opposizioni (per le aflatossine) nelle sedi competenti.
Fonte : Codacons
Rischio dieting per colpa del fai da te
Gli esperti riuniti a Milano il 22 maggio 2011 al XXII Congresso nazionale dell'Associazione nazionale dietisti (Andid), , lanciano un allarme sugli effetti negativi di diete troppo restrittive, spesso originate da iniziative "fai-da-te"
L'uso scorretto di diete con regimi particolarmente restrittivi, adottate per brevi periodi con l'obiettivo di perdere più peso possibile, rischia di instaurare circoli viziosi per cui il paziente si sente in obbligo di stare perennemente a dieta. Questo fenomeno viene chiamato dieting, per definire una vera e proprio sindrome di dipendenza, dovuta al fatto che si perde peso con una dieta restrittiva, ma se ne riprende (e anche più) durante la fase di "disinibizione", condizione che spinge a riprendere le restrizioni. L'allarme proviene dagli esperti riuniti al XXII Congresso nazionale dell'Associazione nazionale dietisti (Andid), che mettono in guardia su alcune categorie in particolare: il 70% delle ragazze è a dieta, ma non sempre la segue in modo corretto rischiando di trasformare un leggero sovrappeso in livelli di peso più gravi e contribuendo ad incrementare i casi di obesità.
«Il dieting è la tendenza a sentirsi costantemente in obbligo di stare a dieta» spiega Giovanna Cecchetto, presidente Andid «spesso frutto del fai-da-te, senza buon senso, che porta a diete iniziate e mai finite, incostanti e mal strutturate, che creano la sindrome da yo-yo, conseguente ai periodi di dieta severa alternati a un'alimentazione disordinata e al consumo incontrollato dei cibi più graditi e golosi e dei cosiddetti junk-food e causa numero uno della dipendenza. La dieta drastica è basata sulla rinuncia e sulla classificazione dei cibi in "permessi" e "proibiti". In quanto tale è sopportabile per poco tempo. Spesso, infatti, la rinuncia si espande a un'ampia gamma di alimenti necessari (quali ad esempio il pane e la pasta) e il risultato è quello di affamarsi». Gli esperti convengono sul fatto che molto spesso da questo eccessivo rigore dipende la voglia incontrollata dei cibi più temuti e ansiogeni, e la difficoltà a controllarne la quantità, motivo per cui si tende a introdurre il concetto di porzioni e non di grammi e di frequenza di consumo, anziché di esitamento di certi alimenti e puntare sul lungo termine per acquisire capacità di gestire voglie, tentazioni e situazioni difficili, come occasioni sociali e impegni di lavoro, con consapevolezza e strategie vincenti e semplici da attuare nella quotidianità. «Non si deve togliere, piuttosto inserire nella dieta alimenti in modo corretto, equilibrato e vario» afferma Ambra Morelli, responsabile Andid Lombardia e dietista alla clinica San Carlo di Paderno Dugnano (Milano) «Non si deve ovviamente mangiare tutto insieme, ma saper scegliere come alimentarsi senza escludere nulla. Le diete del divieto a schema rigido e austero sono fallite e non hanno più senso. Non ci sono alimenti che fanno male, si deve saper scegliere con libertà cosa mangiare con più frequenza. Questa è sicuramente una dieta piacevole, attenta al lato emotivo perché dà gratificazione e il piacere del cibo».
L'uso scorretto di diete con regimi particolarmente restrittivi, adottate per brevi periodi con l'obiettivo di perdere più peso possibile, rischia di instaurare circoli viziosi per cui il paziente si sente in obbligo di stare perennemente a dieta. Questo fenomeno viene chiamato dieting, per definire una vera e proprio sindrome di dipendenza, dovuta al fatto che si perde peso con una dieta restrittiva, ma se ne riprende (e anche più) durante la fase di "disinibizione", condizione che spinge a riprendere le restrizioni. L'allarme proviene dagli esperti riuniti al XXII Congresso nazionale dell'Associazione nazionale dietisti (Andid), che mettono in guardia su alcune categorie in particolare: il 70% delle ragazze è a dieta, ma non sempre la segue in modo corretto rischiando di trasformare un leggero sovrappeso in livelli di peso più gravi e contribuendo ad incrementare i casi di obesità.
«Il dieting è la tendenza a sentirsi costantemente in obbligo di stare a dieta» spiega Giovanna Cecchetto, presidente Andid «spesso frutto del fai-da-te, senza buon senso, che porta a diete iniziate e mai finite, incostanti e mal strutturate, che creano la sindrome da yo-yo, conseguente ai periodi di dieta severa alternati a un'alimentazione disordinata e al consumo incontrollato dei cibi più graditi e golosi e dei cosiddetti junk-food e causa numero uno della dipendenza. La dieta drastica è basata sulla rinuncia e sulla classificazione dei cibi in "permessi" e "proibiti". In quanto tale è sopportabile per poco tempo. Spesso, infatti, la rinuncia si espande a un'ampia gamma di alimenti necessari (quali ad esempio il pane e la pasta) e il risultato è quello di affamarsi». Gli esperti convengono sul fatto che molto spesso da questo eccessivo rigore dipende la voglia incontrollata dei cibi più temuti e ansiogeni, e la difficoltà a controllarne la quantità, motivo per cui si tende a introdurre il concetto di porzioni e non di grammi e di frequenza di consumo, anziché di esitamento di certi alimenti e puntare sul lungo termine per acquisire capacità di gestire voglie, tentazioni e situazioni difficili, come occasioni sociali e impegni di lavoro, con consapevolezza e strategie vincenti e semplici da attuare nella quotidianità. «Non si deve togliere, piuttosto inserire nella dieta alimenti in modo corretto, equilibrato e vario» afferma Ambra Morelli, responsabile Andid Lombardia e dietista alla clinica San Carlo di Paderno Dugnano (Milano) «Non si deve ovviamente mangiare tutto insieme, ma saper scegliere come alimentarsi senza escludere nulla. Le diete del divieto a schema rigido e austero sono fallite e non hanno più senso. Non ci sono alimenti che fanno male, si deve saper scegliere con libertà cosa mangiare con più frequenza. Questa è sicuramente una dieta piacevole, attenta al lato emotivo perché dà gratificazione e il piacere del cibo».
Additivi alimentari
Piu’ di 300 gli additivi nel nostro piatto, il rischio è anche l’effetto cocktail.
Coloranti, conservanti, emulsionanti, esaltatori di sapidità, regolatori di acidità, ovvero gli additivi alimentari, sostanze che si aggiungono con lo scopo di migliorare o cambiare alcune caratteristiche come gusto, colore, conservazione o consistenza. Ci sono pericoli per la salute?
Coloranti, conservanti, emulsionanti, esaltatori di sapidità, regolatori di acidità… ovvero gli additivi alimentari. Sostanze che si aggiungono con lo scopo di migliorare o cambiare alcune caratteristiche come gusto, colore, conservazione o consistenza. Abbondano soprattutto nei prodotti alimentari industriali. In certi casi sono una presenza necessaria per garantire igiene e sicurezza ai cibi, ma molto spesso sono completamente inutili, se non ingannevoli. È il caso, per esempio, dei coloranti, che non servono a nulla se non ad accentuare o simulare la presenza degli ingredienti autentici (il giallo per dare l’idea dell’uso di uova fresche, una punta di rosso al posto di vera frutta e così via…).
In Europa ne sono autorizzati moltissimi, più di 300, con una legge che impone ai produttori di indicarli in etichetta, o con la loro sigla (una E seguita da un numero), oppure con il loro nome per esteso preceduto dalla categoria cui appartengono. Quelli che non compaiono nella lista sono vietati. La nostra esperienza ci dice che in Italia ne facciamo un uso minore rispetto ad altri paesi europei con cui siamo soliti collaborare per test e inchieste, soprattutto nel caso di coloranti e conservanti, che da noi godono di poco appeal. Possiamo quindi stare tranquilli? Non del tutto. chi ci tutela? L’autorizzazione a un additivo viene concessa dopo una valutazione di sicurezza fatta da esperti sulla base degli studi scientifi ci a disposizione. In questo momento l’Efsa, l’autorità europea per la si- curezza degli alimenti, per conto della Commissione europea, sta esaminando nuovamente le auto- rizzazioni concesse, alla luce dei nuovi dati a disposizione. Questo processo di revisione è iniziato a partire da alcuni coloranti (li elenchiamo nel riquadro “Occhio a…” qui sopra), che qualche anno fa sono stati accusati da uno studio inglese di essere corresponsabili della sindrome da deficit di at- tenzione nei bambini, per la loro capacità di suscitare iperattività e irritabilità nei più piccoli. Nel quadro della valutazione, in base ai risultati ottenuti dalle prove di tossicità,viene stabilita la dose giornaliera accettabile (Dga) per l’uomo. La Dga è la dose di additivo che una persona può assumere ogni giorno, per tutta la vita, senza mettere a rischio la propria salute. In base alla Dga, poi, si definiscono i limiti massimi ammissibili negli alimenti.
Per esempio, alla luce degli studi più recenti, l’Efsa ha notevolmente ridotto la Dga del colorante alimentare giallo E 104, rispetto alla dose giornaliera accettabile, che era stata stabilita nel 1984 dal comitato scientifico per l’alimentazione umana della Commissione europea. Una marcia indietro che fa riflettere. Questo sistema di valutazione, infatti, ha alcune pecche che ancora non sono state colmate e lo rendono non del tutto affidabile.
Effetto cocktail
In primo luogo non siamo ancora tutelati dalla somma di tutte le diverse sostanze aggiunte che assumiamo, anche se ciascuna di loro resta al di sotto della Dga.
Inoltre, nello stabilire i limiti massimi di utilizzo nei prodotti alimentari non si tiene conto dei rischi di un abuso di additivi da parte dei bambini, i quali, a causa del loro peso ridotto, possono fa- cilmente superare le dosi giorna- liere accettabili, andando incontro a rischi di sensibilizzazione, aller- gie o altri problemi di salute. il trionfo del “naturale” Oggi i consumatori propendono per prodotti il più possibile privi di additivi. Ecco allora che le eti- chette mettono ben in evidenza diciture come “non contiene con- servanti” o “con coloranti naturali”. Ma attenzione: – il fatto che un prodotto si vanti di non avere conservanti non signifi – ca che non abbia comunque altri additivi in lista. Leggete sempre l’elenco degli ingredienti; – sta sparendo in etichetta l’indi- cazione degli additivi con il codice E… a favore della dicitura con il nome completo. Questa modalità rende più diffi cile individuare gli additivi a colpo d’occhio perché si mimetizzano nell’elenco degli ingredienti; – alcuni coloranti naturali hanno una dose giornaliera di assunzione accettabile più bassa di altri artifi – ciali, sintomo della loro potenziale maggiore pericolosità.
Occhio a…
Uno studio condotto nel Regno Unito per conto della Food Standards Agency nel 2007 ha mostrato che il consumo di alimenti contenenti coloranti potrebbe aumentare il comportamento iperattivo nei bambini. I ricercatori hanno scoperto che questo comportamento aumentava quando i bambini assumevano bevande contenenti una miscela di additivi e coloranti artifi ciali. Questa ricerca, che ha fatto parecchio discutere, ha mostrato un possibile effetto negativo di alcuni coloranti alimentari e di un conservante (l’E211, benzoato di sodio) sulla psiche dei più piccoli.
Capire che cosa c’è nel cibo che mangiamo
Gli additivi, a seconda della loro funzione, sono suddivisi in categorie e a ognuno è associato un codice, generalmente composto da una E seguita da tre o quattro cifre. Il codice è valido in tutta Europa.
Coloranti (da E 100 a E 180)
Sono utilizzati per dare agli alimenti un colore più vivace. Autorizzati in molti alimenti, i coloranti naturali e artificiali possono trarre in inganno il consumatore sulla vera natura degli ingredienti utilizzati (per esempio, colorante giallo per suggerire la presenza di uova). Inoltre, alcuni coloranti sono stati associati al deficit di attenzione nei bambini, mentre altri possono provocare allergie in persone sensibili.
Conservanti (da E 200 a E 285)
I conservanti sono sostanze che prevengono la proliferazione di batteri, muffe e lieviti responsabili del deterioramento degli alimenti e sono utili in alcuni casi ben precisi.
I legislatori europei, tuttavia, sono troppo permissivi e autorizzano l’utilizzo di conservanti anche dove sono inutili. Di fatto, non incoraggiano certamente i produttori a essere particolarmente attenti in materia di igiene e di condizioni di conservazione. Alcuni possono provocare reazioni allergiche.
Antiossidanti e acidificanti (da E 300 a E 385)
Gli antiossidanti sono utilizzati per frenare il deterioramento degli alimenti causato dal contatto con l’ossigeno dell’aria. Il più utilizzato è l’acido ascorbico o vitamina C (E 300). Gli acidificanti, invece, aumentano l’acidità degli alimenti per prolungarne la conservazione o per ragioni di gusto. La maggior parte degli antiossidanti e degli acidificanti è accettabile e persino utile in certi casi ma, ancora una volta, senza abusarne e se non esiste un’altra soluzione.
Emulsionanti e addensanti (da E 400 a E 495)
Questo gruppo comprende anche i gelificanti e gli stabilizzanti. Tutte queste sostanze sono utilizzate per dare consistenza a un prodotto o per mantenerla. Il loro utilizzo è, a volte, giustificato (emulsionanti per impedire la formazione di cristalli nel gelato o che permettono di sostituire in parte le materie grasse con acqua nelle margarine e nel burro a ridotto contenuto di grasso). Ma più spesso servono per mascherare l’assenza di ingredienti di base (uova in gelato o maionese). Alcuni addensanti sono riconosciuti come allergeni (per esempio, la gomma di guar).
Esaltatori di sapidità (da E 620 a E 640)
Questi additivi, i più noti dei quali sono i glutammati, servono a intensificare o a modificare il gusto degli alimenti: per questo motivo sono, secondo noi, inutili e ingannevoli, in quanto potrebbero mascherare carenze di gusto e quindi una qualità scadente degli alimenti. Il glutammato si può ritrovare in una quantità vastissima di prodotti alimentari e questa assunzione elevata giornaliera può provocare intolleranze anche in chi non è comunemente sensibile a questo additivo.
Edulcoranti (da E 950 a E 967, E 420, E 421)
Sostituiscono gli zuccheri in alcuni prodotti light (bibite, caramelle, gomme da masticare, dolci, yogurt…) Sono accettabili in alcune circostanze (per esempio, per le persone che non possono consumare zuccheri), ma il rischio, soprattutto per i bambini, è che si raggiunga molto rapidamente la dose giornaliera accettabile, per esempio nel caso dei polioli.
Fonte: Altroconsumo http://www.altroconsumo.it
Coloranti, conservanti, emulsionanti, esaltatori di sapidità, regolatori di acidità, ovvero gli additivi alimentari, sostanze che si aggiungono con lo scopo di migliorare o cambiare alcune caratteristiche come gusto, colore, conservazione o consistenza. Ci sono pericoli per la salute?
Coloranti, conservanti, emulsionanti, esaltatori di sapidità, regolatori di acidità… ovvero gli additivi alimentari. Sostanze che si aggiungono con lo scopo di migliorare o cambiare alcune caratteristiche come gusto, colore, conservazione o consistenza. Abbondano soprattutto nei prodotti alimentari industriali. In certi casi sono una presenza necessaria per garantire igiene e sicurezza ai cibi, ma molto spesso sono completamente inutili, se non ingannevoli. È il caso, per esempio, dei coloranti, che non servono a nulla se non ad accentuare o simulare la presenza degli ingredienti autentici (il giallo per dare l’idea dell’uso di uova fresche, una punta di rosso al posto di vera frutta e così via…).
In Europa ne sono autorizzati moltissimi, più di 300, con una legge che impone ai produttori di indicarli in etichetta, o con la loro sigla (una E seguita da un numero), oppure con il loro nome per esteso preceduto dalla categoria cui appartengono. Quelli che non compaiono nella lista sono vietati. La nostra esperienza ci dice che in Italia ne facciamo un uso minore rispetto ad altri paesi europei con cui siamo soliti collaborare per test e inchieste, soprattutto nel caso di coloranti e conservanti, che da noi godono di poco appeal. Possiamo quindi stare tranquilli? Non del tutto. chi ci tutela? L’autorizzazione a un additivo viene concessa dopo una valutazione di sicurezza fatta da esperti sulla base degli studi scientifi ci a disposizione. In questo momento l’Efsa, l’autorità europea per la si- curezza degli alimenti, per conto della Commissione europea, sta esaminando nuovamente le auto- rizzazioni concesse, alla luce dei nuovi dati a disposizione. Questo processo di revisione è iniziato a partire da alcuni coloranti (li elenchiamo nel riquadro “Occhio a…” qui sopra), che qualche anno fa sono stati accusati da uno studio inglese di essere corresponsabili della sindrome da deficit di at- tenzione nei bambini, per la loro capacità di suscitare iperattività e irritabilità nei più piccoli. Nel quadro della valutazione, in base ai risultati ottenuti dalle prove di tossicità,viene stabilita la dose giornaliera accettabile (Dga) per l’uomo. La Dga è la dose di additivo che una persona può assumere ogni giorno, per tutta la vita, senza mettere a rischio la propria salute. In base alla Dga, poi, si definiscono i limiti massimi ammissibili negli alimenti.
Per esempio, alla luce degli studi più recenti, l’Efsa ha notevolmente ridotto la Dga del colorante alimentare giallo E 104, rispetto alla dose giornaliera accettabile, che era stata stabilita nel 1984 dal comitato scientifico per l’alimentazione umana della Commissione europea. Una marcia indietro che fa riflettere. Questo sistema di valutazione, infatti, ha alcune pecche che ancora non sono state colmate e lo rendono non del tutto affidabile.
Effetto cocktail
In primo luogo non siamo ancora tutelati dalla somma di tutte le diverse sostanze aggiunte che assumiamo, anche se ciascuna di loro resta al di sotto della Dga.
Inoltre, nello stabilire i limiti massimi di utilizzo nei prodotti alimentari non si tiene conto dei rischi di un abuso di additivi da parte dei bambini, i quali, a causa del loro peso ridotto, possono fa- cilmente superare le dosi giorna- liere accettabili, andando incontro a rischi di sensibilizzazione, aller- gie o altri problemi di salute. il trionfo del “naturale” Oggi i consumatori propendono per prodotti il più possibile privi di additivi. Ecco allora che le eti- chette mettono ben in evidenza diciture come “non contiene con- servanti” o “con coloranti naturali”. Ma attenzione: – il fatto che un prodotto si vanti di non avere conservanti non signifi – ca che non abbia comunque altri additivi in lista. Leggete sempre l’elenco degli ingredienti; – sta sparendo in etichetta l’indi- cazione degli additivi con il codice E… a favore della dicitura con il nome completo. Questa modalità rende più diffi cile individuare gli additivi a colpo d’occhio perché si mimetizzano nell’elenco degli ingredienti; – alcuni coloranti naturali hanno una dose giornaliera di assunzione accettabile più bassa di altri artifi – ciali, sintomo della loro potenziale maggiore pericolosità.
Occhio a…
Uno studio condotto nel Regno Unito per conto della Food Standards Agency nel 2007 ha mostrato che il consumo di alimenti contenenti coloranti potrebbe aumentare il comportamento iperattivo nei bambini. I ricercatori hanno scoperto che questo comportamento aumentava quando i bambini assumevano bevande contenenti una miscela di additivi e coloranti artifi ciali. Questa ricerca, che ha fatto parecchio discutere, ha mostrato un possibile effetto negativo di alcuni coloranti alimentari e di un conservante (l’E211, benzoato di sodio) sulla psiche dei più piccoli.
Capire che cosa c’è nel cibo che mangiamo
Gli additivi, a seconda della loro funzione, sono suddivisi in categorie e a ognuno è associato un codice, generalmente composto da una E seguita da tre o quattro cifre. Il codice è valido in tutta Europa.
Coloranti (da E 100 a E 180)
Sono utilizzati per dare agli alimenti un colore più vivace. Autorizzati in molti alimenti, i coloranti naturali e artificiali possono trarre in inganno il consumatore sulla vera natura degli ingredienti utilizzati (per esempio, colorante giallo per suggerire la presenza di uova). Inoltre, alcuni coloranti sono stati associati al deficit di attenzione nei bambini, mentre altri possono provocare allergie in persone sensibili.
Conservanti (da E 200 a E 285)
I conservanti sono sostanze che prevengono la proliferazione di batteri, muffe e lieviti responsabili del deterioramento degli alimenti e sono utili in alcuni casi ben precisi.
I legislatori europei, tuttavia, sono troppo permissivi e autorizzano l’utilizzo di conservanti anche dove sono inutili. Di fatto, non incoraggiano certamente i produttori a essere particolarmente attenti in materia di igiene e di condizioni di conservazione. Alcuni possono provocare reazioni allergiche.
Antiossidanti e acidificanti (da E 300 a E 385)
Gli antiossidanti sono utilizzati per frenare il deterioramento degli alimenti causato dal contatto con l’ossigeno dell’aria. Il più utilizzato è l’acido ascorbico o vitamina C (E 300). Gli acidificanti, invece, aumentano l’acidità degli alimenti per prolungarne la conservazione o per ragioni di gusto. La maggior parte degli antiossidanti e degli acidificanti è accettabile e persino utile in certi casi ma, ancora una volta, senza abusarne e se non esiste un’altra soluzione.
Emulsionanti e addensanti (da E 400 a E 495)
Questo gruppo comprende anche i gelificanti e gli stabilizzanti. Tutte queste sostanze sono utilizzate per dare consistenza a un prodotto o per mantenerla. Il loro utilizzo è, a volte, giustificato (emulsionanti per impedire la formazione di cristalli nel gelato o che permettono di sostituire in parte le materie grasse con acqua nelle margarine e nel burro a ridotto contenuto di grasso). Ma più spesso servono per mascherare l’assenza di ingredienti di base (uova in gelato o maionese). Alcuni addensanti sono riconosciuti come allergeni (per esempio, la gomma di guar).
Esaltatori di sapidità (da E 620 a E 640)
Questi additivi, i più noti dei quali sono i glutammati, servono a intensificare o a modificare il gusto degli alimenti: per questo motivo sono, secondo noi, inutili e ingannevoli, in quanto potrebbero mascherare carenze di gusto e quindi una qualità scadente degli alimenti. Il glutammato si può ritrovare in una quantità vastissima di prodotti alimentari e questa assunzione elevata giornaliera può provocare intolleranze anche in chi non è comunemente sensibile a questo additivo.
Edulcoranti (da E 950 a E 967, E 420, E 421)
Sostituiscono gli zuccheri in alcuni prodotti light (bibite, caramelle, gomme da masticare, dolci, yogurt…) Sono accettabili in alcune circostanze (per esempio, per le persone che non possono consumare zuccheri), ma il rischio, soprattutto per i bambini, è che si raggiunga molto rapidamente la dose giornaliera accettabile, per esempio nel caso dei polioli.
Fonte: Altroconsumo http://www.altroconsumo.it
Stato nutrizionale dei centenari
Lo stato di salute mentale e fisica dei centenari è senza dubbio condizionato dallo stile di vita, dalle abitudini alimentari e dall'origine demografica.
In proposito è stata pubblicata una review focalizzata sul possibile ruolo della dieta nella conservazione dello stato generale di salute e delle funzioni cognitive delle persone che hanno raggiunto i cento anni. In particolare sono stati analizzati i lavori scientifici che riportano i livelli plasmatici di alcuni nutrienti per evidenziarne le eventuali carenze. Gli studi considerati hanno evidenziato nella sostanza che il BMI dei centenari e le condizioni generali appaiono correlabili ai livelli circolanti di: alcune vitamine antiossidanti, vitamina B12, folati, omocisteina e 25(OH)vitamina D. Questi parametri, comunque, sono apparsi fortemente eterogenei nei campioni di centenari considerati, e questo probabilmente si deve anche alle abitudini alimentari dei luoghi d'origine e di residenza. Gli autori concludono auspicando che ulteriori investimenti della ricerca debbano essere condotti proprio su questi soggetti particolarmente longevi, al fine di evidenziare eventuali carenze e di definire i ruoli dei vari nutrienti sulla longevità. Ovviamente sarà necessario anche tenere conto della qualità di vita.
Fonte: Maturitas. 2011 Mar;68(3):203-9. Epub 2011 Jan 26.Nutrition in centenarians.
In proposito è stata pubblicata una review focalizzata sul possibile ruolo della dieta nella conservazione dello stato generale di salute e delle funzioni cognitive delle persone che hanno raggiunto i cento anni. In particolare sono stati analizzati i lavori scientifici che riportano i livelli plasmatici di alcuni nutrienti per evidenziarne le eventuali carenze. Gli studi considerati hanno evidenziato nella sostanza che il BMI dei centenari e le condizioni generali appaiono correlabili ai livelli circolanti di: alcune vitamine antiossidanti, vitamina B12, folati, omocisteina e 25(OH)vitamina D. Questi parametri, comunque, sono apparsi fortemente eterogenei nei campioni di centenari considerati, e questo probabilmente si deve anche alle abitudini alimentari dei luoghi d'origine e di residenza. Gli autori concludono auspicando che ulteriori investimenti della ricerca debbano essere condotti proprio su questi soggetti particolarmente longevi, al fine di evidenziare eventuali carenze e di definire i ruoli dei vari nutrienti sulla longevità. Ovviamente sarà necessario anche tenere conto della qualità di vita.
Fonte: Maturitas. 2011 Mar;68(3):203-9. Epub 2011 Jan 26.Nutrition in centenarians.
Omega- 3 e depressione
Un'elevata assunzione di acido alfa-linolenico e una bassa
assunzione di acido linoleico, sembrano ridurre il rischio
d'insorgenza della depressione nelle donne.
Questi, nella sostanza, i risultati di uno studio prospettico condotto su 54,632 infermiere partecipanti al Nurses' Health Study di età compresa tra 50 e 77 anni che al tempo 0 erano libere da sintomi depressivi. I dati dei consumi alimentari venivano elaborati dalle risposte a questionari validati (FFQ) e la diagnosi clinica di depressione veniva formulata in base alla diagnosi del medico o in base all'assunzione regolare di farmaci antidepressivi. Durante 10 anni (1996-2006) di follow-up sono stati registrati 2823 casi di depressione. Riguardo ai consumi alimentari, si è visto che l'assunzione di omega-3 a lunga catena, provenienti dal consumo di pesce, non era associata al rischio depressione, mentre l'assunzione di acido alfa-linolenico (ALA) era inversamente correlata al rischio di depressione. La correlazione inversa era ancora più marcata nelle donne con basso intake di acido linoleico (LA). Questi risultati non confermano l'atteso effetto protettivo degli acidi grassi omega-3 a lunga catena nei confronti del rischio di depressione, sebbene si possa avanzare l'ipotesi che un'elevata assunzione di ALA accoppiata a una bassa assunzione di LA possano ridurre il rischio di depressione. Un'ipotesi ancora da confermare.
Fonte: Am J Clin Nutr. 2011 Apr 6. [Epub ahead of print] Dietary intake of n-3 and n-6 fatty acids and the risk of clinical depression in women: a 10-y prospective follow-up study.
Questi, nella sostanza, i risultati di uno studio prospettico condotto su 54,632 infermiere partecipanti al Nurses' Health Study di età compresa tra 50 e 77 anni che al tempo 0 erano libere da sintomi depressivi. I dati dei consumi alimentari venivano elaborati dalle risposte a questionari validati (FFQ) e la diagnosi clinica di depressione veniva formulata in base alla diagnosi del medico o in base all'assunzione regolare di farmaci antidepressivi. Durante 10 anni (1996-2006) di follow-up sono stati registrati 2823 casi di depressione. Riguardo ai consumi alimentari, si è visto che l'assunzione di omega-3 a lunga catena, provenienti dal consumo di pesce, non era associata al rischio depressione, mentre l'assunzione di acido alfa-linolenico (ALA) era inversamente correlata al rischio di depressione. La correlazione inversa era ancora più marcata nelle donne con basso intake di acido linoleico (LA). Questi risultati non confermano l'atteso effetto protettivo degli acidi grassi omega-3 a lunga catena nei confronti del rischio di depressione, sebbene si possa avanzare l'ipotesi che un'elevata assunzione di ALA accoppiata a una bassa assunzione di LA possano ridurre il rischio di depressione. Un'ipotesi ancora da confermare.
Fonte: Am J Clin Nutr. 2011 Apr 6. [Epub ahead of print] Dietary intake of n-3 and n-6 fatty acids and the risk of clinical depression in women: a 10-y prospective follow-up study.
Il rischio di cancro e la dieta
Un comportamento alimentare sregolato sembra favorire l'aumento del rischio d'insorgenza del cancro al colon nelle donne.
Questa probabilità è confermata dai risultati di uno studio prospettico condotto su 1940 donne selezionate da 55.540 dai 48 ai 73 anni, già partecipanti allo studio di sorveglianza Nurses' Health Study e che al momento del reclutamento non presentavano una storia di cancro, colite ulcerosa o diabete. Il gruppo selezionato mostrava abitudini alimentari disordinate del genere:"mangio quello che voglio, quanto voglio e a qualsiasi ora". Al termine del follow-up (12 anni) nel gruppo selezionato per le abitudini sregolate si registravano 552 nuovi casi di cancro del colon-retto. Aggiustando i dati per età, abitudine al fumo, BMI, attività fisica, consumi di carne rossa e trasformata, si è così dimostrato un aumento del rischio relativo d'insorgenza del cancro al colon-retto, indipendente da altri fattori di rischio.
Fonte: Int J Cancer. 2011 Apr 25. doi: 10.1002/ijc.26150. [Epub ahead of print] Reported behavior of eating anything at anytime and risk of colorectal cancer in women.
Questa probabilità è confermata dai risultati di uno studio prospettico condotto su 1940 donne selezionate da 55.540 dai 48 ai 73 anni, già partecipanti allo studio di sorveglianza Nurses' Health Study e che al momento del reclutamento non presentavano una storia di cancro, colite ulcerosa o diabete. Il gruppo selezionato mostrava abitudini alimentari disordinate del genere:"mangio quello che voglio, quanto voglio e a qualsiasi ora". Al termine del follow-up (12 anni) nel gruppo selezionato per le abitudini sregolate si registravano 552 nuovi casi di cancro del colon-retto. Aggiustando i dati per età, abitudine al fumo, BMI, attività fisica, consumi di carne rossa e trasformata, si è così dimostrato un aumento del rischio relativo d'insorgenza del cancro al colon-retto, indipendente da altri fattori di rischio.
Fonte: Int J Cancer. 2011 Apr 25. doi: 10.1002/ijc.26150. [Epub ahead of print] Reported behavior of eating anything at anytime and risk of colorectal cancer in women.
Kiwi : il super frutto
Il kiwi sembra essere il frutto salutare per eccellenza, soprattutto per il suo potere antiossidante.
Un gruppo di ricercatori giapponesi ha pubblicato una revisione e un nuovo studio centrati sulle proprietà salutari del kiwi. I ricercatori si sono occupati di porre a confronto le sue proprietà antiossidanti con quelle di altri frutti e di verificare se il kiwi, nelle varietà verde e gold, possieda le stesso potenziale antiossidante sull'uomo, oltre che sugli animali da esperimento verso i quali tale effetto era già consolidato. Gli studi di confronto hanno dimostrato che il kiwi (gold, in particolare), ha un effetto anti-ossidante maggiore rispetto a quello delle arance e dell'uva, per il suo contenuto di polifenoli, oltre che di vitamina C. Gli effetti antiossidanti del kiwi vanno considerati nella protezione dall'iperossidazione lipidica che interviene nel determinismo dell'aterosclerosi. Qualche perplessità riguarda il confronto con la varietà selezionata delle arance – le Navel -, essendo escluse quelle che nel nostro Paese, hanno dimostrato avere la maggiore azione anti-ossidante: sanguinello, moro e tarocco, per intenderci. La miglior dieta anti-ossidante è quella che contempla la nostra produzione tipica mediterranea
Fonte: Biol Pharm Bull. 2011;34(1):128-34.Anti-oxidant effects of kiwi fruit in vitro and in vivo.
Un gruppo di ricercatori giapponesi ha pubblicato una revisione e un nuovo studio centrati sulle proprietà salutari del kiwi. I ricercatori si sono occupati di porre a confronto le sue proprietà antiossidanti con quelle di altri frutti e di verificare se il kiwi, nelle varietà verde e gold, possieda le stesso potenziale antiossidante sull'uomo, oltre che sugli animali da esperimento verso i quali tale effetto era già consolidato. Gli studi di confronto hanno dimostrato che il kiwi (gold, in particolare), ha un effetto anti-ossidante maggiore rispetto a quello delle arance e dell'uva, per il suo contenuto di polifenoli, oltre che di vitamina C. Gli effetti antiossidanti del kiwi vanno considerati nella protezione dall'iperossidazione lipidica che interviene nel determinismo dell'aterosclerosi. Qualche perplessità riguarda il confronto con la varietà selezionata delle arance – le Navel -, essendo escluse quelle che nel nostro Paese, hanno dimostrato avere la maggiore azione anti-ossidante: sanguinello, moro e tarocco, per intenderci. La miglior dieta anti-ossidante è quella che contempla la nostra produzione tipica mediterranea
Fonte: Biol Pharm Bull. 2011;34(1):128-34.Anti-oxidant effects of kiwi fruit in vitro and in vivo.
Più attenzione ai micronutrienti
Un programma per la prevenzione del diabete, basato sul comportamento, potrebbe essere utile per la perdita di peso,ma non sembrerebbe la soluzione ideale.
Un gruppo di 66 donne adulte (età media 48.6 (+/- 10.8) obese e in sovrappeso (BMI 31.8 (+/-3.7) kg/m(-2) hanno partecipato a uno studio che aveva come obiettivo principale il controllo dell'assunzione alimentare quotidiana. Tutti i partecipanti hanno seguito via internet il Behavioural Weight-loss Programme, basato sui principi di prevenzione del diabete. In particolare, si procedeva misurando l'intake quotidiano tramite il FFQ (food frequency questionnaire) e stimando la quota energetica e la qualità della dieta con il Healthy Eating Index 2005, al tempo 0 e dopo 16 settimane di follow-up. Si è così evidenziato che l'intake energetico diminuiva autonomamente da circa 1900 kcal al giorno a circa 1370 kcal e allo stesso modo decresceva la densità energetica dei pasti quotidiani. A dispetto di un aumentato score della qualità della dieta, nel corso delle 16 settimane di follow-up, l'intake di micronutrienti era progressivamente calato. Si ritorna alla riflessione sui limiti del "fai da te", nell'adozione dei regimi ipocalorici via internet, anche se suggeriti dalle organizzazioni scientifiche: il costume alimentare tende a caratterizzarsi nella sua monotonia e nella scelta di menù standardizzati e facilmente perseguibili, con il risultato di un'evidente carenza nutrizionale. La supervisione medica costante e la dieta personalizzata sono sempre insostituibili.
Fonte: J Hum Nutr Diet. 2011 Mar 18 [Epub ahead of print]The diet quality of adult women participating in a behavioural weight-loss programme.
Un gruppo di 66 donne adulte (età media 48.6 (+/- 10.8) obese e in sovrappeso (BMI 31.8 (+/-3.7) kg/m(-2) hanno partecipato a uno studio che aveva come obiettivo principale il controllo dell'assunzione alimentare quotidiana. Tutti i partecipanti hanno seguito via internet il Behavioural Weight-loss Programme, basato sui principi di prevenzione del diabete. In particolare, si procedeva misurando l'intake quotidiano tramite il FFQ (food frequency questionnaire) e stimando la quota energetica e la qualità della dieta con il Healthy Eating Index 2005, al tempo 0 e dopo 16 settimane di follow-up. Si è così evidenziato che l'intake energetico diminuiva autonomamente da circa 1900 kcal al giorno a circa 1370 kcal e allo stesso modo decresceva la densità energetica dei pasti quotidiani. A dispetto di un aumentato score della qualità della dieta, nel corso delle 16 settimane di follow-up, l'intake di micronutrienti era progressivamente calato. Si ritorna alla riflessione sui limiti del "fai da te", nell'adozione dei regimi ipocalorici via internet, anche se suggeriti dalle organizzazioni scientifiche: il costume alimentare tende a caratterizzarsi nella sua monotonia e nella scelta di menù standardizzati e facilmente perseguibili, con il risultato di un'evidente carenza nutrizionale. La supervisione medica costante e la dieta personalizzata sono sempre insostituibili.
Fonte: J Hum Nutr Diet. 2011 Mar 18 [Epub ahead of print]The diet quality of adult women participating in a behavioural weight-loss programme.
L'appetito vien guardando
« Sono i bambini a presentare una maggior suggestione di fronte alla vista del consumo di cibi appetitosi »
In ambito alimentare è dimostrato che l’espressione facciale di una persona che mangia, sia questa di piacere o di disgusto, può influenzare il desiderio di consumare quel particolare cibo.
Tuttavia, questa suggestibilità sarebbe più forte nei bambini che negli adulti e potrebbe essere dovuta ad una debolezza emotiva del bambino di fronte alle manifestazioni mimiche altrui.
Nell’adulto l’impatto emotivo dell’espressione facciale sembra essere condizionato dallo stato corporeo della persona che esprime l’emozione. Il desiderio per un determinato cibo è infatti minore se la persona che manifesta piacere è obesa. Questo perchè il comportamento della persona sovrappeso viene associato ad uno stile di vita scorretto e insalubre.
Nei bambini, lo stereotipo della persona obesa è già in parte radicato e ai coetanei sovrappeso viene attribuita una personalità negativa, debole e poco stimolante. Tuttavia questa consapevolezza non sarebbe sufficiente per evitare alcuni comportamenti alimentari scorretti.
Nel presente studio è stato valutato, in bambini ed adulti, l’impatto di immagini in cui soggetti obesi e non-obesi consumavano cibi considerati appetitosi e non-appetitosi in associazione a differenti espressioni facciali di soggetti.
Come atteso, negli adulti, la vista di un individuo sano che consumava visibilmente con piacere un cibo appetitoso alimentava il desiderio di quel particolare cibo.
Al contrario, la vista dello stesso cibo consumato da un soggetto obeso, indipendentemente dalla sua espressione facciale, non produceva alcun desiderio.
Nei bambini, invece, il desiderio del cibo risultava influenzato principalmente dall’espressione facciale del soggetto. Addirittura, anche la vista di un cibo considerato poco appetitoso, stimolava il desiderio nei bambini se associato ad un’espressione di piacere. Tuttavia, la condizione obesa del soggetto non influenzava in alcun modo il desiderio dei bambini.
Nel bambino, dunque, la consapevolezza di un’attitudine sbagliata non sarebbe abbastanza forte per controllare le risposte emotive determinate dalla vista del cibo, specialmente quando queste vengono esacerbate dalla percezione di espressione di piacere altrui.
Autore: Laetitia R.D. Barthomeuf, Sylvie M.N. Droit-Volet, and Sylvie M.E. Rousset
Fonte: Obesity (2011) 19 5, 939–945. doi:10.1038/oby.2011.26
In ambito alimentare è dimostrato che l’espressione facciale di una persona che mangia, sia questa di piacere o di disgusto, può influenzare il desiderio di consumare quel particolare cibo.
Tuttavia, questa suggestibilità sarebbe più forte nei bambini che negli adulti e potrebbe essere dovuta ad una debolezza emotiva del bambino di fronte alle manifestazioni mimiche altrui.
Nell’adulto l’impatto emotivo dell’espressione facciale sembra essere condizionato dallo stato corporeo della persona che esprime l’emozione. Il desiderio per un determinato cibo è infatti minore se la persona che manifesta piacere è obesa. Questo perchè il comportamento della persona sovrappeso viene associato ad uno stile di vita scorretto e insalubre.
Nei bambini, lo stereotipo della persona obesa è già in parte radicato e ai coetanei sovrappeso viene attribuita una personalità negativa, debole e poco stimolante. Tuttavia questa consapevolezza non sarebbe sufficiente per evitare alcuni comportamenti alimentari scorretti.
Nel presente studio è stato valutato, in bambini ed adulti, l’impatto di immagini in cui soggetti obesi e non-obesi consumavano cibi considerati appetitosi e non-appetitosi in associazione a differenti espressioni facciali di soggetti.
Come atteso, negli adulti, la vista di un individuo sano che consumava visibilmente con piacere un cibo appetitoso alimentava il desiderio di quel particolare cibo.
Al contrario, la vista dello stesso cibo consumato da un soggetto obeso, indipendentemente dalla sua espressione facciale, non produceva alcun desiderio.
Nei bambini, invece, il desiderio del cibo risultava influenzato principalmente dall’espressione facciale del soggetto. Addirittura, anche la vista di un cibo considerato poco appetitoso, stimolava il desiderio nei bambini se associato ad un’espressione di piacere. Tuttavia, la condizione obesa del soggetto non influenzava in alcun modo il desiderio dei bambini.
Nel bambino, dunque, la consapevolezza di un’attitudine sbagliata non sarebbe abbastanza forte per controllare le risposte emotive determinate dalla vista del cibo, specialmente quando queste vengono esacerbate dalla percezione di espressione di piacere altrui.
Autore: Laetitia R.D. Barthomeuf, Sylvie M.N. Droit-Volet, and Sylvie M.E. Rousset
Fonte: Obesity (2011) 19 5, 939–945. doi:10.1038/oby.2011.26
KLF14 : il Gene su cui puntare
E' stato scoperto un gene chiave per il controllo dell'espressione di diverse funzioni metaboliche implicate nel diabete 2 e nell'obesità.
Lo dimostrano i risultati di una ricerca condotta presso il King's College di Londra. Si tratta del KLF14, un gene regolatore, che già in studi precedenti aveva mostrato una “morfologia” a mosaico legata al controllo di molteplici funzioni metaboliche. Negli ultimi esperimenti il KLF14 è stato ampiamente caratterizzato e si è visto che esprime due forme diverse: una cis e una trans. La forma trans, in particolare, oltre a possedere funzioni di controllo che riguardano il diabete 2 e l'ipercolesterolemia, mostra una variante che sembra maggiormente implicata nel controllo del metabolismo del tessuto adiposo.
I ricercatori hanno per ora studiato il genoma di coppie di gemelli inglesi (femmine) e un gruppo di islandesi e hanno confermato la presenza di una variante (trans) KLF14 (trans-eQTL) alla cui espressione quantitativa sono correlate diverse funzioni metaboliche. E' dunque possibile che una terapia genica, mirata alle varianti del KLF14, sia efficace per contrastare l'insorgenza dell'obesità e delle sue complicanze metaboliche. Di certo, di fronte alla continua scoperta di geni che favoriscono il sovrappeso e le patologie associate, la terapia attuale rimane nella dieta a basso indice glicemico e a bassa densità energetica e alla costante attività fisica a partire dalla più tenera età.
Fonte: Nat Genet. 2011 May 15.Identification of an imprinted master trans regulator at the KLF14 locus related to multiple metabolic phenotypes.
Lo dimostrano i risultati di una ricerca condotta presso il King's College di Londra. Si tratta del KLF14, un gene regolatore, che già in studi precedenti aveva mostrato una “morfologia” a mosaico legata al controllo di molteplici funzioni metaboliche. Negli ultimi esperimenti il KLF14 è stato ampiamente caratterizzato e si è visto che esprime due forme diverse: una cis e una trans. La forma trans, in particolare, oltre a possedere funzioni di controllo che riguardano il diabete 2 e l'ipercolesterolemia, mostra una variante che sembra maggiormente implicata nel controllo del metabolismo del tessuto adiposo.
I ricercatori hanno per ora studiato il genoma di coppie di gemelli inglesi (femmine) e un gruppo di islandesi e hanno confermato la presenza di una variante (trans) KLF14 (trans-eQTL) alla cui espressione quantitativa sono correlate diverse funzioni metaboliche. E' dunque possibile che una terapia genica, mirata alle varianti del KLF14, sia efficace per contrastare l'insorgenza dell'obesità e delle sue complicanze metaboliche. Di certo, di fronte alla continua scoperta di geni che favoriscono il sovrappeso e le patologie associate, la terapia attuale rimane nella dieta a basso indice glicemico e a bassa densità energetica e alla costante attività fisica a partire dalla più tenera età.
Fonte: Nat Genet. 2011 May 15.Identification of an imprinted master trans regulator at the KLF14 locus related to multiple metabolic phenotypes.
Trasformare il grasso cattivo in buono : futura terapia dell'obesità ?
« Trasformare il grasso corporeo “cattivo” in una forma meno dannosa o addirittura “buona”? Un obiettivo terapeutico distante, ma immaginabile. »
Abolendo l'espressione di una proteina attiva a livello cerebrale, i ricercatori della Johns Hopkins University hanno dimostrato che, non solo, veniva favorito il controllo del peso corporeo ma era anche possibile convertire nell'animale parte dei depositi adiposi in una forma di grasso capace di bruciare più efficacemente le calorie.
Animale e uomo possiedono entrambi due tipi di tessuto adiposo: bianco e bruno. Il primo, "cattivo", viene depositato principalmente attorno ai fianchi nel sovrappeso e rappresenta il sito preferenziale di stoccaggio delle calorie extra introdotte con la dieta.
Il tessuto adiposo bruno,"buono", è invece noto per la sua capacità di bruciare le calorie e produrre calore. Alla nascita il bambino possiede estesi depositi di tessuto bruno ma con la crescita questo viene sostituito da tessuto bianco e nell’adulto ne rimane solo una componente minima.
Nello studio i ricercatori hanno investigato gli effetti dell’inattivazione genetica del neuropeptide Y (NPY), un messaggero chimico stimolante l’appetito attivo a livello ipotalamico e coinvolto nella regolazione dei livelli di grasso corporeo.
Effettivamente, la soppressione di NPY determinava livelli più bassi di grasso nell’animale, in particolare nell’area inguinale, il corrispettivo umano dei fianchi. Ancora più soprendentemente, al posto del tessuto adiposo bianco atteso, i ricercatori hanno ritrovato tracce di tessuto adiposo bruno. L'esistenza di questo tessuto era indicata dalla presenza di elevati livelli di uncoupling protein-1 (UCP-1), una proteina specifica del grasso di tipo bruno e necessaria per la produzione di calore metabolico.
Una tale trasformazione sarebbe attribuibile alla riattivazione di cellule staminali dormienti di tessuto adiposo bruno presenti nel tessuto bianco. Infatti, mentre il tessuto bruno vero e proprio non è presente, le sue cellule staminali sembrano persistere in forma inattiva nell’adulto.
Lo studio ha prospettato la possibilità riprodurre lo stesso effetto negli individui sovrappeso, trapiantando o iniettando cellule staminali di tessuto adiposo bruno a livello sottocutaneo, così da stimolare la spesa calorica e favorire la perdita di peso. Tuttavia, solo ulteriore ricerca potrà chiarire l'attuabilità di un simile approccio.
Autore: Pei-Ting Chao, Liang Yang, Susan Aja, Timothy H. Moran, Sheng Bi.
Fonte: Cell Metabolism, 2011; 13 (5): 573-583 DOI: 10.1016/j.cmet.2011.02.019
Abolendo l'espressione di una proteina attiva a livello cerebrale, i ricercatori della Johns Hopkins University hanno dimostrato che, non solo, veniva favorito il controllo del peso corporeo ma era anche possibile convertire nell'animale parte dei depositi adiposi in una forma di grasso capace di bruciare più efficacemente le calorie.
Animale e uomo possiedono entrambi due tipi di tessuto adiposo: bianco e bruno. Il primo, "cattivo", viene depositato principalmente attorno ai fianchi nel sovrappeso e rappresenta il sito preferenziale di stoccaggio delle calorie extra introdotte con la dieta.
Il tessuto adiposo bruno,"buono", è invece noto per la sua capacità di bruciare le calorie e produrre calore. Alla nascita il bambino possiede estesi depositi di tessuto bruno ma con la crescita questo viene sostituito da tessuto bianco e nell’adulto ne rimane solo una componente minima.
Nello studio i ricercatori hanno investigato gli effetti dell’inattivazione genetica del neuropeptide Y (NPY), un messaggero chimico stimolante l’appetito attivo a livello ipotalamico e coinvolto nella regolazione dei livelli di grasso corporeo.
Effettivamente, la soppressione di NPY determinava livelli più bassi di grasso nell’animale, in particolare nell’area inguinale, il corrispettivo umano dei fianchi. Ancora più soprendentemente, al posto del tessuto adiposo bianco atteso, i ricercatori hanno ritrovato tracce di tessuto adiposo bruno. L'esistenza di questo tessuto era indicata dalla presenza di elevati livelli di uncoupling protein-1 (UCP-1), una proteina specifica del grasso di tipo bruno e necessaria per la produzione di calore metabolico.
Una tale trasformazione sarebbe attribuibile alla riattivazione di cellule staminali dormienti di tessuto adiposo bruno presenti nel tessuto bianco. Infatti, mentre il tessuto bruno vero e proprio non è presente, le sue cellule staminali sembrano persistere in forma inattiva nell’adulto.
Lo studio ha prospettato la possibilità riprodurre lo stesso effetto negli individui sovrappeso, trapiantando o iniettando cellule staminali di tessuto adiposo bruno a livello sottocutaneo, così da stimolare la spesa calorica e favorire la perdita di peso. Tuttavia, solo ulteriore ricerca potrà chiarire l'attuabilità di un simile approccio.
Autore: Pei-Ting Chao, Liang Yang, Susan Aja, Timothy H. Moran, Sheng Bi.
Fonte: Cell Metabolism, 2011; 13 (5): 573-583 DOI: 10.1016/j.cmet.2011.02.019
Adolescenza in sovrappeso e rischio di patologia coronarica
« Un elevato BMI durante l'adolescenza favorisce lo sviluppo di patologie coronariche in età adulta »
L’obesità in età adulta costituisce un importante fattore di rischio per lo sviluppo di diabete di tipo 2 e patologie coronariche, tuttavia il contributo del sovrappeso durante l’adolescenza a queste condizioni resta poco chiaro.
Per valutare l’impatto del sovrappeso in giovane età sul rischio cardiovascolare e di diabete è stato allestito uno studio prospettico coinvolgente 37.674 individui di sesso maschile apparentemente sani. Le misurazioni dell’indice di massa corporea (BMI) sono state effettuate ad intervalli regolari a partire dall’età di 17 anni dei soggetti in studio.
Durante un periodo di follow-up medio di 17 anni si sono registrati 1173 casi di diabete e 327 di patologia coronarica.
L’analisi statistica multivariata aggiustata per età, storia familiare, pressione sanguigna, fattori legati allo stile di vita e marker sanguigni ha evidenziato che un BMI elevato durante l’adolescenza è un predittore sia di diabete che di patologia coronarica.
Ulteriori aggiustamenti per i valori di BMI in età adulta abolivano l’associazione del valore di BMI nell’adolescenza con lo sviluppo di diabete ma non con la patologia coronarica.
Dopo l’aggiustamento dei valori di BMI come variabili continue in modelli multivariati, solo un elevato BMI in età adulta era significativamente associato con il diabete. Al contrario, un BMI elevato sia nell’adolescenza che in età adulta risultava indipendentemente associato allo sviluppo di patologia cardiaca coronarica.
Queste osservazioni supportano l’ipotesi che, a differenza del diabete, i processi responsabili dello sviluppo delle patologie coronariche, prima fra tutte l’aterosclerosi, siano più graduali e siano determinati dal sovrappeso già in età adolescenziale.
Autore: Tirosh A, Shai I, Afek A, Dubnov-Raz G, Ayalon N, Gordon B, Derazne E, Tzur D, Shamis A, Vinker S, Rudich A.
Fonte: N Engl J Med. 2011 Apr 7;364(14):1315-25.
L’obesità in età adulta costituisce un importante fattore di rischio per lo sviluppo di diabete di tipo 2 e patologie coronariche, tuttavia il contributo del sovrappeso durante l’adolescenza a queste condizioni resta poco chiaro.
Per valutare l’impatto del sovrappeso in giovane età sul rischio cardiovascolare e di diabete è stato allestito uno studio prospettico coinvolgente 37.674 individui di sesso maschile apparentemente sani. Le misurazioni dell’indice di massa corporea (BMI) sono state effettuate ad intervalli regolari a partire dall’età di 17 anni dei soggetti in studio.
Durante un periodo di follow-up medio di 17 anni si sono registrati 1173 casi di diabete e 327 di patologia coronarica.
L’analisi statistica multivariata aggiustata per età, storia familiare, pressione sanguigna, fattori legati allo stile di vita e marker sanguigni ha evidenziato che un BMI elevato durante l’adolescenza è un predittore sia di diabete che di patologia coronarica.
Ulteriori aggiustamenti per i valori di BMI in età adulta abolivano l’associazione del valore di BMI nell’adolescenza con lo sviluppo di diabete ma non con la patologia coronarica.
Dopo l’aggiustamento dei valori di BMI come variabili continue in modelli multivariati, solo un elevato BMI in età adulta era significativamente associato con il diabete. Al contrario, un BMI elevato sia nell’adolescenza che in età adulta risultava indipendentemente associato allo sviluppo di patologia cardiaca coronarica.
Queste osservazioni supportano l’ipotesi che, a differenza del diabete, i processi responsabili dello sviluppo delle patologie coronariche, prima fra tutte l’aterosclerosi, siano più graduali e siano determinati dal sovrappeso già in età adolescenziale.
Autore: Tirosh A, Shai I, Afek A, Dubnov-Raz G, Ayalon N, Gordon B, Derazne E, Tzur D, Shamis A, Vinker S, Rudich A.
Fonte: N Engl J Med. 2011 Apr 7;364(14):1315-25.
Il cibo come una droga
« Meccanismi neuronali simili sottendono le due dipendenze »
I ricercatori della Yale University hanno riscontrato nei soggetti caratterizzati dal consumo compulsivo del cibo l’attivazione di circuiti cerebrali simili a quelli caratteristici delle dipendenze da sostanze additive.
Questi soggetti presentano infatti una maggiore attività neurale nelle aree cerebrali deputate all’elaborazione delle sensazioni di gratificazione e al rinforzo di meccanismi istruttivi che favoriscono particolari comportamenti.
Il team guidato da Ashley N. Gearhardt ha esaminato in alcuni individui obesi il pattern di attivazione di specifici circuiti neurali in risposta a stimoli che segnalavano l’imminente somministrazione di cibi altamente appetitosi.
Mediante risonanza magnetica funzionale, i ricercatori hanno riscontrato un’elevato grado di attivazione di particolari aree cerebrali - corteccia cingolata anteriore, corteccia orbitofrontale mediale e amigdala.
Il coinvolgimento di queste aree è notoriamente richiesto per l’elaborazione della componente motivazionale associata al consumo delle sostanze nei soggetti dipendenti.
Il consumo compulsivo di cibo sarebbe dunque in parte guidato dall’elaborazione anticipata della gratificazione derivante dal consumo del cibo e, proprio come per gli individui dipendenti da sostanze stupefacenti, i soggetti obesi sarebbero più reattivi fisiologicamente e psicologicamente agli stimoli associati al cibo.
Questo studio è il primo a suggerire un’associazione tra il consumo compulsivo di cibo e un pattern specifico di attivazione neurale. Per questo motivo, se alcuni cibi sono particolarmente addittivi viene così giustificata la difficoltà incontrata da alcune persone a controllare il proprio peso.
Autore: Ashley N. Gearhardt, MS, MPhil; Sonja Yokum, PhD; Patrick T. Orr, MS, MPhil; Eric Stice, PhD; William R. Corbin, PhD; Kelly D. Brownell, PhD
Fonte: Arch Gen Psychiatry. Published online April 4, 2011. doi:10.1001/archgenpsychiatry.2011.32
I ricercatori della Yale University hanno riscontrato nei soggetti caratterizzati dal consumo compulsivo del cibo l’attivazione di circuiti cerebrali simili a quelli caratteristici delle dipendenze da sostanze additive.
Questi soggetti presentano infatti una maggiore attività neurale nelle aree cerebrali deputate all’elaborazione delle sensazioni di gratificazione e al rinforzo di meccanismi istruttivi che favoriscono particolari comportamenti.
Il team guidato da Ashley N. Gearhardt ha esaminato in alcuni individui obesi il pattern di attivazione di specifici circuiti neurali in risposta a stimoli che segnalavano l’imminente somministrazione di cibi altamente appetitosi.
Mediante risonanza magnetica funzionale, i ricercatori hanno riscontrato un’elevato grado di attivazione di particolari aree cerebrali - corteccia cingolata anteriore, corteccia orbitofrontale mediale e amigdala.
Il coinvolgimento di queste aree è notoriamente richiesto per l’elaborazione della componente motivazionale associata al consumo delle sostanze nei soggetti dipendenti.
Il consumo compulsivo di cibo sarebbe dunque in parte guidato dall’elaborazione anticipata della gratificazione derivante dal consumo del cibo e, proprio come per gli individui dipendenti da sostanze stupefacenti, i soggetti obesi sarebbero più reattivi fisiologicamente e psicologicamente agli stimoli associati al cibo.
Questo studio è il primo a suggerire un’associazione tra il consumo compulsivo di cibo e un pattern specifico di attivazione neurale. Per questo motivo, se alcuni cibi sono particolarmente addittivi viene così giustificata la difficoltà incontrata da alcune persone a controllare il proprio peso.
Autore: Ashley N. Gearhardt, MS, MPhil; Sonja Yokum, PhD; Patrick T. Orr, MS, MPhil; Eric Stice, PhD; William R. Corbin, PhD; Kelly D. Brownell, PhD
Fonte: Arch Gen Psychiatry. Published online April 4, 2011. doi:10.1001/archgenpsychiatry.2011.32
Lo stile di vita e la menopausa
La dietoterapia e l'esercizio fisico, singolarmente o combinati, migliorano la composizione corporea e il peso delle donne in menopausa.
Come è noto anche piccoli cambiamenti dello stile di vita possono fare molto nel trattamento dell'obesità. Un gruppo di ricercatori americani della University of Washington School of Medicine di Seattle (Washington, USA) ha condotto uno studio osservazionale randomizzato della durata di 1 anno su un totale di 439 donne in postmenopausa sovrappeso o obese, che conducevano una vita sedentaria. Al tempo 0 le donne sono state suddivise in 4 gruppi, randomizzati e incrociati in cieco. Un gruppo (D) riceveva la sola dieta (ipocalorica e ipolipidica); il secondo gruppo (E) riceveva istruzioni per un programma di solo esercizio fisico (45-min di esercizio aerobico per 5 giorni la settimana); un altro gruppo (D+E) riceveva la dieta abbinata all'esercizio fisico e infine il gruppo di controllo (C) che non affrontava nessun cambiamento dello stile di vita. Le donne reclutate erano in maggioranza di etnia bianca non Ispanica (85%) di età media 58.0 ± 5.0 anni, BMI medio 30.9 ± 4.0 kg/m(2) e la percentuale di grassi corporei era in media 47.8 ± 4.4%. Rispetto al gruppo di controllo, la perdita di peso dopo 12 mesi è stata in media -8.5% per il gruppo D, -2.4% per il gruppo E, e -10.8% per il gruppo D+E. Il BMI, la circonferenza vita e la % della massa grassa, subivano decrementi con un trend simile a quello del calo ponderale. Dieta ed esercizio fisico confermano la loro superiore efficacia nei programmi di dimagrimento.
Fonte: Obesity (Silver Spring). 2011 Apr 14. [Epub ahead of print]Effect of Diet and Exercise, Alone or Combined, on Weight and Body Composition in Overweight-to-Obese Postmenopausal Women.
Come è noto anche piccoli cambiamenti dello stile di vita possono fare molto nel trattamento dell'obesità. Un gruppo di ricercatori americani della University of Washington School of Medicine di Seattle (Washington, USA) ha condotto uno studio osservazionale randomizzato della durata di 1 anno su un totale di 439 donne in postmenopausa sovrappeso o obese, che conducevano una vita sedentaria. Al tempo 0 le donne sono state suddivise in 4 gruppi, randomizzati e incrociati in cieco. Un gruppo (D) riceveva la sola dieta (ipocalorica e ipolipidica); il secondo gruppo (E) riceveva istruzioni per un programma di solo esercizio fisico (45-min di esercizio aerobico per 5 giorni la settimana); un altro gruppo (D+E) riceveva la dieta abbinata all'esercizio fisico e infine il gruppo di controllo (C) che non affrontava nessun cambiamento dello stile di vita. Le donne reclutate erano in maggioranza di etnia bianca non Ispanica (85%) di età media 58.0 ± 5.0 anni, BMI medio 30.9 ± 4.0 kg/m(2) e la percentuale di grassi corporei era in media 47.8 ± 4.4%. Rispetto al gruppo di controllo, la perdita di peso dopo 12 mesi è stata in media -8.5% per il gruppo D, -2.4% per il gruppo E, e -10.8% per il gruppo D+E. Il BMI, la circonferenza vita e la % della massa grassa, subivano decrementi con un trend simile a quello del calo ponderale. Dieta ed esercizio fisico confermano la loro superiore efficacia nei programmi di dimagrimento.
Fonte: Obesity (Silver Spring). 2011 Apr 14. [Epub ahead of print]Effect of Diet and Exercise, Alone or Combined, on Weight and Body Composition in Overweight-to-Obese Postmenopausal Women.
Attaccamento bambino - genitori e obesità infantile
« L’insicurezza del bambino di fronte alle situazioni stressanti è una possibile causa dell'obesità infantile »
Secondo gli psicologi i bambini che non hanno un rapporto emozionale sicuro con i propri genitori, in particolare con la madre, presentano un maggior rischio di sviluppare l'obesità entro i 4 anni e mezzo di età.
Quando il bambino vede nei genitori un riparo è anche più libero di esplorare gli ambienti, si adatta con facilità a nuove persone e reagisce positivamente alle situazioni stressanti. Al contrario, i bambini che vivono conflittualmente il rapporto con i propri genitori rispondono allo stress con irrascibilità, paura, ansia e rifiuto del contatto con altre persone.
Poiché le aree cerebrali che governano le risposte emozionali sono in parte sovrapposte a quelle responsabili del controllo dell’appetito e del bilancio energetico, vi sarebbe una partecipazione di entrambi i sistemi nella predisposizione allo sviluppo dell’obesità nel bambino. L’ipotesi vuole che un’attaccamento insicuro dia luogo a frequenti risposte emotive esagerate capaci di alterare il normale sviluppo e funzionamento dei sistemi di mantenimento dell’omeostasi energetica favorendo così l'insorgenza dell'obesità infantile.
La regolazione della risposta emotiva allo stress si va plasmando nella primissima infanzia anche grazie all’interazione bambino-genitore. In questo contesto, la creazione di un “attaccamento sicuro” è un forte indicatore del corretto sviluppo emozionale nella risposta alle situazioni stressanti.
La predisposizione all’obesità infantile avrebbe dunque origine a livello cerebrale, in quelle aree deputate al controllo delle risposte allo stress ed inserite nel più esteso sistema limbico, quest’ultimo coinvolto nella regolazione ormonale del ciclo sonno-veglia, di fame e sete e di numerosi altri processi metabolici.
Per prevenire l’obesità infantile non basterebbe dunque un'attenzione rivolta alla sola alimentazione e all'attività fisica. Un importante approccio comportamentale consisterebbe infatti nell’aiutare il bambino a sviluppare dei modi salutari per regolare le proprie emozioni e comportamenti di fronte alle situazioni stressanti.
Autore: S. E. Anderson, R. C. Whitaker.
Fonte: Archives of Pediatrics and Adolescent Medicine, 2011; 165 (3): 235 DOI: 10.1001/archpediatrics.2010.292
Secondo gli psicologi i bambini che non hanno un rapporto emozionale sicuro con i propri genitori, in particolare con la madre, presentano un maggior rischio di sviluppare l'obesità entro i 4 anni e mezzo di età.
Quando il bambino vede nei genitori un riparo è anche più libero di esplorare gli ambienti, si adatta con facilità a nuove persone e reagisce positivamente alle situazioni stressanti. Al contrario, i bambini che vivono conflittualmente il rapporto con i propri genitori rispondono allo stress con irrascibilità, paura, ansia e rifiuto del contatto con altre persone.
Poiché le aree cerebrali che governano le risposte emozionali sono in parte sovrapposte a quelle responsabili del controllo dell’appetito e del bilancio energetico, vi sarebbe una partecipazione di entrambi i sistemi nella predisposizione allo sviluppo dell’obesità nel bambino. L’ipotesi vuole che un’attaccamento insicuro dia luogo a frequenti risposte emotive esagerate capaci di alterare il normale sviluppo e funzionamento dei sistemi di mantenimento dell’omeostasi energetica favorendo così l'insorgenza dell'obesità infantile.
La regolazione della risposta emotiva allo stress si va plasmando nella primissima infanzia anche grazie all’interazione bambino-genitore. In questo contesto, la creazione di un “attaccamento sicuro” è un forte indicatore del corretto sviluppo emozionale nella risposta alle situazioni stressanti.
La predisposizione all’obesità infantile avrebbe dunque origine a livello cerebrale, in quelle aree deputate al controllo delle risposte allo stress ed inserite nel più esteso sistema limbico, quest’ultimo coinvolto nella regolazione ormonale del ciclo sonno-veglia, di fame e sete e di numerosi altri processi metabolici.
Per prevenire l’obesità infantile non basterebbe dunque un'attenzione rivolta alla sola alimentazione e all'attività fisica. Un importante approccio comportamentale consisterebbe infatti nell’aiutare il bambino a sviluppare dei modi salutari per regolare le proprie emozioni e comportamenti di fronte alle situazioni stressanti.
Autore: S. E. Anderson, R. C. Whitaker.
Fonte: Archives of Pediatrics and Adolescent Medicine, 2011; 165 (3): 235 DOI: 10.1001/archpediatrics.2010.292
Troppo magre a rischio
« Un peso corporeo eccessivamente basso è responsabile di alterazioni ormonali »
Le donne troppo magre possono presentare problemi di infertilità e sono a rischio per lo sviluppo di osteoporosi.
La riduzione eccessiva di tessuto adiposo determina l'arresto della produzione di leptina. La mancanza di leptina sembra determinare l'arresto del ciclo mestruale e la progressiva perdita di matrice minerale ossea.
I ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center hanno dimostrato che il trattamento farmacologico con una forma sintetica dell’ormone leptina permette di ristabilire il normale ciclo ormonale e di prevenire in parte il rischio di fratture ossee.
L’efficacia della terapia è stata valutata durante un trial clinico double-blinded, placebo-controlled randomizzato con che prevedeva la sommistrazione di leptina umana ricombinante per un periodo di 36 settimane in donne con amenorrea ipotalamica ricercando gli effetti sulle funzioni riproduttive, neuroendocrine e sul metabolismo osseo.
Lo studio ha coinvolto ragazze di età liceale affette da disturbi alimentari - anoressia nervosa - e atlete sottoposte ad esercizio intenso, due categorie femminili tipicamente affette da disturbi neuroendocrini.
La terapia con leptina ha permesso il recupero del ciclo mestruale a distanza di un mese dall’inizio del trattamento. Inoltre sono state riscontrate alterazioni nei markers del metabolismo osseo indicativi di nuova formazione ossea. Tuttavia non è stato riscontrato alcun miglioramento nella densità minerale ossea durante il breve periodo dello studio.
Un' ulteriore ricerca è necessaria per comprendere se il trattamento con leptina determini un’aumento della densità ossea e del contenuto minerale, entrambi fattori chiave nella prevenzione delle fratture osteoporotiche.
Autore: Sharon H. Chou, John P. Chamberland, Xiaowen Liu, Giuseppe Matarese, Chuanyun Gao, Rianna Stefanakis, Mary T. Brinkoetter, Huizhi Gong, Kalliopi Arampatzi, and Christos S. Mantzoros
Fonte: PNAS April 4, 2011 doi: 10.1073/pnas.1015674108
Le donne troppo magre possono presentare problemi di infertilità e sono a rischio per lo sviluppo di osteoporosi.
La riduzione eccessiva di tessuto adiposo determina l'arresto della produzione di leptina. La mancanza di leptina sembra determinare l'arresto del ciclo mestruale e la progressiva perdita di matrice minerale ossea.
I ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center hanno dimostrato che il trattamento farmacologico con una forma sintetica dell’ormone leptina permette di ristabilire il normale ciclo ormonale e di prevenire in parte il rischio di fratture ossee.
L’efficacia della terapia è stata valutata durante un trial clinico double-blinded, placebo-controlled randomizzato con che prevedeva la sommistrazione di leptina umana ricombinante per un periodo di 36 settimane in donne con amenorrea ipotalamica ricercando gli effetti sulle funzioni riproduttive, neuroendocrine e sul metabolismo osseo.
Lo studio ha coinvolto ragazze di età liceale affette da disturbi alimentari - anoressia nervosa - e atlete sottoposte ad esercizio intenso, due categorie femminili tipicamente affette da disturbi neuroendocrini.
La terapia con leptina ha permesso il recupero del ciclo mestruale a distanza di un mese dall’inizio del trattamento. Inoltre sono state riscontrate alterazioni nei markers del metabolismo osseo indicativi di nuova formazione ossea. Tuttavia non è stato riscontrato alcun miglioramento nella densità minerale ossea durante il breve periodo dello studio.
Un' ulteriore ricerca è necessaria per comprendere se il trattamento con leptina determini un’aumento della densità ossea e del contenuto minerale, entrambi fattori chiave nella prevenzione delle fratture osteoporotiche.
Autore: Sharon H. Chou, John P. Chamberland, Xiaowen Liu, Giuseppe Matarese, Chuanyun Gao, Rianna Stefanakis, Mary T. Brinkoetter, Huizhi Gong, Kalliopi Arampatzi, and Christos S. Mantzoros
Fonte: PNAS April 4, 2011 doi: 10.1073/pnas.1015674108